martedì 31 luglio 2007

PERCHE’ LA TRATTATIVA PRIVATA NON SI ADDICE AD ALITALIA

Il tormentone Alitalia è arrivato all’ultimo atto. Il primo agosto si riunisce il Consiglio d’Amministrazione della compagnia che dovrà decidere quale impostazione dare al piano industriale dell’azienda, dopo il fallimento del beauty contest con cui , dal 29 dicembre scorso, si è tentato di privatizzarla gettando le basi per un’Opa totalitaria. Si susseguono nel frattempo , nel Palazzo, riunioni febbrili tra i Ministri interessati ed i loro esperti. A fianco di incontri pubblici molto corretti, e nello stile e nella sostanza (quali l’audizione del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tomaso Padoa-Schioppa), si svolgono riunioni che hanno fatto sobbalzare non solamente gli esperti del settore ma anche la stampa internazionale. Ad esempio, quella (molto pubblicizzata) tra il principale azionista di Air One con il Presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti (il quale nulla a che fare con gare ed appalti di aviolinea) al fine di informarlo di essere pronto a formulare un offerte vincolante se il capitolato viene modificato sotto alcuni aspetti (i livelli occupazionali, il vincolo a non rivendere entro un certo numero di anni).
E’ in questo clima che sta guadagnando terreno l’ipotesi di chiudere la partita a trattativa diretta , invitando a parteciparvi un certo numero di interessati (oltre a AirOne, Aereflot, il fondo Tpg e, semmai, Air France e Lufthansa) . La trattativa diretta non verrebbe gestita dalla pubblica amministrazione (al pari del beauty contest) ma dalla Alitalia in quanto s.p.a. In tal modo, si agirebbero le regole, italiane e soprattutto europee, che richiedono appalti pubblici – ivi compreso il nuovo Codice per gli Appalti approvato dal Consiglio dei Ministri venerdì scorso 27 luglio.
Tale marchingegno non si addice né all’Italia né all’Alitalia. In primo luogo, quali siano le sottigliezze giuridico-formali che barracuda-esperti volenterosi sono pronti ad immaginare, nell’età dell’integrazione economica mondiale esiste una lex mercatoria internazionale per le transazioni finanziarie e commerciali che prevede gare pubbliche per partite come quelle della vendita dell’Alitalia , o del suo pacchetto azionario di riferimento. Tale lex mercatoria è molto più cogente delle norme scritte in quanto non seguirla comporta un danno reputazionale serio.. E all’Italia ed all’Alitalia. Secondo analisi econometriche internazionali, tale danno sarebbe pari a ben 16 volte l’eventuale perdita finanziaria Daremmo l’impressione (a torto od a ragione) di volere sfuggire non soltanto alle regole che ci siamo appena dati, ma anche a quelle europee ed a quelle del resto del mondo. Sarebbe un brutto colpo e per il Paese.
Possiamo evitarlo anche in quanto ci sono strade che possono essere percorse. La via maestra è un’asta vera e propria (di quelle che tecnicamente si chiamano “aste alla Vickrey” dal nome dell’economista che ha ricevuto il Premio Nobel per averle teorizzate e proceduralizzate). Se necessario, l’asta dovrebbe essere preceduta da una fase di commissariamento , basata, però, non sulla legge Prodi degli Anni 70 (mirata alla vendita di rami d’azienda) ma sulla legge Marzano, concepita sulla scia della crisi Parmalat e mirata al risanamento strutturale dell’impresa.
L’Alitalia ha liquidità sino alla fine del 2007. Si sono sprecati sette mesi per un beauty contest inconcludente. Evitiamo di sprecare altro tempo, la risorsa piu scarsa, in azioni di politica industriale che Giuliano Amato, in un libro da lui pubblicato 30 anni fa al Mulino, definiva “impiccione” e “pasticcione”.

lunedì 30 luglio 2007

PERCHE’ IL PROTOCCOLO SULLE PENSIONI TOGLIE AI POVERI PER DARE AI RICCHI

Se l’Italia fosse divisa in due sole categorie – i “ricchi” ed i “poveri” – il Protocollo sulla previdenza (allo stato delle informazioni fornite sino ad oggi) toglierebbe ai secondi per dare ai primi, E’ essenziale, quindi, che prima di presentarlo al Parlamento , o di includerne aspetti significativi, nelle legge finanziaria, il Governo fornisca analisi quantitative dettagliate non solo sulla “sostenibilità” dell’intesa in termini di probabili andamenti della finanza pubblica ma anche sugli “aspetti distributivi” delle misure. La metodologia da seguire è quella adottata per anni nei rapporti del Cnel in materia di aspetti distributivi degli impatti delle leggi finanziarie. Potrebbe, anzi, essere un compito da affidare a Villa Lubin in quanto ivi sono rappresentate le parte sociali e fanno parte del Consiglio anche esperti di economia e finanza nominati dal Presidente della Repubblica e dal Presidente del Consiglio. La sede sarebbe, quindi, bi-partisan o quanto meno non legata a logiche di schieramento.
Toglie alle categorie a basso reddito – costituite secondo le più recenti statistiche Istat principalmente da giovani, da donne e da residente del Mezzogiorno – sia perché non elimina le principali storture distributive della normativa in vigore sia perché ne aggiunge altre.
Le distorsioni che non elimina sono le seguenti: a) il vero “scalone”, anzi la “scalinata”- ossia i 18 anni per effettuare una transizione che altri Paesi hanno effettuato in tre anni e che, tenendo conto delle pensioni di reversibilità, farà sì che, nel nostro Paese, sino al 2030 circa ci saranno pensionati con elevati trattamenti “retributivi” (i “misti”) e pensionati con bassi trattamenti “contributivi”; b) le regole per la “totalizzazione” che non consentono di contabilizzare periodi contributivi inferiori a sei anni penalizzando giovani, donne e meridionali (caratterizzati da carriere frammentate). Correggendo a) – come fatto nel resto del mondo – si sarebbero trovate, all’interno del sistema previdenziale, le risorse per correggere b).
Altre distorsioni distributive che aggiunge e misure che colpiscono le fasce basse di reddito e di consumi (a vantaggio dei 60.000 l’anno che fruiranno di pensioni di anzianità, in gran misura sindacalisti o assi portanti della triplice) sono:
a) l’aumento di contributi sulle retribuzioni dei lavoratori autonomi (e la più alta età legale per la pensione di anzianità richiesta a questi ultimi);
b) l’introduzione di nuovi balzelli occulti, come quello sui pensionati e sui dipendenti del settore pubblico allargato di cui al decreto ministeriale del 7 marzo scorso (un contributo “volontario” dello 0,35% sugli stipendi lordi e dello 0,15% sulle pensioni lorde attuato per silenzio assenso, non pubblicizzato ed a cui si può recedere, senza essere rimborsato per quanto versato senza esserne consapevole, soltanto attraverso una complicata procedura);
c) nuovi aumenti contributivi palesi da applicarsi, secondo il Protocollo, se l’eventuale fusione degli istituti previdenziali (in gergo il maxi-Inps) non produrrà risparmi annui di 3,5 miliardi di euro. Gli esperti ritengono i risparmi dell’operazione saranno trascurabile: abbiamo già contributi pari al doppio di quelli francesi e tedeschi e quattro volte quelli britannici. Entreremo nel Guinnes’Book of Records in materia di oneri sul costo del lavoro, perdendo, secondo stime preliminari, circa mezzo milione di occupati (tutti nelle categorie meno protette).
Auguriamoci di essere smentiti da analisi cogenti e bi-partisan.

LA SCALINATA E’ PEGGIO DELLO SCALINO

Il Protocollo del 23 luglio 2007 differisce profondamente dal “patto sociale” del 23 luglio 1993 in quanto, mentre il secondo cercava di distribuire costi e benefici tra le varie categorie e classi di età, il primo ha aspetti fondanti che gravano principalmente sui giovani e sulle generazioni future. Lo ammettono gli stessi firmatari che, per attutirne gli squilibri, hanno posto la clausola di salvaguardia in base al quale la pensione non dovrebbe mai essere inferiore al 60% dell’ultimo stipendio. Tale clausola – come farà la Margherita e parte dei Ds ad approvarla ove mai diventasse parte di un disegno di legge? – equivale al “De Profundis” per la “riforma Dini” del 1995 che aggancia i trattamenti previdenziali ai contributi versati, ripropone la piaga delle “pensioni di annata”, azzera la normativa del 1989 con cui assistenza e previdenza venivano nettamente separate nei conti del maggior istituto previdenziale (l’Inps) ed in breve fa fare tre salti mortali all’indietro al nostro welfare, riportandolo all’inizio degli Anni 80. Lo riconosce la sinistra “di lotta e di governo” che – paradosso italiano di cui ride la stampa internazionale – ha tappezzato il Paese di manifesti contro le iniquità generazionali del Protocollo e continua ad avere suoi esponenti alla guida di importanti dicasteri.
Cosa fare? Sperare che il Protocollo divenga un documento platinico che non verrà mai utilizzato come base di una politica legislativa – ossia di concreti ddl da portare in Parlamento? Cercare di individuare quali sono i correttivi possibili all’interno del sistema?
La seconda strada sembra la più concreta e la più realistica, specialmente se non si ha presto una crisi di Governo con relative elezioni anticipate. Può anche diventare un percorso per un’opposizione che voglia e sappia essere propositiva per rispondere all’interesse del Paese.
Ciò comporta, in primo luogo, mettere a tutti nella testa che il vero “scalone” non è la modesta misura (interessa solo 180.000 italiani su tre anni, 60.000 l’anno) prevista dalla riforma Maroni del 2004 ma la “scalinata” di 18 anni, chiesta ed ottenuta dalla triplice sindacale nel 1995, per effettuare una transizione da sistema retributivo a sistema contributivo che altri Paesi hanno effettuato in tre anni. Tenendo conto delle pensioni di reversibilità, farà sì che, nel nostro Paese, sino al 2030 circa ci saranno pensionati con elevati trattamenti “retributivi” (o “misti”) e pensionati con bassi trattamenti “contributivi”. I secondi sono coloro che hanno cominciato a lavorare negli Anni 90 e le prospettive per i loro figli saranno ancora più nere se verrà dato corpo normativo al Protocollo. Occorre anche porre l’accento che le regole per la “totalizzazione” non consentono di contabilizzare periodi contributivi presso un istituto inferiori a sei anni; penalizzano gravemente giovani, donne e meridionali (caratterizzati da carriere frammentate). Non occorre avere un Premio Nobel in matematica attuariale per rendersi conto che ponendo fine subito alla costosa transizione ci sarebbero ampie risorse per modificare la totalizzazione evitando che giovani, donne e meridionali perdano letteralmente molti anni di contributi versati- diventino, nel gergo Inps, “silenti”, le cui pensioni future vengono fortemente decurtate quando non spariscono quasi del tutto.
Non è una proposta di destra o di sinistra. Ma soltanto di buon senso. Richiede , per essere affinata ed attuata prima che sia troppo tardi, un po’ di conteggi. Invece, delle sedute di parapsicologia praticate , con solerzia e con profitti, da qualche Rasputin di Provincia.
San Giacomo Apostolo (che ricorri il 23 luglio), ispirali Tu!

CHE CI FA TOTO DA BERTINOTTI?

L’Alitalia sta per finire in salsa alla amatriciana. Se le autorità nazionali ed europee sulle gare d’appalto non fermano la stravagante procedura che pare essere in corso, l’Italia rischia di finire al di fuori dell’euro e della stessa Ue.
Andiamo con ordine. Oggi 26 luglio, il flemmatico Ministro dell’Economia e delle Finanze Tomaso Padoa-Schioppa riferisce alle pertinenti Commissioni parlamentari sul presente e sul futuro della compagnia di bandiera. Un’audizione corretta, anzi doverosa, visto il pasticciaccio brutto del beauty contest inconcludente. Quasi a volere incidere sull’audizione e sui suoi risultati, un comunicato sui televideo di prima mattina informa il colto e l’inclito che il principale azionista di Air One ha avuto una riunione con il Presidente della Camera dei Deputati Fausto Bertinotti (il quale nulla a che fare con gare ed appalti di aviolinea – al più per quelli relativi agli affitti ed alla cancelleria dell’organo costituzionale che presiede) per informarlo che è pronto a formulare un offerte vincolante se il capitolato viene modificato sotto alcuni aspetti (i livelli occupazionali, il vincolo a non rivendere entro un certo numero di anni). Un passo del tutto improprio in quanto solo nei Paesi del quarto mondo (neanche in quelli del terzo) si è visto un partecipante ad una gara rivolgersi ad un’autorità istituzionale e politica al fine di fare cambiare il capitolato, entrando così in una trattativa privata. Quando un episodio del genere avvenne in Costa d’Avorio, la Banca Mondiale bloccò tutte le operazioni nel Paese ed il Capo dello Stato ritornò sui suoi passi.
Non è solo una questione di garbo ma di leggi scritti e di lex mercatoria per le transazioni finanziarie e commerciali internazionali. Ove il tête-à-tête avesse un seguito, non solo la gara dovrebbe essere riaperta a tutti gli eventuali concorrenti ma il Governo Prodi dovrebbe chiudere, per decreto legge, tanto l’antitrust quanto la commissione di vigilanza sugli appalti e chiedere all’Ue una sospensione “sine die” dalle regole europee.
Nel frattempo, ci stiamo coprendo di ridicolo sulla stampa di tutto il mondo.

DOPO QUESTI VOLUMI VISCO DETESTA LE IMPOSTE

Frued diceva che per scavare nell’intimo di uomini e donne è sufficiente vedere le letture che portano in vacanza: allora rivelano ciò che non mostrerebbero mai sulla loro scrivania – e neanche sul loro comodino. Nella borsa (spartana) che accompagna il Vice Ministro Vincenzo Visco in montagna, il primo libro che si nota è una vecchia edizione in brossura della Bur (Biblioteca universale rizzoli) che, negli anni 50 (quando il “Vice” andava al Liceo) si vendevano a 60 lire al volume (180 se triplo come quello che ha nella sua bisaccia- i “Plays” di George Bernard Shaw. Spicca , con pagine segnate a matita rossa, l’ultima scena di “Androclo e il leone” (da lui apprezzato quando studiava a York): in essa , dagli spalti del Colosseo l’Imperatore Vespasiano dichiara di essersi da tempo convertito ma di mandare i cristiani alle fiere perché ad ogni martire corrispondono dieci conversioni. Ad ogni tartassato – Visco pensa – corrispondono dieci astuti elusori.
Altro libro in bisaccia è un classico francese che ha avuto diverse edizioni “L’arbitraire fiscal” di Pascal Salin. Il saggio distrugge l’idea stessa di imposta progressiva sul reddito; mostra come le imposte di successione siano un virus che minaccia la famiglia e la tassazione societaria un peso sulla competitività delle imprese. Salin propone uno Stato minimo ed un’aliquota unica (o al massimo due) da applicarsi principalmente sulle transazioni. L’opposto del sistema tributario che gli italiani imputano a Visco , ma che ha provocato una crisi tale di rigetto da potersi ormai profilare all’orizzonte una riforma alla Salin. Dai suoi studi a Berkeley in California , Visco ha con sé uno delle controparti anglosassoni del libro di Salin: il saggio di Jonathan Baron, professore di psicologia alla University of Pennsylvania, e Edward J. McCaffery, docente di economia applicata al California Institute of Technology: “Starving the beast: the psychology of budget deficits”- “Affamare la bestia: la psicologia dei deficit di bilancio”. Dovrebbe essere la stella polare per il suo Ministro, Tommaso Padoa-Schioppa (Tps); forse la ipertassazione degli ultimi tempi riuscirà a convincere anche la “banda dei quattro”, i Ministri della sinistra radicale che insistono per il binomio più spesa (pubblica)-più tasse.
Prima di partire, Visco ha inviato a Tps il saggio "Fiscal Interactions Among European Countries: Does the EU Matter?" (“Interazione tributaria tra i Paesi Europei : l’Ue conta qualcosa?” di Michela Redoano della Università di Warwick) da cui si deduce che, anche se i Paesi di piccole dimensioni seguono quelli di maggiore taglia e maggiore popolazione nella definizione delle loro politiche tributarie, in molti casi si è passati dall’interdipendenza tributaria alla indipendenza, proprio al fine di attirare capitali ed investimenti (dal resto del mondo e da altri Paesi Ue).
Con l’entusiasmo del neofita, poi, ha con sé una serie di studi sui danni arrecati dall’imposta di successione (in tutte le sue forme e guise): dal lavoro di Graziella Bertocchi della Università di Modena (la rossa): "The Vanishing Bequest Tax: The Comparative Evolution of Bequest Taxation in Historical Perspective" (“La fine dell’imposta di successione: evoluzione comparata del tributo in prospettiva storica”) al saggio di Wojcech Kopzuk (Columbia University) e Joseph Lupton (Federal Reserve Board) "To Leave or Not to Leave: The Distribution of Bequest Motives" (“Lasciare o non lasciare: la distribuzione dei motivi dei lasciti) pubblicato di recente nella Review of Economic Studies allo studio giuridico (i suoi primi amori) più economico di Jeffrey Cooper “Interstate Competition and State Death Taxes: A Modern Crisis in Historical Perspective" (“Competizione tra gli Stati e imposta di successione: una crisi moderna in prospettiva storica”) apparso nella Pepperdine Law Review. Un’ultima chicca è per Cesare Damiano. Chris William Sanchirico della Università della Pennsylvania dimostra che le troppe tasse sul lavoro creano fannulloni nel lavoro Progressivity and Potential Income: Measuring the Effect of
Changing Work Patterns on Income Tax Progressivity" (Progressività e reddito potenziale: gli effetti della progressività tributaria sulle abitudini di lavoro”).

ALITALIA, CARTINA DI TORNASOLE DELL’AZIONE DI GOVERNO

Il 27 luglio, il CdA Alitalia esaminerà il piano industriale della compagnia e, quindi, il futuro dell’azienda. Il Ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi ne esclude la liquidazione. Le regole europee, non solo il garbo, impediscono una trattativa privata: l’Alitalia non è né un appartamento di condominio (pur pregionato) né alcune tonnellate di mozzarelle. Una trattativa privata rievocherebbe i fantasmi dell’ “affaire Sme” di circa un quarto di secolo fa, che come l’ombra di Banco fanno speso capolino di chi, nel Governo, si diletta di parapsicologia. Si parla di commissariamento. Sarebbe utile precisare cosa si intende: la normativa italiana ne prevede due tipologie– il commissariamento in base alla legge Prodi (il cui obiettivo è cedere rami di azienda) e il commissariamento in base alle legge Marzano (il cui obiettivo è ristrutturare non cedere). Il primo è stato applicato dozzine di volte negli ultimi 30 anni; il secondo principalmente per la Parmalat. Su Il Tempo abbiamo sottolineato più volte l’esigenza, e l’urgenza, di fare una gara vera (di livello internazionale) non uno sbrindellato beauty contest – inconcludente e tale da dare voce a tutte le possibili illazioni (a torto od ad ragione).
Non ripetiamo, ancora una volta, la nostra proposta che coniuga efficienza, trasparenza e salvaguardia dell’azienda. Occorre enfatizzare che la prossima mossa su Alitalia è la cartina di tornasole di come l’azione di Governo viene giudicata dai mercati internazionale. Il Ministro dell’Interno Giuliano Amato ricorda un bel libro da lui pubblicato 30 anni fa al Mulino in cui analizzava la politica industriale in Italia e criticava il modo “impiccione” e “pasticcione” con cui veniva formulata ed applicata.
Verosimilmente, utilizza (senza pronunciarli) gli stessi aggettivi passando in rassegna un anno di dirigismo in salsa bolognese caratterizzato da interventi goffi, oltre che “impiccioni” e “pasticcioni”. Si è iniziato con quelli sulla vicenda Abertis-Autostrade e si è arrivati ad un beauty contest da cui tutti i concorrenti sono scappati. Tra una disavventura e l’altra, il pastrocchio Telecom (altra occasione di fuga per il partner internazionale più qualificato), il riesplodere della vicenda Unipol-Bnl (altro fantasma di Banco della politica dell’Italia governata dalla sinistra), la storia infinita della maxi-agenzia (viene riesumato il termine “carrozzone”) che dovrebbe gestire (ed appaltare) tutta la formazione pubblica e dell’altro “carrozzone” in cantiere, quello per gli aiuti al terzo mondo
Amato probabilmente è tra i pochi a conoscenza dell’ultima chicca: la Brookings Institution, dove ha lavorato nel 1981-82 e che visita spesso quando non ha cure di governo, ha pubblicato un lavoro di spessore di Caroline Cecot, Robert W. Hahan e Andrea Renda dove si fanno le bucce a come viene fatta l’analisi dell’impatto della regolazione (a volte mostrata come fiore all’occhiello del Governo): le procedure adottate non tengono alcun conto degli aspetti economici. Quindi, il prodotto è futile. Per utilizzare un termine elegante.
Un episodio poco noto, per piccolo che sia, è indicativo del modo “impiccione” e “pasticcione” (per utilizzare il lessico di Amato) con cui procede un dirigismo che si richiama più all’amministrazione di Pio IX (quale dipinta nei sonetti del Belli) che a quella di Colbert: le modalità con cui si è esteso erga omnes dal primo giugno la procedura Durc (Documento unico di regolazione contributiva)- nata per combattere il sommerso in campi specifici (quali l’edilizia) e trasformata in un onere tanto grave per le piccole e medie imprese (il Durc deve essere rinnovato ogni tre mesi) da impedire loro di lavorare con le pubbliche amministrazioni – anche nei comuni più piccoli dove c’è una unica cartoleria per approvvigionarsi di cancelleria. Estrapolando da uno studio di Francisco J. Gomes (London Business School), Laurence Klotikoff (Boston University) e Luis M. Viceira (Harvard Business School) gli “impicci” ed i “pasticci” costano all’Italia lo 0,6% del valore aggiunto. Pensiamoci bene prima di farne ancora con Alitalia.

Le femministe del "belcanto"

Un saggio uscito a fine 2006 (Alessandra Nucci La donna a una dimensione , Marietti Genova 2006) ed una rassegna di letteratura sociologica (Guglielmo Piombino Lo Jihad? Merito delle femministe nel settimane Il Domenicale in edicola dal 28 luglio) fanno risalire al movimento femminista degli Anni Settanta un odio profondo contro il maschio europeo che porterebbe, nelle sue versioni più radicali, anche all’estremismo islamico ed alla “guerra santa” contro gli “infedeli” occidentali.
Se Alessandra Nucci e Guglielmo Piombino si recassero a Macerata (dove dal 26 luglio al 12 agosto) è in corso il 43simo Festival dell’Arena Sferisterio, constarebbero che il femminismo, anche nelle sue forme più violente, già dominava ai tempi del “belcanto”, in quella prima metà dell’Ottocento in cui, anche nelle aree più sviluppate (e meglio governate) della Penisola alle donne era affidato un ruolo casalingo, esaltato nella narrativa, ma smentito nella forma di maggior successo di spettacolo, l’opera lirica. I teatri pullulavano (le sole piccole Marche, parte dello Stato Pontificio, ne avevano 400), erano privati e finanziati da consorzi di palchettisti e dal pubblico pagante e, con il pretesto di essere distanti dalla realtà (si cantava invece di parlare, ci si riferiva spesso a vicende situate in tempi lontani), mettevano in scena la società , prendendo per il naso le censure (austriaca, borbonica, papalina e via discorrendo).
Da quando (nel 2006) il Festival è affidato a Pierluigi Pizzi, i lavori presentati riguardano “il potere” (nel senso più alto di potere politico ma anche in quello più immediato di potere sotto le lenzuola). L’anno scorso si era alla prese con l’iniziazione al potere. Questa estate, le opere, integrate da conferenze (Massimo Cacciari sul concetto di potere, Anna Proclemer sulle donne e il potere), riguardano “il gioco dei potenti”. Per il 2008 è annunciato un programma articolato sulla seduzione come strumento per il potere.
Tranne una prima mondiale di autore contemporaneo (“Saul” di Flavio Testi che riguarda il potere in un contesto gay), le altre opere (“Macbeth” di Giuseppe Verdi, “Norma” di Vincenzo Bellini e “Maria Stuarda” di Gaetano Donizetti) appartengono alla prima metà dell’Ottocento, commissionate da teatri di Firenze e di Milano dove imperavano ed imperversavano censure bigotte di una cultura in cui il genere femminile aveva un ruolo secondario e subordinato. La prima è anello di congiunzione verso quel melodramma italiano che dalla metà dell’Ottocento alla fine del secolo, trattò apertamente di potere, specialmente di potere politico, ma eliminò l’eros dal teatro in musica. Le altre due appartengono al “belcanto” di inizio secolo, in cui a volte anche i ruoli maschili venivano interpretati da voci femminili; si era lontani dal ritorno in forza dell’eros e del potere femminile in modo esplicito (nel teatro lirico italiano da collegarsi alla prima di “Manon Lescaut” di Puccini; in quello di prosa, a livello mondiale, a “Casa di Bambola” di Ibsen) In tutte e tre le opere, tuttavia, sono le donne a dominare il gioco del potere in tutti i suoi aspetti non soltanto nei libretti ma anche e soprattutto nella scrittura vocale e orchestrale. Le regie (Pizzi per la prima e la terza , Massimo Gasparon per la seconda), le concertazioni (Daniele Gallegari, Paolo Arrivabeni, Donato Renzetti) e la scelta degli interpreti accentuano ancora di più il carattere femminista dei tre allestimenti.
In altre sedi, mi soffermo sugli aspetti tecnico-musicali degli allestimenti. In questa , è importante sottolineare come rivisitare il femminismo del “belcanto” abbia anche un significato storico-politico non secondario; in Italia, in particolare, lo riallaccia, specialmente in “Macbeth (si pensi al coro “O patria oppressa!” ) ed in “Norma” (un altro coro “Guerra!, Guerra!”) al movimento di unità nazionale – da cui il femminismo del 1968-77 ed i suoi stanchi epigoni vollero prendere tutte le distanze possibili.
28 Luglio 2007 donne opera lirica potere Cultura Commenta Email Condividi

mercoledì 25 luglio 2007

IL RISIKO DELLE UTILITY E I COMUNI INGOMBRANTI

In questa lunga estate calda, le cronache sulla vita delle aziende nelle prime pagine della stampa finanziaria riguardano, in gran misura, tensioni e fibrillazioni tra s.p.a. (Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) di cui i Comuni, le Province ed in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti. E’ un universo vasto, ma poco conosciuto. E di cui poco si è parlato sino alla presentazione del disegno di legge sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali che avviato, con grandi aspettative l’agosto 2006, ha vita non affatto facile in Parlamento.
Una radiografia utile del settore è stata messa a punto dalla Fondazione Eni Enrico Mattei (Feem) e presentata a metà luglio ad un seminario ristretto organizzato dalla Fondazioni Iri a metà luglio; verrà pubblicata in autunno. L’analisi si distingue da altre effettuate in questi ultimi anni – ad esempio dallo studio della Fondazione Civicum che ha esaminato i dati di bilancio di 35 società a controllo comunale in sei grandi comuni e dalle ricerche periodiche della Conservizi – perché esamina il capitalismo municipale , la forma più consistente di imprenditoria pubblica dopo le privatizzazioni degli ultimi tre lustri, sotto il profilo dell’entità della partecipazione delle autonomie locali in società di capitali invece che sotto quello della spesa, dell’occupazione o del ruolo degli enti locali (a cui sono affiliate) nella governance delle fondazioni bancarie, temi centrali delle analisi precedenti.
I risultati sollevano più interrogativi di quelli a cui rispondono. In primo luogo, le 369 imprese partecipate da enti locali formano oltre l’1% del pil nazionale ed hanno un numero di addetti che supera le 200.000 unità; in alcune Regioni, il capitalismo municipale rappresenta il 6% del pil prodotto in loco ed il 2% dell’occupazione. Siamo, quindi, alle prese con un fenomeno importante sotto il profilo sia dell’economia reale sia della finanza (e pubblica e d’impresa) sia, infine, dell’imprenditorialità.
Il capitalismo municipale è presente non soltanto nei comparti tradizionali dei servizi di pubblica utilità (come l’energia, l’acqua, i trasporti) ma anche in campi puramente di mercato e non necessariamente di competenza pubblica, come le costruzione, il commercio, il manifatturiero ed i servizi nei comparti più differenti e più diversificate. Ci sono incroci complessi nell’assetto azionario delle multiutility: ad esempio, l’azionista di maggioranza della GESAC (Società di gestione degli aeroporti campani) è una multinazionale di origine britannica e tra gli altri soci si contano oltre al Comune ed alla Provincia di Napoli, in posizione nettamente minoritaria, anche il Comune e la Provincia di Milano ed altri privati. La complessità dell’assetto azionario è una delle determinante delle difficoltà nei processi di aggregazioni in corso, sotto lo stimolo dell’integrazione europea ed internazionale.
Un aspetto dell’analisi riguarda gli effetti dell’ingresso di azionisti e capitale privato sugli indicatori consueti di redditività finanziaria; le società miste presentano redditività superiore di quelle solamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. L’eccezione sono i trasporti locali, su cui gravano forti vincoli politici a carattere occupazionale che di conseguenza influiscono negativamente su un significativo indice di efficienza- l’utile per addetto.
Quanto influisce la politica, specialmente quella a livello locale, sulle scelte imprenditoriali? Lo studio non fornisce una risposta puntuale: da un lato, si riconosce ormai generalmente l’esigenza di una professionale manageriale ben distinta da interferenze burocratiche e di politica di piccolo cabotaggio. Dall’altro, la presenza del capitalismo municipale (spesso in perdita) in settori di mercato che poco hanno a che fare con interessi di pubblica utilità suggerisce che a livello locale lo Stato produttore continua ad esistere con i difetti delle partecipazioni statali di un tempo (nonché della Rai, delle Poste, delle Ferrovie, dell’Alitalia ancora oggidì). La maggiore redditività delle società miste rispetto a quelle puramente pubbliche dovrebbe essere un impulso a privatizzare o a meglio regolamentare.
Il percorso non è semplice . Varie alternative sono indicate in un lavoro importante (ma non citato nella ricca bibliografia dell’analisi della Feem): i due volumi, per oltre 1000 pagine (ed in vendita a $ 470, circa € 400) curati da Ray Rees sull’economia delle aziende di pubblica utilità pubblicato alcuni mesi fa dalla casa editrice Cheltenham del Massachusetts. Vale la pena leggerlo prima di approntare la pubblicazione dello studio Feem.

martedì 24 luglio 2007

Narni - NarniOpera Openair: Rigoletto


Tra gli ultimi arrivati in ordine cronologico (è alla seconda edizione) nella galassia composta da una quarantina di festival lirici estivi in corso in Italia, il NarniOpera si avvale di due spazi scenici: un teatro Comunale d’inizio ‘800 con una capienza di circa 400 posti e il NarniOpenair, con 1800 posti, situato in una conca circondata da pini e dotato di un’eccellente acustica naturale. Al piccolo Comunale vengono rappresentati spettacoli lirici da sempre: si narra che ad una “Aida” ai primi del ‘900, venne abbattuto il muro del palcoscenico al fine di avere maggiore spazio per il quadro del trionfo al secondo atto. Di recente, il Comunale è stato dedicato specialmente alla prosa – ospita compagnie di giro che si fermano nella cittadina umbra (20.000 abitanti) per una o due sere, oltre ad avere, e con un certo successo, musica lirica contemporanea. NarniOpenair è, senza dubbio, un progetto ambizioso (date le dimensioni della platea e della cavea) che potrà vivere unicamente se attirerà collaborazioni nazionali ed internazionali. Un aspetto importante: l’iniziativa viene principalmente da imprenditori locali e non grava che in misura molto modesta sulle casse pubbliche.
Il festival iniziato a metà giugno dura sino all’inizio di ottobre. Include quattro opere liriche (Rigoletto , Aida , Traviata , Carmen), una commedia musicale (Fame), uno spettacolo di balletto ed un melologo contemporaneo ispirato a Le roi s’amuse di Victor Hugo. Quindi, un cartellone orientato verso il pubblico che segue la lirica più tradizionale, ma con aperture all’innovazione. L’orchestra è formata da giovani (alcuni giovanissimi) appena diplomati dai migliori conservatori dell’Unione Europea. Li guida Francesco Seri, solo di qualche anno più anziano di loro. La direzione artistica è assicurata da Paolo Baiocco, architetto e scenografo di cui si ricorda un recente Attila multimediale al Teatro dell’Opera di Roma, nonché i trionfi di una Traviata portata nel 2004 in una dozzina di teatri giapponesi.
Il vostro chroniqueur si accosta con trepidazione ai festival lirici estivi ed evita con cura quelli organizzati da impresari, più o meno improvvisati, in Carri di Tespi che scorazzano per la Penisola. Questa volta i risultati sono stati di gran lunga superiore alle aspettative – quanto meno sulla base della prima rappresentazione di Rigoletto.
I punti forti dell’allestimento sono molteplici. In primo luogo, la decisione di rappresentare il melodramma verdiano con un solo intervallo (come si usa fare in gran parte d’Europa, ma non in Italia) allo scopo di non allentare la tensione e di ottenere un’efficace simmetria tra le due ambientazioni racchiuse nel primo atto e quelle della seconda parte, corrispondenti al secondo e terzo atto. In secondo luogo, l’efficace allestimento scenico: un abile gioco di quinte riproduce (in gigantografie in color gravure) il Palazzo Te di Mantova, mentre alcune proiezioni mostrano l’ambiente sensuale-orgiastico del Palazzo del Duca, una strada medioevale (verosimilmente della stessa Narni, piuttosto che di Mantova), il flusso in tempesta del Mincio. In terzo luogo, la regia è tradizionale, ma accurata e non disdegna aspetti piccanti. In quarto luogo, Francesco Seri concerta in modo diligente ed appassionato ed i suoi giovani orchestrali rispondono bene, facendo sempre attenzione a non coprire mai le voci.
Alfio Grasso, il protagonista, canta ruoli primari da anni all’Opera del Cairo ed in vari teatri importanti di Spagna, Olanda e Europa Centrale. In Italia, lo si ascolta o in sale minori od in ruoli da caratterista. Ha un timbro chiaro, un ottimo fraseggio ed un volume che funziona bene anche all’aperto, nonché un’efficace presenza scenica. Ci è parso più a suo agio nei momenti in cui la voce potesse sfogare sulla tessitura acuta e sul declamato – ad esempio in Cortigiani, vil razza dannata e in Sì vendetta, tremenda vendetta – , piuttosto che sul registro grave necessario al Pari siamo. In ogni caso l’ho trovato complessivamente, di gran lunga migliore di molti nomi che vanno per la maggiore, ormai privi di voce e che l’estate pullulano in festival primari. Merita maggiore attenzione dai direttori artistici.Lucia Casagrande Raffi è giovanissima ed attraente. Debuttava il 21 luglio nel ruolo di Gilda. Visibilmente emozionata in Caro nome (un’aria comunque terrificante) ha segnato un paio di sbavature nelle ascensioni per riprendersi però nel secondo e nel terzo atto: ha eseguito con grande cura sia Tutte le feste al tempio e Ah ch’io taccia restando, come richiesto dalla partitura, nelle mezze voci ed utilizzando con abilità il legato. E’ un soprano lirico che merita di essere seguito. Ad Andrea Coronella (il Duca) manca le physique du rôle specialmente accanto a Lucia Casagrande Raffi e a Nadryka Petrenko (una Maddalena che sprizza sensualità ad ogni nota), due cantanti attraenti. Il problema principale, però, è che a mio avviso, si tratta di un tenore leggero di agilità, in effetti un belcantista, più adatto a Donizetti ed a Bellini che a Verdi. Questa o quella e La donna è mobile sembrano cantate da Arturo, Elvino o Nemorino più che dal lussurioso e libertino Duca. Michele Bianchini è uno Sparafucile di classe. Debole di volume di Leonardo Galeazzi (Monterone). Merita una segnalazione il coro.
Giuseppe Pennisi
La locandina
Data dello spettacolo: 21/07/2007
Rigoletto
Alfio Grasso
Duca
Andrea Coronella
Gilda
Lucia Casagrande Raffi
Sparafucile
Michele Bianchini
Maddalena
Nadiya Petrenko
Monterone
Leonardo Galeazzi
Il Conte Ceprano
Danilo Serraiocco
La Contessa/ Giovanna/ Dama
Sabina Cacioppo
Borsa
Roberto Mattioni
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regia e scena
Paolo Baiocco
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Orchestra narniOpera
direttore Francesco Seri
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(nuovo allestimento, 2007)

BOND TARGATO UE PER NON STRONCARE LA RIPRESA

Riuscirà l’Europa, in particolare l’area dell’euro, a mantenere il tasso di ripresa dell’anno scorso e del primo semestre di quello in corso? Nella tornata di previsioni emessa nel fine settimana del 21 luglio, i 20 maggiori istituti econometrici internazionali (tutti privati, nessuno italiano) danno una risposta non incoraggiante: prevedono una flessione dall’aumento del pil 3% circa per il 2007 ad una media del 2,3% per il 2008 (ma per ben 7 dei 20 si farebbe fatica a sfiorare il 2%). “The Economist” di Londra ha avvertito , in un duro editoriale, che se l’area dell’euro non coglie l’occasione di effettuare le necessarie riforme (l’elenco è sempre lo stesso: welfare, mercati dei fattori e dei prodotti) in una fase di ripresa (per modesta che sia), non solo la fiaccherà ma renderà più difficile farle successivamente. In questo contesto, a livello dell’Eu diventerà impossibile non solo raggiungere ma anche solamente sfiorare l’obiettivo definito nel marzo 2000 dai Capi di Stato e di Governo secondo cui l’Europa sarebbe diventata larea pi dinamica delleconomia internazionale entro il 2010 (in termini giornalistici “la strategia di Lisbona”). A livello dell’Italia, sarebbe ancora più difficile restare nell’alveo dei conti pubblici concordato a livello europeo e, al tempo stesso, dare corpo alle misure delineate nel Protoccolo sulla previdenza.
Ove la situazione non fosse sufficientemente complicata, gli occhi sono puntati sulla sessione del Consiglio Bce del 2 agosto; in materia di tassi d’interesse spira un vento rialzista – sia in quanto si avvertano fibrillazioni in materia di prezzi sia per ridurre il divario con quelli Usa. Il rallentamento della crescita e le probabili misure sui tassi sono al centro dell’iniziativa francese a favore di “un deprezzamento competitivo” dell’euro –locuzione utilizzata dal Presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy in più di occasione, aggiungendo :”perché non facciamo anche noi quello che fanno i cinesi con lo yuan, i giapponesi lo yen, i britannici con la sterlina e gli americani con il dollaro?”. Tuttavia né Sarkozy né il Ministro dell’Economia, delle Finanze e dell’Impiego, Christine Lagarde, hanno mai chiaramente indicato né cosa intendono è il percorso per arrivarci – Neanche nelle recenti conversazioni tra Sarkozy ed il Cancelliere Tedesco Angela Merkel. Richiedono, principalmente, maggiori muscoli dell’Eurogruppo in materie che sono affidate, dai trattati, alla Banca Centrale Europea, Bce- proposte prontamente respinte ai mittenti dall’Esecutivo Bce.
In questo quadro, si situa una proposta eterodossa, redatta dal più ortodosso dei pensatoi italiani in materia di politica economica internazionale: l’Istituto Affari Internazionali (Iai), fondato dal federalista Altiero Spinelli ed il cui Presidente Onorario è Carlo Azeglio Ciampi. Non solo, Ciampi ha devoluto proprio all’Iai, le cui casse non sono mai state floride (come è prassi dei pensatoi) il Premio Carlo Magno conferitogli per i suoi meriti europei. Negli organi di governo dell’Iai siede, tra l’ altro, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tomaso Padoa-Schioppa, TPS.
La proposta è in un volumetto appena pubblicato e che sta suscitando un vivace dibattito tra gli addetti ai lavori: “Un bilancio europeo per una politica di crescita” di Maria Teresa Salvemini ed Oliviero Pesce. La proposta, argomentata in un centinaio di paginette dense di considerazioni economiche e giuridiche (corredate dai dati quantitativi essenziali), consiste nel permettere all’Ue in quanto tale (il cui bilancio è pari solo all’1,048 del pil comunitario) di indebitarsi (emettendo titoli sul mercato dei capitali internazionali) al fine di lanciare un piano di spesa addizionale per lo sviluppo (reti transeuropee, energia, ricerca) che nei prossimi cinque o sei anni permetta di spendere tra i 500 ed i 700 miliardi di euro ad integrazione delle risorse nazionali, pubbliche e private. La proposta ha precedenti storici (in primo luogo quello del processo di sviluppo istituzionale ed economico degli Stati Uniti nella seconda metà del’ lOttocento) ed è stata attata attuata con successo dalla Ceca (la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio). Non sarebbe inflazionistica in quanto l’Europa soffre di capacità di produzione non utilizzata (come dimostrato dai tassi di disoccupazione). Non spiazza titoli pubblici o di imprese. Ha soprattutto il vantaggio della semplicià: non richiede complicate strutture organizzative e decine di indicatori, come contemplato nella “strategia di Lisbona”. Ci vuole soltanto una buona capacitài formulazione e valutazione di progetti. Ha un ostacolo giuridico: il vincolo del pareggio annuale del bilancio comunitario, inserito nel Trattato di Roma quando si pensava che tale bilancio servisse esclusivamente o quasi a finanziare spese di parte corrente (come stipendi e altri oneri di funzionamento delle istituzioni). Lo si può correggere nel nuovo, e semplificato, Trattato Costituzionale, facendo contenti tutti (da Sarkozy ala Merkel passando per Trichet e Barroso). TPS le mediti in questa calda estate: potrebbe spiazzare tutti al prossimo Ecofin.

lunedì 23 luglio 2007

PENSIONI: VANTAGGIO DI POCHI, DANNO DI MOLTI

Ormai e tutto chiaro. Il 17 luglio Il Tempo ha messo a nudo il nuovo prelievo dalle buste paga di pensionati e di lavoratori del settore pubblico allargato che veniva introdotto di soppiatto e senza dare tempo agli interessati di recedere; la denuncia ha costretto l’Inpdap ad una retromarcia, nel silenzio di Tomaso Padoa-Schioppa (TPS), che aveva firmato il decreto del 7 marzo ed era alle prese con la débâcle Alitalia. In effetti, TPS stava affrontando una nuova débâcle che si sarebbe consumata all’alba del 20 luglio: quella sulla previdenza. E’ la prima volta che un Ministro dell’Economia e delle Finanze assicura con un sorriso, ma senza fornire dati dettagliati (quali quelli disponibili presso la Ragioneria Generale dello Stato (Rgs), che opera sotto la sua responsabilità politica), dello “sostenibilità” di un accordo che ha fatto tenere in sospeso il fiato degli esperti, delle istituzioni finanziarie europee, dell’Ue e dei mercati. I dati sono disponibili in quanto il modello della spesa previdenziale della Rgs può fornirli in tempo reale e corredandoli di “scenari controfattuali” (ossi di proiezioni basate su ipotesi alternative dell’andamento sia della spesa sia delle variabili macro-economiche). In passato, Ciampi, Amato, Dini (si veda il bel libro di Paolo Peluffo “Carlo Azeglio Ciampi- l’Uomo, il Presidente) non hanno mai osato presentare un riassetto alla previdenza senza le analisi finanziarie essenziali. De Michelis, nella veste di Ministro del Lavoro, lo fece ben quattro volte nell’arco di due anni (ed allora il modello Rgs era molto più difficile da operare).
TPS dovrebbe spiegare chiaramente in termini professionali (non per nulla è un Ministro “tecnico”) se, con l’intesa, il 16% del pil (o giù di lì) ora destinato alla previdenza aumenta o diminuisce (e di quanto), se si scongiura la stima secondo cui il debito giunga al 180% del pil prima del termine della legislatura e si smentisco le previsioni del Ministero del Lavoro (di cui nessuno pare essersi accorto), secondo cui il saldo negativo dello stato patrimoniale dell’Inps passerebbe dai 120 miliardi di euro (all’ultima conta) a circa 580 miliardi di euro.
L’assordante silenzio si spiega con il fatto che ancora una volta si pensa a qualche contributo e balzello improprio (come già fece Romano Prodi nel 1996) per coprire, quatti quatti, i costi di una riforma che avvantaggia soltanto poche persone (ma danneggia tutte le altre) : il prelievo Inpdap è un indicatore eloquente del modo in cui si pensa di procedere. Noi de Il Tempo ci impegniamo con i lettori a vigilare: setacciando decretoni e decretino e chiamo alle associazioni in difesa dei consumatori (qualche che siano i loro sentimenti politici) di aiutarci in questa funzione di monitoraggio.
Gli obiettivi dell’intesa sono chiari: privilegiare quelle 65.000 persone l’anno già beneficiate dal fruire di pensioni “retributive” (che comportano trattamenti sino al 75% dell’ultimo stipendio), pure se ciò penalizzano coloro che in futuro avranno pensioni “contributive” (con trattamenti, per le carriere dinamiche, pari al 50% dell’ultimo stipendio, e molto inferiori per le altre). Tra queste persone c’è in primo luogo la dirigenza sindacale che incassate a 58 anni laute pensioni di anzianità potrà dedicarsi alla politica, entrare in Parlamento, mettere su un’attività professionale o semplicemente alle crociere reclamizzate sulle loro riviste (come “Libera Età”, della Cgil). La dirigenza sindacale potrà anche scegliere i propri erediti tra i privilegiati che lasceranno fabbriche ed uffici e saranno lieti di fare semi-volontariato per il sindacato. Occorre ammettere che tale operazione dovrebbe inalberare i “riformisti” in seno al Governo, ha già reso furioso la sinistra radical-reazionaria che prima di altri ne ha scoperto il significato corporativo. E’ triste ma se Giuliano Amato non dà seguito ai propri libri freschi di stampa ed Emma Bonino si limita a fare la ritrosa, dobbiamo sperare che Giordano, Diliberto e Pecoraro-Scanio facciano saltare una pessima intesa.

NEL SUD RIPARTIRE DALLA SCUOLA

Il tormentone Alitalia, la complicata vicenda della previdenza, le crescenti difficoltà dei conti pubblici, l’instabilità di un Governo (ora anche travagliato da scandali-a-go-go) hanno distolto l’attenzione dal problema centrale del Paese: il crescente divario tra il Mezzogiorno ed il resto d’Italia. Anzi, in questi ultimi giorni, è passata quasi sotto silenzio la pubblicazione di tre documenti importanti: la Guida ai Conti Pubblici Territoriali ed il Rapporto annuale del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione (ambedue frutto dell’importante lavoro di analisi che sta facendo il dicastero dello sviluppo economico) ed il Rapporto Svimez per il 2006.
Il quadro è scoraggiante: dal 2000 al 2006, infatti, il Mezzogiorno è cresciuto dello 0,4 % mentre nel resto dell’Ue il tasso di crescita è stato di almeno il 5%. Sud ed Isole sono cresciuti 3 volte meno della Spagna, 4 dell’Irlanda e 5 della Grecia. Non solo: tra i Paesi neocomunitari, nel 2006, Slovenia, Ungheria, Estonia e Repubblica Ceca hanno già raggiunto il livello di sviluppo del Meridione d’Italia. Il Mezzogiorno è ora schiacciato in una morsa competitiva tra nuovi Stati dell’Ue (che sui mercati internazionali possono godere soprattutto di favorevoli condizioni di costo) e Paesi emergenti della sponda inferiore del Mediterraneo dove si sono sapute sfruttare le risorse comunitarie a sostegno dello sviluppo. Sul piano della competitività internazionale, in breve, il Sud e le Isole sono inferiori di 30 punti alla media Ue. Sono riprese le migrazioni dalle regioni in condizioni più gravi (Calabria, Sicilia in primo luogo) con flussi che ricordano quelli immortalati da Luchino Visconti in “Rocco e i suoi fratelli”.

Le geremiadi, però, non portano sviluppo. Quale la leva da utilizzare per cercare di ripartire? Un lavoro del Ministero dello Sviluppo da qualche giorno on line (“Fare i conti con la scuola nel Mezzogiorno” in www.dps.mef.gov.it/materialiuval) apre un nuovo percorso, prendendo l’avvio, con una metodologia rigorosamente quantitativa, dall’analisi delle “competenze” (ossia di quanto effettivamente appreso) dai quindicenni che hanno frequentato le scuole nel Centro-Nord e del Sud. Vengono utilizzati dati comparativi internazionali del Programme for International Student Assessment (Pisa) ed incrociati con statistiche sul livello di reddito delle famiglie, sul grado di accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sulla spesa per studente, sulla qualità degli edifici scolastici, e così via. Si giunge a conclusioni che possono sembrare paradossali: mentre nel resto d’Europa (e del mondo) i ragazzi provenienti da un contesto familiare ad alto reddito sono anche quelli con maggiori “competenze” , nel Sud e nelle Isole i figli dei “ricchi”, provenienti dai licei (pure da quelli reputati migliori nei singoli contesti territoriali) si situano in media (in termini di conoscenze effettive di base) in una posizione inferiore a quella dei loro coetanei del Centro Nord iscritti alle scuole tecniche ed appartenenti al 25% più svantaggiato della popolazione.
Le implicazioni e le conclusioni sono chiare: senza una politica “nazionale” per la scuola (verso cui incanalare le risorse aggiuntive messe a disposizione dall’Ue per il 2007-2013) e senza un sistema anch’esso “nazionale” di valutazione dell’apprendimento, i programmi di grandi infrastrutturazione, di reti , di circuiti turistici e simili sono tra il futile e l’inutile. A riguardo sono inquietanti le voci – che auguriamoci vengano presto smentite dal Ministro della Funzione Pubblica– della chiusura dei programmi di empowerment gestiti dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) e diretti proprio a questi obiettivi. Al danno (per il Mezzogiorno) si aggiungerebbe la beffa: i flussi finanziari Ue verrebbero ridiretti proprio verso quelle aree che più fanno concorrenza al Sud

domenica 22 luglio 2007

VINCITORI E VINTI DI UN ACCORDO SQUILIBRATO

Come si è chiusa la partita finale della maxi-trattativa sulla previdenza per cambiare uno degli aspetti salienti (l’innalzamento dell’età per poter fruire di pensioni di anzianità)? Chi ha vinto? Chi ha perso? Ad una lettura superficiale, l’intesa ha la parvenza di essere equilibrata: i sindacati hanno portato a casa l’abrogazione dello “scalone” e la sua sostituzione con uno “scalino” subito e con le “quote” (sommatoria di età anagrafica ed anzianità contributiva) in futuro, ma in cambio hanno accettato una revisione triennale ed automatica dei “coefficienti di trasformazione” ((i parametri per convertire in annualità, e quindi in assegni mensili i montanti contributivi accumulati). Inoltre, viene asserito che le implicazioni sulla finanza pubblica sarebbero trascurabili.
Ad una lettura più approfondita, ci si accorge che la concessione (sindacale) sui “coefficienti di trasformazione” è più virtuale che reale. Da un canto, viene rinviato al 2010 quanto, per legge, si sarebbe dovuto effettuare nel 2006 come uno dei primi atti del Governo Prodi sulla base della relazione completata nel 2005 dal nucleo di valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro, lasciata in eredità al nuovo Esecutivo proprio per non aggiungere ulteriore carne al fuoco in campagna elettorale. Quindi, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tomaso Padoa-Schioppa (TPS), reduce da una débâcle in materia di privatizzazione di Alitale, ne subisce un'altra, pur se tenta a fare buon viso a cattivo gioco nella speranza forse di attenere “il premio internazionale Giobbe per il 2007” (quello al più paziente dell’anno)- la sua pazienza, però, mette a repentaglio non solo la sua reputazione ma il presente ed il futuro dell’Italia Da un altro, il diavolo si nasconde nei dettagli, specialmente in materia di come effettuare stime per convertire montanti in annualità e, quindi, assegni pensionistici (come indica il saggio ancora inedito di Jason S. Scott) : istituzioni internazionali e mercati esamineranno con cura gli indicatori per la revisione automatica ed i pesi proposti per esprimere la loro relativamente importanza (ad esempio, se dare maggiore rilievo agli andamenti demografici oppure a quelli economici e finanziari). E’ auspicabile che tale indicatori vengano definiti da una Commissione tecnica in cui siano rappresentati esperti vicini all’opposizione.
Non solo virtuali ma immaginifiche (avrebbe detto Gabriele D’Annunzio) le assicurazioni in materia di finanza pubblica. Sorprende (dato che la tecnologia lo consente) che TPS e Prodi non abbiamo sciorinato simulazioni scenari “controffattuali” a sostegno della conferenza stampa mattutina. A pensare male si fa peccato, ma sorge il sospetto che il modello della Ragioneria Generale dello Stato (che ha lavorato tutta la notte) abbia prodotto simulazioni “politically uncorrect” – ossia tali da minare non da supportare le dichiarazioni di TPS e Prodi. L’opposizione deve chiedere di vedere la carte. Lo chiederà anche parte della Margherita e, ci auguriamo (dato che ne conosciamo l’onesta intellettuale), il Ministro dell’Interno Giuliano Amato il cui libro recente Pensioni: rien-ne-va-plus ? non va certo nella direzione dell’intesa? Se non lo fanno saranno in brache di tela di fronte al sindacato per il resto della legislatura.
Le vere o supposte “concessioni” che avrebbero fatto i sindacati (per quanto illusorie) non vanno, comunque, bene alla sinistra radical-reazionaria. Con il caffè ed i cornetti mattutini, Salvatore Cannavò e Franco Turigliatto hanno annunciato che non ingoieranno l’accordo. Sono possibili fibrillazioni già oggi in Consiglio dei Ministri da parte non solo dei “riformisti” (perdenti) ma anche della sinistra radical-reazionaria (perdente pure lei).
Ma chi ha vinto? L’attuale dirigenza sindacale, sempre meno rappresentativa dell’insieme dei lavoratori, per non parlare di chi cerca lavoro senza trovarlo e dei giovani. Porta casa sia la vittoria sullo “scalone” diventato proprio vessillo di battaglia per distogliere l’attenzione sul nodo vero (i coefficienti di trasformazione) sia il rinvio sui coefficienti in questione. Tutela sè stessa, assicurandosi, a 58 anni, pensioni di anzianità “retributive” pari al 75% dell’ultimo stipendio alla faccia di coloro che in futuro avranno pensioni “contributive” (con trattamenti, per le carriere dinamiche, pari al 50% dell’ultimo stipendio, e molto inferiori per le altre). Prepara il proprio ricambio da individuare nelle file dei neo-pensionati di anzianità mentre i veri vincitori alterneranno secondo lavoro con le vacanze promosse dal mensile dei pensionati della Cgil “Libera Età” (ricco di offerte turistiche e non solo).
Si tratta, però, una vittoria di Pirro: non solo l’Italia si presenta in controtendenza, rispetto al resto dell’Ue e del mondo, mantenendo in vita meccanismi che permettono di andare in pensione relativamente giovani ma i sindacati italiani (sempre più composti da pensionati e pensionanti) si allontano dal resto del sindacalismo europeo, come sottolineato al congresso di Force Ouvrière conclusosi il 29 giugno a Lilla.



Jason S. Scott Longevity Annuity: An Annuity for Everyone? , ancora in versione preliminare ma si può ottenere scrivendo a jscott@financialengines.com

Ben J. Heujdra , Ward E.Rom Retirement, Pensions, and Ageing CESifo Working Paper Series No. 1974


Walter H. Fisher , Christian Keuschnigg Pension Reform and Labor Market Incentives, University of St. Gallen Economics Discussion Paper No. 2007-13

DIETRO LE PROMESSE DELL’ALBA PER PRODI SI NASCONDONO MOLTE INSIDIE

Talvolta, al termine delle lunghe notte di Palazzo Chigi spunta il sole. E’ quello che è avvenuto alle 6 del mattino del 20 luglio con l’intesa raggiunta tra Governo e sindacati su come modificare la normativa sulla previdenza pubblica varata nel 2004. L’intesa dovrebbe diventare parte di un Protocollo che verrebbe sottoscritto dalle parti lunedì 23 agosto ed aprirebbe la strada alla messa a punto dello schema di disegno di legge sul bilancio annuale e pluriennale dello Stato (in gergo la legge finanziaria). “Le promesse dell’alba” , per mutuare il titolo del libro pluripremiato dello scrittore francese Romain Gary, sono sempre incerte, nel senso che si annidano rischi e pericoli che saltino prima ancora di diventare operative. I primi commenti della parte più reazionaria della sinistra inducono a pensare che il Governo Prodi potrà essere costretto a cercare aiuto, in Senato, al di fuori della maggioranza parlamentare di cui gode soltanto per il rotto della cuffia.
Se ed in che misura, tale supporto verrà, o da qualche soggetto politico o da qualche battitore libero, dipende dal giudizio di merito che gli esperti, le istituzioni finanziarie internazionali e soprattutto i mercati daranno dell’intesa e dell’imminente Protocollo e delle loro implicazioni sulla sostenibilità del sistema previdenziale pubblico italiano.
ItaliaOggi ha seguito con rigore e con distacco oggettivo la trattativa. Una delle conclusione del negoziato è un punto forte: la revisione triennale (non più decennale) dei coefficienti di trasformazione (i parametri per convertire in annualità, e quindi in assegni mensili i montanti contributivi accumulati). Altro aspetto positivo è che tale revisione verrà fatta in via automatica (sulla base di indicatori della aspettativa di vita, della crescita del pil e delle prospettive di finanza pubblica) e non tramite una maxi-concertazione (o pertinente maxi-consociazione) tra svariati soggetti sulla base di una relazione di una Commissione Tecnica. Tuttavia, da un lato, con la stessa revisione dei coefficienti si parte con il piede sbagliato: rinviando al 2010 quanto, per legge, si sarebbe dovuto nel 2006 come primo atto del Governo Prodi sulla base della relazione completata nel 2006 dal nucleo di valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro. Da un altro, il diavolo si nasconde nei dettagli: istituzioni internazionali e mercati esamineranno con cura gli indicatori per la revisione automatica e la loro ponderazione.
Il resto dell’intesa è inquietante. L’Italia si presenta in controtendenza, rispetto al resto dell’Ue e del mondo, mantenendo in vita meccanismi che permettono non solo di andare in pensione relativamente giovani ma che privilegiano quelle 65.000 persone l’anno già beneficiate dal fruire di pensioni “retributive” (che comportano trattamenti sino al 75% dell’ultimo stipendio) e implicitamente penalizzano coloro che in futuro avranno pensioni “contributive” (con trattamenti, per le carriere dinamiche, pari al 50% dell’ultimo stipendio, e molto inferiori per le altre). Sotto questo profilo, le promesse dell’alba non sono incoraggianti. Come non lo è stata l’intera trattativa, su cui ha aleggiato un forte profumo corporativo: i sindacati non sono parsi tutelare l’insieme dei lavoratori, chi lavoro lo cerca e non lo trova e, soprattutto, le giovani generazioni, ma arroccarsi in una difesa particolaristica dei loro attuali quadri dirigenti (del loro potenziali ricambio da selezionarsi nelle file dei neo-pensionati di anzianità).
Grandi sorrisi mattutini sulle implicazioni di finanza pubblica. Non è stata fornita, però, nessuna simulazione tecnica (corredata da scenari controfattuali) come richiesto da correttezza professionale. Trasparenza in questa materia è segno importante di “good governance”, come conclude un lavoro della Banca Mondiale pubblicato in questi giorni. In attesa dei dati, non si può che sospendere il giudizio. Ma nutrire il sospetto che , come nel libro di Romani Gary, dietro “le promesse dall’alba” si annidi più di un’insidia.

PUCCINI E WAGNER IN PROSCENIO

Tre autori domineranno la stagione lirica italiana 2007-2008: Puccini, Verdi e Wagner. E’ utile precisare, per i cultori della “musa bizzarra e altera” (così il musicologo Herbert Lindeberger ha definito l’opera lirica), che in Italia si segue il sistema delle “stagioni” – un numero limitato di titoli ma con molti nuovi allestimenti – non quello “di repertorio” – spettacoli che vengono replicati 5-10 volte l’anno anche alcuni decenni –la prassi della Germania, dell’Austria, della Scandinavia, dell’Europa Orientale Centrale ed anche, con alcuni variazioni, di alcuni dei principali teatri francesi, britannici ed americani. Una “stagione” è più difficile da organizzare di un “repertorio”, specialmente se i finanziamenti sono incerti. Soltanto il 17 luglio si è tenuta la prima riunione tra il Ministero delle Attività Culturali ed Sovrintendenti della 14 fondazioni lirico-sinfoniche (ci sono anche una settantina di “teatri di tradizioni” ed una quarantina di festival sovvenzionati) per delineare i criteri di riparto del Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) per il 2008. Inoltre, dato che lo stanziamento Fus coincide con l’esercizio finanziario del bilancio dello Stato, molte fondazioni fanno coincidere i loro calendari con l’anno solare. Quindi, molti tra i maggiori teatri – quello della capitale in primo luogo – non annunciano “la stagione” che ad autunno inoltrato, quando l’iter della legge finanziaria è avanzato e si ha un’idea abbastanza precisa del Fus. Tuttavia, i contratti con registi, direttori d’orchestra, cantanti devono essere fatti con anni di anticipo; si hanno, quindi, informazioni sugli aspetti più importanti delle “stagioni”.
Alcuni suggerimenti pratici: il mensile “L’Opera” pubblica a metà ottobre un numero speciale con il cartellone dei maggiori teatri italiani ed esteri. Inoltre due siti web sono essenziali: www.operabase.com aggiorna quotidianamente i dati sui vari teatri ed ha links con i siti dei teatri anche per comprare biglietti senza transitare per agenzie e pagarne le relative commissioni; www.operaclick.com contiene recensioni (principalmente di spettacoli in Italia), commenti, interviste, retroscena. In breve, queste tre fonti consentono pure al “melomane di complemento” (coloro che non seguono la lirica con impegno quasi quotidiano) di tenersi aggiornato.
L’anno che per alcuni teatri inizierà in autunno e per molti altri in dicembre, è imperniato su tre autori. Il 2008 si celebra, in tutto il mondo, Giacomo Puccini, nato il 22 dicembre. Lucca e Torre del Lago saranno l’epicentro delle celebrazioni. Quattro gli eventi più significativi: a) l’inaugurazione del nuovo Grande Teatro a Torre del Lago (una struttura fissa ad anfiteatro all’aperto per 3200 posti con, nel suo ambito, un auditorium al chiuso per circa 500 spettatori); b) la rappresentazione, nel corso dell’anno, di tutte le dieci opere di Puccini tra il Teatro del Giglio di Lucca ed il nuovo Grande Teatro, nonché di gran parte della musica sacra, strumentale e per voce e tastiera; c) un convegno internazionale di studi che inizierà a Lucca e proseguirà a Milano ed a New York; d) un concerto al Teatro del Giglio il 22 dicembre, la data della nascita che, grazie alle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, verrà visto ed ascoltato anche da milioni di spettatori in tutto il mondo. Interessanti alcune caratteristiche a carattere economico e finanziario: a) la costruzione del nuovo Grande Teatro (un costo di 17 milioni di euro) è finanziata quasi interamente da enti locali (Regione, Provincia, Comune) e da sponsor (Enel, Poste, Fondazione Monte dei Paschi di Siena e molti altri); b) la biglietteria copre già il 43% dei costi di gestione del Festival Pucciniano di Torre del Lago (luglio- agosto di ogni anno); c) il programma musicale sarà affiancato da una serie di mostre (ad esempio Puccini e la sua terra; Puccini ed il suo tempo) allo scopo di effettuare anche un’operazione di “marketing territoriale”. Ci sarà molta attenzione alla ricorrenza anche altrove. La Scala di Milano, ad esempio, ripropone l’allestimento storico di “Bohème” ideato nel 1963 da Franco Zeffirelli ed una edizione del “Trittico” diretta da Riccardo Chailly e con la regia di Luca Ronconi). Il Teatro dell’Opera di Roma dovrebbe inaugurare la stagione con “Tosca” (che ebbe proprio lì la “prima” mondiale il 19 gennaio 1900) e in marzo presentare una nuova produzione di “Fanciulla del West” . A Torre del Lago, a Lucca, a Nizza, a Trieste (è probabile che si aggiungano altri teatri) verrà presentata la terza, ed ultima, versione de “La Rondine” con un finale più drammatico delle prime due (di norma si mette in scena la seconda edizione). Il Teatro Regio di Torino proporrà un raro allestimento di “Edgard”. “Manon Lescaut” si vedrà, in differenti edizioni, a Genova ed allo Sferisterio di Macerata; “Turandot” al San Carlo di Napoli ed alle Terme di Caracalla di Roma .
Giuseppe Verdi è sempre protagonista di stagioni e festival. A Parma, tutto il mese di ottobre è dedicato ad un festival articolato su tre opere (“La Traviata”, “Oberto, Conte di San Bonifacio” e “Luisa Miller”) con grandi cast internazionale e regie innovative: una caratteristica è la calendarizzazione – quale che sia il giorno che si decide di andare nella città emiliana e dedicare tre serate successive ai tre spettacoli: pare che il 70% della biglietteria era già venduto a metà luglio (oltre la metà a stranieri). I Teatri Comunali di Bologna e di Firenze ed il Carlo Felice di Genova “aprono” con tre nuovi allestimenti in grande spolvero di “Simon Boccanegra”, “La Forze del Destino” e i “Vespri Siciliani”. A Roma, dopo oltre un quarto di secolo, torna Riccardo Muti per dirigere “Ernani”. La Scala ripropone “Macbeth” con la regia di Graham Vick. Le tre opere “popolari” – “Trovatore”, “Rigoletto” e “La Traviata” appaiono in cartelloni di varie fondazioni liriche e teatri di fondazione.
L’attenzione per Richard Wagner è un fenomeno relativamente nuovo in Italia. Dal lato degli esecutori, deve molto alla decisione (iniziata da von Karajan) di affidarne i lavori a voci liriche. Dal lato del pubblico, dopo 30 anni di regie a carattere socio-politologico, l’interesse è suscitato, da un lato, da impostazioni che premiano la contemporaneità o gli aspetti psicologici del mito. A meno di cinque giorni di distanza, il San Carlo e La Scala inaugurano le loro stagioni con allestimenti di gran rilievo rispettivamente di “Parsifal” e di “Tristano ed Isotta”. La tetralogia (o meglio una o due opere del ciclo) torna a Firenze, Venezia e forse Roma. “Lohengrin” è programmato da Trieste ed altri teatri. Manca all’appello solo “I Maestri Cantori di Norimberga” (a ragione dell’enorme sforzo produttivo che richiede l’opera definita da Theodor Adorno come “la più completa espressione del genio occidentale”).
Ci sono naturalmente leccornie al di fuori della triade Puccini-Verdi-Wagner. Ad esempio, a Santa Cecilia a Roma, Antonio Pappano propone il “Guillaume Tell” di Gioacchino Rossini – opera eseguita integralmente pochissime volte negli ultimi 50 anni, a Cagliari si apre (in primavera) con la rara “La leggenda della città invisibile di Kitez e della vergine Fevronia” di Nikolaj Rimisky-Korsakov, alla Scala “Cyrano di Bergerac” di Franco Alfano e “1984” di Lorin Maazel, a Firenze ed a Genova rispettivamente “Elektra” (probabile addio alle scene di Sheiji Ozawa ed “Il Cavaliere della Rosa” –ambedue di Richard Strauss – in una versione che ha fatto il giro del mondo.
Ultima notazione : quasi tutti i teatri propongono musica “alta” contemporanea, spesso di autori italiani (ivi compresa un’opera di Nicola Sani sulla strage e sull’assassinio di Falcone) – segno di interresse da parte del pubblico giovane.
BOX

La riduzione dei costi ed il mantenimento di una elevata qualità sono obiettivi imprescindibili per mantenere in vita la lirica italiana. Le strade principali sono l’impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e le co-produzioni al fine di ampliare la fruizione e se possibile ritoccare al ribasso i prezzi dei biglietti e attirare nuovi spettatori. I Sovrindenti più illuminati delle fondazioni liriche progettano un “cartellone nazionale” ancorato su un numero di produzioni di grande appello per il pubblico ed in grado di girare, nell’arco di tre-quattro anni, nei maggiori teatri. In prima linea quelli delle fondazioni che espongono attivi di bilancio (come Palermo e Roma).
A livello dei “teatri di tradizione” sono stati organizzati circuiti, in cui di massima ciascun teatro appartenente alla rete produce un nuovo allestimento l’anno e lo circola agli altri. Tre sono i principali: quello lombardo, quello emiliano (che si estende a Trieste ed a Bari) e quello toscano-romagnolo.
Si sta aggiungendo quello marchigiano, o meglio quelli marchigiani. Le attività del primo inizieranno in autunno. I Teatri sono quelli di Ascoli Piceno, Fano, Fermo e Jesi (con ramificazioni internazionale tramite accordi con Nizza, la lontana Baltimora ed i più vicini Balcani). Si parte con una “Bohème” di giovani e per i giovani che in un nuovo allestimento, dopo il debutto a Treviso, salperà da Jesi per andare a Fermo e a Venezia. Si riprende poi il “Werther” messo in scena a Nizza in gennaio (grande successo internazionale) per presentarlo a Jesi ed a Fermo . Infine “Lucia di Lammermoor” sarà in tutti e cinque i Teatri (ed anche in capitali dei Balcani). Il circuito sarà pienamente funzionante nel 2008 Ancona e Macerata hanno risposto alla sfida annunciando un gemellaggio che inizierà con la co-produzione de “L’armonia del mondo” di Paul Hindemith al Teatro delle Muse in inverno ed allo Sferisterio in estate.

venerdì 20 luglio 2007

L’ALITALIA , UNA STORIA VECCHIA DI QUINDICI ANNI

Le ultime vicende del beauty contest dell’Alitalia (ossia il ritiro di Air One, che era comunque l’ultimo concorrente di tanti anni fa) hanno riportato alle mente (di chi vi partecipò) un seminario a porte sprangate tenuto (riservatissimamente) il primo maggio del lontano 1992. Presiedeva (in altra veste rispetto a quella che indossa adesso) l’attuale Ministro dell’Interno Giuliano Amato e l’obiettivo degli economisti riuniti era quello di abbozzare il programma di quello che sarebbe stato il Governo che sarebbe emerso delle elezioni in programma in giugno. Si parlava molto degli aspetti macro-economici del Trattato di Maastricht, quando uno degli intervenuti ha aperto il documento, ne ha letto alcuni articoli ed ha sottolineato che la vera essenza del trattato è che operazioni come quelle del risanamento (pescando nelle tasche di Pantalone) del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli (temi allora di grande attualità) non si sarebbe potute non solo effettuare ma neanche concepire più.
Questo aspetto del beauty contest (la gara per la cessione del 39% e successivamente di tutta la compagnia) è stato trascurato da molti commentatori in questi mesi. Tuttavia era probabilmente ben chiaro ai potenziali contendenti che uno dopo l’altro si solo sfilati dalla contesta. In breve, o avrebbero avuto mano libera per una durissima cura da cavallo (che avrebbe inciso drasticamente sui livelli occupazionali) o ci avrebbero rimesso le penne in quanto nessun Samaritano sarebbe corso in loro aiuto (come avvenne ai banchi meridionali oltre tre lustri orsono).
Lo dice a tutto tondo il documento del servizio studi della Banca centrale europea Corporate Finance in the Euro Area ? Including Background Material in corso di pubblicazione come ECB Occasional Paper No. 63. Lo ha curato una squadra di specialisti del Sistema europeo di Banche centrali (Franceso Drudi, Annalisi Ferrando, Petra Koehler, David Marques, Elmar Stress, Thomas Vlassopoulos, Carmel Martinez- Carrascal, Carmelo Salleo, Romani Perrard, Anssi Rantala, Annie Sauve, Yener Altunbas, Angela Maddaloni, Stefano Borgioli, Peter Askjaer-Drejer, Francesco Bevilacqua) .L’analisi è approfondita e comparata e consente di afferrare le caratteristiche della scorporate finance nell’area dell’euro non solo nelle sue implicazioni di politica monetaria (l’aspetto su cui spesso più si pone l’accento) ma anche su quelle di strategia aziendale. I dati coprono il periodo 1995-2005 (ma in alcuni casi giungono al marzo 2007). La situazione finanziaria dell’Alitalia (senza un cavaliere bianco che se ne prenda carico per risanarla , effettuando le riorganizzazioni necessarie, e rilanciarla) non è in linea non tanto con le regole del Trattato di Maastricht e decisioni successive (si può sempre sperare in giudici fantozzianamente dal cuore tenero) quanto con la lex mercatoria (le prassi delle transazioni internazionali, molto più cogenti delle regole scritte) che in dieci anni circa di unione monetaria si è affermata e consolidata nell’area dell’euro. E’ illusorio sperare in un Samaritano finanziario (ossia in una o più banche che corrano al salvataggio) : William Bernstein nell’ultimo fascicolo del Financial Analysts Journal ) rileva come la lex mercatoria si applichi anche al settore dei servizi finanziari. Infine, Daniel Kaufmann , Aart Kraay e Massimo Mastruzzi in un esame degli indicatori di governance nel 1996-2006 per 212 Paesi (World Bank Policy Research Working Paper No. 4280, disponibile in Europa in settembre in versione cartacea) mostrano come la non osservanza della lex mercatoria indica sulla credibilità non solo delle aziende ma anche dei Governi.
Dove andare a parare? Un percorso consiste nel portare i libri in tribunale ed iniziare una procedura di fallimento come sostengono da tempo economisti specializzati nel ramo (si pensi agli scritti di Carlo Scarpa su La voce@info o nei documenti dell’Istituto Bruno Leoni) . Un'altra strada possibile è (dietro autorizzazione dell’Ue) lanciare una nuova gara, ma con tutte le regole e le procedure del caso. Non uno sbrindellato beauty contest inconcludente. Tertium non datur. Ho gestito gare internazionali per tre lustri quando lavoravo in Banca Mondiale e non vedo altre possibilità.

GLI DEI TERRENI DELLA VALCHIRIA

Dopo “La Valchiria” presentata a Firenze (in co-produzione con Valencia), arriva l’edizione proposta a Aix-en- Provence per il nuovo Gran Théâtre de Provence. Co-prodotta con il Festival di Salisburgo dove sono già aperte le prenotazioni, è parte del progetto di realizzare, su quattro anni, l’intero “Anello del Nibelungo” con un cast internazionale ed i Berliner Philarmoniker. A ruota giunge il nuovo allestimento con la regia di Eimuntas Nekrošius; dopo aver debuttato all’Opera Nazionale di Lituania , in tournée in Italia (dove si è visto a Ravenna e sarà al Festival di Ravello il 22 luglio) prima di toccare altre piazze e di entrare “repertorio” (ossia essere rappresentata ogni stagione per un certo numero di anni) a Vilnius. Sono nuove produzioni che stanno facendo discutere pubblico e critica.
Soffermiamoci su quello che da Ravenna sta veleggiando verso Rapallo (in quanto più accessibile al pubblico italiano). Su un palcoscenico relativamente piccolo (rispetto a quelli di Firenze, Valencia, Aix e Salisburgo) e con un organico forzatamente ridotto nella buca d’orchestra, Nekrošius situa la complessa vicenda di amori tra dei, semidei, uomini e donne in un Medio-Evo post-moderno e visionario dove dominano il rosso e nero. Sull’intreccio aleggia un’atmosfera di violenta incomunicabilità, da cui sembra sottrarsi unicamente la coppia dei due più giovani amanti. Molto accurata la recitazione. Diligente la direzione orchestrale del polacco Jacek Kaspszyk. Tra gli interpreti spicca Johannes Von Duisburg (Wotan, il re degli dei) non soltanto per le sue doti vocali e perché lo spettacolo è incentrato sul tormentato declino delle divinità ma in quanto, unico tedesco della compagnia, ha una dizione perfetta mentre gli altri, lituani, hanno difficoltà di pronuncia.
Nell’impostazione di Stéphane Braunschweig (regia e scene) e di Sir Simon Rattle l’”Anello” di Aix-Salisburgo non è un mito da attualizzare facendo ricorso alla Pop-Art (come nell’edizione fiorentina), ma una vicenda di rapporti e tensioni tra individui in cui gli dei (di cui si avvicina il crepuscolo) sono più fragili degli esseri umani; l’intero intreccio si svolge in abiti contemporanei ed in interni. In breve, un’interpretazione inquietante ma tra le più intense del lavoro wagneriano viste ed ascoltate in questi ultimi anni.
Sir Simon Rattle e i Berliner danno il loro meglio nel Gran Théâtre de Provence dove si è letteralmente avvolti dalla musica. Rattle ha a disposizione un organico quali previsto da Wagner (ad esempio le arpe sono davvero sei, non due come invalso nella tradizione); dilatando i tempi , accentua i colori della partitura. Meravigliosi gli ottoni ed i fiati. Con una fossa molto profonda, l’immenso organico non copre mai le voci, un grande cast internazionale, di cui si può ascoltare ogni parola ed ogni nota. Un miracolo che si ripeterà a Salisburgo.

giovedì 19 luglio 2007

Air One esce dalla gara Alitalia e TPS registra l'ennesimo fallimento

C’è una strana amarezza quando si ha ragione troppo presto. Sin dalla lettura del bando per la privatizzazione (peraltro parziale, ma potenzialmente soggetta a Opa totalitaria da parte del potenziale vincitore) avevamo preconizzato che il beauty contest (non l’asta di cui ha parlato per mesi il Presidente del Consiglio Romano Prodi) era votata o al fallimento o a concludersi in un labirinto di ricorsi che avrebbero portato probabilmente al suo annullamento o da parte delle autorità antitrust italiane o da parte della Corte di Giustizia Europea. Non era una profezia ma il frutto di esperienza di direzione di uffici in Banca Mondiale per circa tre lustri e di esperienza, quindi, sul campo – ed in corpore et cute – di gare internazionali.
Ora la stima fatta in gennaio e ribadita su L’Occidentale sin dal primo numero del nostro quotidiano di orientamento è diventata realtà con il ritiro di quella Air One (che sembrava a tutti come la compagnia superfavorita anche e soprattutto dalla politica) dal contesto. E che comunque era rimasta la sola in gara. A quello che si è dato di comprendere, Air One tira i remi in barca in quanto i sindacati (e la stazione appaltante – su cui aleggia la sinistra reazionaria) hanno detto chiaro e tondo che non accettano una riduzione di organico come quella proposta (circa 2500 unità) per riorganizzare la compagnia.
Questo ultimo sviluppo del tormentone Alitalia ha implicazioni sia di politica economica generale sia specifiche al settore ed all’azienda. Per quanto attiene alla politica economica generale, il titolare del dicastero dell’Economia e delle Finanze, Tomaso Padoa-Schioppa (TPS) segna un’altra sconfitta nel suo curriculum di Ministro: ancora una volta – come ha sottolineato ieri Alberto Alesina su Il Corriere della Sera – avere seguito comportamenti incoerenti (ove non apertamente contrastanti) con quanto ha scritto in articoli e libri lo ha reso foglia di fico della sinistra reazionaria e di interessi particolaristici. Le sue dimissioni – ed il suo ritorno nella tanto amata Parigi – sarebbero nell’interesse e suo e dell’Italia dopo questo ulteriore insuccesso che mette a repentaglio la politica dell’industria e della tecnologia del Paese.
Sotto il profilo dell’azienda le strade possibili sono due dato che non è fattibile il percorso (di dubbia correttezza ed ancor più dubbia legittimità) accarezzato nei Palazzi romani nelle ultime due settimane: fallita la gara, entrare in trattativa con l’unico concorrente in lizza per una licitazione privata. Tale idea avrebbe danneggiato tutti (pure Air One, che se ne è accorta): si aprirebbe un complicato contenzioso interno ed internazionale sull’osservanza delle regole europea e della prassi internazionale (la lex mercatoria non scritta ma cogente come se lo fosse) che potrebbe aggravare tensioni già esistenti all’interno del Governo e danneggiare ulteriormente l’immagine dell’Italia all’estero. Chi più verrebbe ad investire da noi se non c’è certezza di regole analoghe a quelle seguite nel resto del mondo avanzato? Per la stessa Air One, una licitazione privata sarebbe una vittoria di Pirro, con contenziosi dietro la porta ed il ritorno del fantasma della operazione Sme.
Un percorso consiste nel portare i libri in tribunale ed iniziare una procedura di fallimento come sostengono da tempo economisti specializzati nel ramo (si pensi agli scritti di Carlo Scarpa) . Un'altra via possibile è (dietro autorizzazione dell’Ue) lanciare una nuova gara, ma con tutte le regole e le procedure del caso. L’Occidentale ha fornito suggerimenti anche tecnici in materia. Se richiesti siamo pronti a tornare sul tema.
Per saperne di più
Carlo Scarpa Alitalia: un prezzo troppo elevato per il Paese in www.brunoleoni.it
Francesco Drudi (ed altri), Corporate Finance in the Euro Area ? Including Background Material" ECB Occasional Paper No. 63


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18 Luglio 2007 air one alitalia italia padoa schioppa prodi Economia Commenta Email Condividi

© 2007 Occidentale srl. Tutti i diritti riservati. redazione@loccidentale.itL'Occidentale è una testata giornalistica registrata. Direttore responsabile: Giancarlo Loquenzi. Registrazione del Tribunale di Roma n° 141 del 5 Aprile 2007

ROMA RICORDA GIGLI

Per i 50 anni dalla scomparsa di Beniamino Gigli, il Teatro dell’Opera di Roma (dove il tenore di Recanati si è esibito in ben 99 ruoli e circa 400 recite dal 1916 al 1953) ha organizzato una serata particolare: un recital di tre voci giovani ma già molto affermate, accompagnate da pianoforte alle Terme di Caracalla. Le voci erano Rolando Villazòn, Nathalie Manfrino e Franco Vassallo. Il piano era affidato a Ángel Rodríguez. I critici più schizzinosi non possono non storcere il naso di fronte fatto che per un recital che sarebbe stato perfetto in un sala di 200-300 posti con un’acustica perfetta, siano state scelte le rovine romane in cui , da qualche anno, il Teatro dell’Opera ha ripreso una stagione estiva (che nel 2007 annovera tre opere liriche, due balletti e due concerti per un totale di 25 rappresentazioni). Tuttavia, il alcune occasioni (come la ricorrenza di un tenore al tempo stesso generassimo e popolarissimo) è bene che la lirica tolga le vesti paludate di “musa bizzarra ed altera” e vada verso caratteristiche nazional-popolari. Anzi una delle ragioni per cui mentre all’estero si costruiscono nuovi teatri ed il pubblico fa la fila per rappresentazioni liriche, mentre da noi l’opera langue risiede proprio nella perdita della patina nazional-popolare e dell’essere sempre più considerata come spettacolo polveroso per cariatidi del tempo che fu.
Comunque nella serata del 16 luglio, le Terme di Caracalla mostravano tutto il loro splendore sotto un cielo terzo e stellato (ogni tanto disturbato da qualche area in atterraggio od in decollo nel vicino aeroporto Leonardo da Vinci a Fiumicino). Una serata che sarebbe piaciuto a Giglia che cantava quando alle Terme erano stati dilatati gli spazi per creare una platea di 10.000 spettatori in quanto il Governo dell’epoca enfatizzata l’italianità ed il carattere popolare della lirica.
Un recital a Caracalla è necessariamente amplificato. Ciò crea comunque difficoltà nell’apprezzare le sottigliezze della voce (ed ancor più quelle dell’accompagnamento per pianoforte). Inoltre, i tre cantanti non tenevano sempre a giusta distanza il microfono, creando degli scompensi. Tuttavia – ripetiamolo – ciò non aveva effetti complessivi sulla presa dello spettacolo sul pubblico , venuto abbastanza numeroso sia con intenti celebrativi sia per scoprire la star del momento (Rolando Villazòn) più che per badare alle sfumature.
Il concerto era articolato un due parti-la seconda prevalentemente verdiana e la prima con belcantismo in alternanza con arie e duetti pucciniani ed escursioni nell’opéra lyrique.
Villazòn non era in perfette condizioni di salute ma ha cantato con generosità . Ha aperto il concerto cantando un’aria particolarmente difficile Una furtiva lacrima. Nonostante dovesse cantare “a freddo” ha dato prova di alcune caratteristiche della sua voce: un timbro chiaro, un fraseggio morbido, la capacità di ascendere a si naturali ed a do trattenendo a lungo la nota. Nei due duetti successivi O soave faciulla (con la Manfrino) e Venti scudi (con Vassallo) , non solo non hai coperto i colleghi (Vassallo, comunque, era certamente in condizioni vocalmente migliori, soprattutto sotto il profilo del volume) ma ha mostrato abilità nel passare dal belcanto alle soglie di un verismo che richiede un colore leggermente più scuro. Vale la pena ricordate che l’allora 27nne Villazòn (anche non scoperto da Lissner per una memorabile Traviata a Aix en Provence) ha avuto un debutto romano importante proprio a Roma in una Bohème per giovani voci al Teatro Brancaccio.
Nella seconda parte, Villazòn ha affrontato principalmente Verdi ( Quando le stelle al placido , Dio che nell’Alma, Per me giunto è il passo estremo) ed il Lamento di Federico , inevitabile in una commemorazione di Beniamino Gigli. Tecnicamente perfetto (ma a tratti un po’ freddo) sia negli “a solo” sia nei duetti con Vassallo e con la Manfrino, ha riscaldato il pubblico nel bis finale dedicato alla canzone napoletana.
Vassallo, ancorché giovane, è molto noto al pubblico. E’ il baritono verdiano per eccellenza del momento (ha cantato Eri tu e Ormai giunto al passo estremo oltre ai duetti con Villazòn) ma ha ricordato le sue ascendenze belcantistiche e di agilità (con il donizettiano Venti scudi ed il rossiniamo Largo al factotum)ò.
La vera scoperta della serata è stata Nathalie Manfrino che, credo, in Italia si sia ascoltata soltanto in Manon di Massenet al Massimo di Palermo. Sorprende la sua versatilità, nonostante la giovane età, nel passare dal melodramma verdiano, all’opéra lyrique alle soglie del verismo. In Patria ed in Spagna si è anche cimentata con successo con uno dei più difficili ruoli mozartiani (Fiordiligi) , con la scrittura vocale novecentesca (Costanza ne Les Dialogues des Carmélites di Poulenc, Roxane in Cyrano di Alfano) e con Gluck. E’ un’interprete da tenere d’occhio; promette di andare lontano.

IL BUON SENSO DI DRAGHI SMONTA TESORETTO E PENSIONI

L’audizione del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi alle Commissioni Bilancio della Camera e del Senato ha un rilievo politico non perché – come affermano alcuni commentatori nei giornali della mattina del 17 luglio – contenga critiche più o meno velate o più o meno rigorose nei confronti del Governo in carica ma perché pone dei paletti fermi nel percorso tra il Dpef (presentato il 28 giugno) e il disegno di legge sul bilancio annuale e pluriennale dello Stato, in gergo la legge finanziaria, da presentarsi entro il 30 settembre. I paletti principali sono due : a) sfata la leggenda del cosiddetto “tesoretto” – ossia della annunciata eccedenza di gettito rispetto alle previsione e delle possibilità, quindi, di utilizzarne le risorse per varie forme di intervento pubblico (le richieste dei Ministeri sono ammontate a ben 25 miliardi di euro); b) la necessità di mettere in campo una riforma della previdenza che comportamenti un innalzamento (non una riduzione) dell’età media effettiva di pensionamento (rispetto alle stesse ipotesi della riforma Maroni del 2004) non una riduzione come richiedono i sindacati e quella parte della sinistra chiamata giornalisticamente “radicale” ma che più appropriatamente dovrebbe essere definita “reazionaria”.
Sul “tesoretto” rimandiamo a quanto scritto su “L’Occidentale” del 30 giugno quando presentammo calcoli dettagliati per dimostrare che era già “andato in fumo” in quanto le spese di parte corrente (specialmente per stipendi) galoppavano ad un ritmo molto veloce di entrate – che, per di più, rispecchiavano la politica tributaria del 2001-2005 a ragione del time lag (scarto temporale) tra una misura di politica economica ed i suoi effetti (la sezione Italia del modello econometrico della Bce lo stima in tre anni). Allora non ci siamo consultati con il servizio studi di Bankitalia né con quelli di Camera e Senato: bastava una calcolatrice ed un può di buonsenso. Ci conforta che Bankitalia (ed i servizi studi di Camera e Senato) siano giunti a conclusioni analoghe.
Sul futuro delle pensioni è in corso una complicata , anzi barocca, trattativa in cui il Presidente del Consiglio ha avocato a sé funzioni e competenze (anche costituzionali) dei Ministri dell’Economia & Finanze e del Lavoro & Previdenza Sociale. La strada per riequilibrare gli aspetti distributivi del sistema e renderlo sostenibile nel medio periodo non è così ardua. Richiede uno scacco matto in 5 mosse (l’una strettamente connessa all’altra): a) aumentare l’età minima per avere accesso alle pensioni di anzianità (con eccezioni per i lavori davvero usuranti) ed eliminarle nel giro di pochi anni per avere, come in gran parte degli altri Paesi industriali, una previdenza pubblica che contempli unicamente pensioni di vecchiaia; b) introdurre subito il meccanismo contributivo (estendendo a tutti le tecniche di computo “pro-quota” già in atto per coloro che il primo gennaio 1996 erano iscritto all’Inps o ad altri enti) anche perché altrove analoghe transizioni (da meccanismi “retributivi” a “contributivi” per il calcolo delle spettanze) sono state fatte nell’arco di tre-cinque anni invece dei 18-30 previsti da noi; c) applicare i nuovi coefficienti di calcolo delle spettanze (quali proposti dal Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro circa un anno fà) per tenere conto dell’allungamento delle aspettative di vita e facilitare la “totalizzazione” (in linea con le tendenze del mercato del lavoro); d) aumentare le pensioni più basse ed agganciarne l’evoluzione all’andamento dei salari (come prima del 1993); e) prevedere un indicizzazione ancora più forte per chi supera gli 80 anni (a ragione delle più alte spese per la cura della persona in cui si incorre in tarda età). I risparmi sulle voci a), b) e c) – di cui oggi beneficia, di norma, chi ha redditi alti o medio alti, servirebbero a finanziare le voci d) ed e) , dirette invece a chi è in condizioni di vero disagio. Il Governo, invece, ha realizzato sono d) e per le altre voci sta trattando materie che indeboliscono il sistema mettendo a repentaglio, con le future pensioni dei giovani, il tessuto socio-economico del Paese. Infatti, non soltanto il 16% del pil (o giù di lì) ora destinato alla previdenza rischia di aumentare ma il debito previdenziale minaccia di giungere al 180% del pil prima del termine della legislatura. Secondo dati dello stesso Ministero del Lavoro, senza le voci a), b) e c) riassunte in precedenza, il saldo negativo dello stato patrimoniale dell’Inps passerebbe dai 120 miliardi di euro (all’ultima conta) a circa 580 miliardi di euro nel 2030. Abbastanza per fare tremare i mercati e preoccupare i nostri partner nell’Ue e nell’Ocse.
Gli ostacoli ad una riforma equilibrata sono uno politico ed uno sindacale. Da un lato, è in atto un vero e proprio braccio di ferro all’interno della maggioranza a proposito del costituendo Partito Democratico: la previdenza è diventata la linea di demarcazione tra i partiti presentatisi uniti un anno fa sotto il vessillo dell’Unione. Da un altro, uno scontro di pari portata è in atto nel sindacato. La “riforma Dini” ha inteso non penalizzare le fasce di età vicine alla quiescenza (in gran misura tipiche della dirigenza sindacale di allora). L’ipotesi (del 1995) era che nell’arco di dieci anni si sarebbero smaltite. Ora il confronto intergenerazionale è all’interno del sindacato: la nuova dirigenza teme “pensioni d’annata” più basse di quelle dei loro predecessori. Lo “scalone” interessa appena 60.000 persone l’anno. Avrebbero il privilegio di pensioni consistenti (in quanto basate sulle retribuzioni) e potrebbero diventare quadri relativamente giovani di sindacati alla ricerca di teste e braccia semi-volontarie.
A “fare politica” non è Draghi ma chi per interessi particolaristici non tiene conto di paletti economici e finanziari oggettivi.

ARRIVA UN ALTRO SCIPPO SU PENSIONI E SALARI

Il Ministro delle Finanze del Re Sole, Jean-Baptiste Colbert, diceva che i Ministri parlano per decreti non tramite libri, saggi o interviste. E per decreto (il Decreto Ministeriale del 4 marzo 2007 n. 45 pubblicato sulla G.U. del 10 aprile 2007, n. 83) , Tomaso Padoa-Schioppa parlò: proprio mentre i portavoce del regime intonavano coretti a cappella sul presunto “tesoretto”, decretò che la finanza pubblica è al collasso. Se ne sono accorte le agenzie di classificazione dei titoli mobiliari e la stampa straniera prima dei diretti interessanti (DIPENDENTI E PENSIONI DI ENTI PUBBLICI E PENSIONATI INPDAD – OSSIA ALCUNI MILIONI DI UOMINI E DONNE). Dalle loro tasche dal prossimo autunno verrà tolto, ogni mese (e per sempre), lo 0,35% delle retribuzioni (ai lavoratori) e lo 0,15% (ai pensionati) se non inviano nei prossimi giorni un modulo all’ufficio provinciale Inpdap di loro competenza per opporsi al prelievo: la modulistica è disponibile sul sito della Federazione lavori pubblici e pubbliche funzioni (www.flp.it, CLICCANDO IL CANALE DOCUMENTI ED ANDANDO AL DOC. N. 40 DEL 31 MAGGIO SCORSO).
Il prelievo viene formalmente giustificato dalla ADESIONI AL FONDO PER IL CREDITO AGEVOLATO Inpdap (per quale motivo, ove ce ne fosse l’esigenza, non affidare questa funzione a uno o più istituti bancari?); le radici di tale iniziativa affondano (è il termine appropriato) nella legge delega del 14 maggio 2005 n. 80 che della riforma del codice di procedura civile- le strade dei prelievi sono infinite. Si viene “iscritti di diritto al fondo” (senza che se ne sia fatta alcuna pubblicità) se nella calura di mezza estate non ci si affretta a inviare, per raccomandata, il modulo in cui si comunica “la propria volontà di non” farne parte.
In sostanza, siamo ad un misura analoga al balzello sui depositi in conto corrette attuato nell’estate del 1992 dal Governo Amato nel mezzo della crisi valutaria che travolse la lira. La differenza è che si tratta non di una una tantum (come il balzello Amato) ma di una semper tantum , “non rimborsabile” neanche se - quando ci si accorge- di avere meno soldi in busta paga, si protesta e si chiede di uscire dal nuovo carrozzone. Il ricorso ad un prelievo estivo all’insegna dell’umma-umma (con la scusa del silenzio assenso) è la certificazione del collasso della finanza pubblica caratterizzata della spesa facile e di nuove agenzie costose e spendaccione (come quelle in cantiere per gli aiuti al terzo mondo e per la formazione).
Cosa fare? In primo luogo, chi è in tempo (secondo una lettura del decreto la scadenza è in agosto, secondo un’altra in settembre), corra a fare la raccomandata per evitare lo scippo dal proprio stipendio o dalla propria pensione. In secondo luogo, chi ha risparmi, esamini con cura il proprio portafoglio E’ altamente probabile che giovedì 19 luglio alle 10, la Bce aumenti i tassi d’interesse, misura che necessariamente deprezza il valore delle obbligazioni in essere. Unitamente alla notizia sulla vetta himalayana toccata dal nostro debito pubblico ed al diffondersi delle informazioni sul nuovo prelievo (pur se in maschera), i titoli di Stato rischiano grosso. I dipendenti pubblici ed i pensionati (tra i principali acquirenti di titoli di Stato) sono, quindi, in pericolo due volte: nel flusso di reddito netto e nel valore del loro (piccolo) patrimonio. Chi si ferma, è perduto, come diceva sin dal titolo, un film di Totò……………………………che spesso sapeva leggere nelle pieghe delle dichiarazioni-per-decreto meglio di tanti barracuda-esperti.

LA NUOVA VIGILANZA NON PASSA DAGLI EMENDAMENTI

Il dibattito – in effetti mai sopito - sul modello di vigilanza del settore finanziario meglio adatto all’Italia è stato riaperto dalla presentazione di un emendamento governativo al ddl sul credito al consumo una norma che prevede la soppressione dell’Isvap ed il trasferimento delle sue funzioni alla Banca d’Italia. Al di là dei vantaggi e svantaggi della misura specifica e della opportunità o meno di cercare di realizzarla tramite un emendamento in un ddl su materie affini (ma differenti), è utile fare il punto sul modello di vigilanza sulle attività finanziarie in evoluzione e sui suoi costi e benefici rispetto ad altri.
E’ argomento che MF-Milano Finanza ha già trattato molte volte; in un certo senso questa testata è stata un precursore in quanto nell’ormai lontano 1999 ha dedicato al tema un’inchiesta a puntate – in parallelo con l’affermarsi in Europa (ed anche in Italia) forme di banqueassurance che si ponevano, con l’offerta di servizi finanziari integrati, su un terreno differente delle banche, delle assicurazioni e delle società di gestione del risparmio tradizionali. Nel contesto dell’epoca (non si era ancora varata la nuova architettura della legge 28 dicembre 2005, generalmente chiamata la legge sul risparmio); su molti nuovi soggetti incombeva una vigilanza plurima da parte di organi di controllo con criteri e procedure non necessariamente convergenti. Allora, il problema non era esclusivamente italiano, ma europeo – negli Usa l’architettura è marcatamente più complessa a ragione delle natura federale del Paese e delle vaste competenze dei singoli Stati.
Negli ultimi otto anni, molti Paesi hanno realizzato riforme. Si confrontano due modelli: a) vigilanza unica od integrata (in cui un’unica autorità ha compiti di vigilanza su tutte le attività di servizio finanziario quale che sia il soggetto titolare): b) vigilanza settoriale o funzionale (quindi condotta da agenzie specializzate a seconda delle categorie dei prodotti finanziarie, e dei soggetti pertinenti).
Negli altri 28 Stati dello Spazio economico europeo (See), 14 hanno adottato il sistema di vigilanza unico integrato: Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Germania, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Svezia, Regno Unito, Islanda, Norvegia. Esistono varie autorità di vigilanza con poteri e responsabilità differenti in: Francia, Cipro, Repubblica Ceca, Finlandia, Grecia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Liechtenstein. Nei Paesi Bassi è stato ultimato il processo di riorganizzazione per finalità, con la creazione di un’autorità per la stabilità finanziaria. Generalmente, quale che sia il modello, resta, più o meno pregnante, il ruolo della Banca centrale, quale supervisore del settore bancario. In alcuni Stati con sistema di vigilanza unico, come Germania ed Austria, la Banca centrale collabora attivamente nel settore bancario; nel Regno Unito e in Svezia, invece, il coinvolgimento è limitato, in Danimarca inesistente. In Irlanda la vigilanza unica risulta è all’interno della stessa Banca centrale ma con poteri completamente autonomi.
La vigilanza unica, o integrata, sta diventando, quindi, il modello prevalente nello See. Le determinanti sono le seguenti: a) economie di scala (dato che molteplici funzioni comuni, quali personali e sistema informatico, possono essere accentrate), b) migliore gestione di risorse specialistiche (a volte carenti nei singoli regolatori); c) eliminazione di conflitti tra obiettivi e realizzazione di parità di approccio alla vigilanza (minimizzando ove non riducendo arbitraggi regolamentari); d) maggiore trasparenza nei confronti di vigilati, consumatori, organi politici.
In breve, secondo analisi di Banca mondiale e Fmi (non riferite all’Italia) il costo complessivo sul sistema economico della vigilanza integrata è inferiore a quello della vigilanza settoriale che si sta affermando da noi. Tuttavia sono proprio Banca mondiale e Fmi a sottolineare come non si tratti di un passaggio semplice: occorre omogeneizzare la regolazione, spesso frammentata (specialmente tra il settore bancario e quello assicurativo), mettere in conto un lasso di tempo adeguato (non inferiore a due anni) per risolvere gli inevitabili problemi organizzativi, fare attenzione che non ci sia una “cultura dominante” (sovente quella della Banca centrale) ad impregnare l’autorità di vigilanza unica e che il personale più qualificato non abbandoni la nuova agenzia. Tutti passaggi più adatti ad un disegno di legge organico che ad un emendamento ad un ddl, su temi vagamente affini, già in discussione.