Anche un quotidiano francese tradizionale a sinistra del centro ha dedicato un numero speciale a “La fine della disoccupazione di massa”. Le cifre parlano chiaro (e dovrebbero essere meditate da coloro che in Italia licenziato un Documento di Programmazione Economica e Finanziaria, Dpef, approssimativo – a volere essere generosi) stanno predisponendo la legge finanziaria e le riforme in materia di mercato del lavoro e previdenza. In primo luogo, all’ultima conta (fine aprile), in Europa (tanto la zona dell’euro quanto l’insieme dell’Ue a 27), il numero di coloro alla ricerca di lavoro (nel lessico giornalistico il tasso di disoccupazione) è sceso al 7,1% delle forze di lavoro (due punti percentuali in meno rispetto a quanto segnato due anni fa). L’Italia è entrata a buon diritto tra i Paesi con un tasso di disoccupazione moderato (il 6,2% a livello nazionale ma concentrato nel Mezzogiorno e nei bacini a riconversione industriale nel Centro-Nord). In Francia, il tasso di disoccupazione è ancora l’8,6% della forza lavoro, ma, per la prima in 25 anni, è sceso, in termini assoluti, al di sotto di due milioni di uomini e donne. La Polonia e l’Estonia contano, nell’Ue, tassi di disoccupazione più alti di quello della Francia. Ancora maggiore il successo segnato in Germania: si è passati dai 5 milioni di disoccupati nell’aprile 2005 ai 3,7 all’ultima rilevazione: la disoccupazione diminuisce, senza cessa, ogni mese da 15 mesi. Quindi, né le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione né il processo di integrazione economica internazionale hanno creato, in Europa, quella disoccupazione di massa, senza alternative concrete di politica economica ed industriale, temuta una diecina di anni fa: si pensi, ad esempio, alla visione apocalittica della raccolta di saggi “Disoccupazione di fine secolo”, curata da Pierluigi Ciocca, e nata in gran misura nell’ambito del servizio studi della Banca d’Italia alla metà degli Anni 90.
In secondo luogo, non è tutto oro – è vero - ciò che luccica. L’Employment Outlook dell’Ocse pubblicato a fine giugno sottolinea che a partire dal 1995 sono aumentate in misura considerevole le differenze salariali (specialmente se computate sulla base del netto in busta paga). Per questo motivo, c’è un crescente interesse (anche in Italia) nella “flexsecurity” : lavoratori e sindacati dovrebbero essere pronti a rinunciare alla sicurezza nel posto di lavoro specifico per una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro in generale accompagnata da ammortizzatori e passerelle per transitare da un impiego all’altro. Tuttavia, è sempre l’Employment Outlook dell’Ocse a ricordare come “un’altra strada possibile consiste nel rendere più flessibili le normative sul lavoro”.
In terzo luogo, non è soltanto l’Ocse ma anche l’esclusivo (il numero dei soci non può superare 30 e devono essere tutti accademici di rango) Cercle des Economistes francese (un circolo – occorre rammentarlo – in generale a sinistra del centro) a riconoscere come l’allontanamento dello spettro della disoccupazione di massa debba attribuirsi alle riforme in senso liberale del mercato del lavoro. Quelle già fatte in Italia ed in Germania. Quelle di cui la Francia ha mutuato alcuni istituti (quali il contratto di primo impiego) tre anni fa e che il nuovo Esecutivo si appresta ad estendere ed approfondire con una normativa di urgenza che dovrebbe essere varata prima delle vacanze estive dell’Assemblea Nazionale. Un sindacato vasto ed intelligence come Force Ouvrière ha concluso il 29 giugno, a Lilla, il proprio 21simo congresso chiedendo, in pratica, l’abolizione di quel resta delle pensioni di anzianità e di misure per favorire l’occupazione e dei più giovani e dei più anziani. In questo quadro, l’Italia di Prodi e della triplice appare controcorrente: sembra remare non solo verso lo scasso dei conti pubblici ma anche verso una nuova disoccupazione di massa.
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