In questa lunga estate calda, le cronache sulla vita delle aziende nelle prime pagine della stampa finanziaria riguardano, in gran misura, tensioni e fibrillazioni tra s.p.a. (Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) di cui i Comuni, le Province ed in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti. E’ un universo vasto, ma poco conosciuto. E di cui poco si è parlato sino alla presentazione del disegno di legge sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali che avviato, con grandi aspettative l’agosto 2006, ha vita non affatto facile in Parlamento.
Una radiografia utile del settore è stata messa a punto dalla Fondazione Eni Enrico Mattei (Feem) e presentata a metà luglio ad un seminario ristretto organizzato dalla Fondazioni Iri a metà luglio; verrà pubblicata in autunno. L’analisi si distingue da altre effettuate in questi ultimi anni – ad esempio dallo studio della Fondazione Civicum che ha esaminato i dati di bilancio di 35 società a controllo comunale in sei grandi comuni e dalle ricerche periodiche della Conservizi – perché esamina il capitalismo municipale , la forma più consistente di imprenditoria pubblica dopo le privatizzazioni degli ultimi tre lustri, sotto il profilo dell’entità della partecipazione delle autonomie locali in società di capitali invece che sotto quello della spesa, dell’occupazione o del ruolo degli enti locali (a cui sono affiliate) nella governance delle fondazioni bancarie, temi centrali delle analisi precedenti.
I risultati sollevano più interrogativi di quelli a cui rispondono. In primo luogo, le 369 imprese partecipate da enti locali formano oltre l’1% del pil nazionale ed hanno un numero di addetti che supera le 200.000 unità; in alcune Regioni, il capitalismo municipale rappresenta il 6% del pil prodotto in loco ed il 2% dell’occupazione. Siamo, quindi, alle prese con un fenomeno importante sotto il profilo sia dell’economia reale sia della finanza (e pubblica e d’impresa) sia, infine, dell’imprenditorialità.
Il capitalismo municipale è presente non soltanto nei comparti tradizionali dei servizi di pubblica utilità (come l’energia, l’acqua, i trasporti) ma anche in campi puramente di mercato e non necessariamente di competenza pubblica, come le costruzione, il commercio, il manifatturiero ed i servizi nei comparti più differenti e più diversificate. Ci sono incroci complessi nell’assetto azionario delle multiutility: ad esempio, l’azionista di maggioranza della GESAC (Società di gestione degli aeroporti campani) è una multinazionale di origine britannica e tra gli altri soci si contano oltre al Comune ed alla Provincia di Napoli, in posizione nettamente minoritaria, anche il Comune e la Provincia di Milano ed altri privati. La complessità dell’assetto azionario è una delle determinante delle difficoltà nei processi di aggregazioni in corso, sotto lo stimolo dell’integrazione europea ed internazionale.
Un aspetto dell’analisi riguarda gli effetti dell’ingresso di azionisti e capitale privato sugli indicatori consueti di redditività finanziaria; le società miste presentano redditività superiore di quelle solamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. L’eccezione sono i trasporti locali, su cui gravano forti vincoli politici a carattere occupazionale che di conseguenza influiscono negativamente su un significativo indice di efficienza- l’utile per addetto.
Quanto influisce la politica, specialmente quella a livello locale, sulle scelte imprenditoriali? Lo studio non fornisce una risposta puntuale: da un lato, si riconosce ormai generalmente l’esigenza di una professionale manageriale ben distinta da interferenze burocratiche e di politica di piccolo cabotaggio. Dall’altro, la presenza del capitalismo municipale (spesso in perdita) in settori di mercato che poco hanno a che fare con interessi di pubblica utilità suggerisce che a livello locale lo Stato produttore continua ad esistere con i difetti delle partecipazioni statali di un tempo (nonché della Rai, delle Poste, delle Ferrovie, dell’Alitalia ancora oggidì). La maggiore redditività delle società miste rispetto a quelle puramente pubbliche dovrebbe essere un impulso a privatizzare o a meglio regolamentare.
Il percorso non è semplice . Varie alternative sono indicate in un lavoro importante (ma non citato nella ricca bibliografia dell’analisi della Feem): i due volumi, per oltre 1000 pagine (ed in vendita a $ 470, circa € 400) curati da Ray Rees sull’economia delle aziende di pubblica utilità pubblicato alcuni mesi fa dalla casa editrice Cheltenham del Massachusetts. Vale la pena leggerlo prima di approntare la pubblicazione dello studio Feem.
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