FINANZA/ Elezioni e
trasformismo, il rebus di capodanno
Il 2018 sarà
un anno di elezioni per l’Italia. E potrebbe proseguire il trasformismo
politico già in atto. Con effetti che potrebbero essere economicamente
negativi. GIUSEPPE PENNISI 01 gennaio 2018 Giuseppe Pennisi
Lapresse
Si sta aprendo
un nuovo anno. Come sottolineato nelle ultime settimane su questa testata, e
come enfatizzato dal Presidente del Consiglio nella conferenza stampa con cui
si è chiuso il 2017, i segnali economici sono moderatamente incoraggianti. La
crescita iniziata l’anno scorso dovrebbe irrobustirsi, specialmente se
l’economia internazionale fornisce un traino all’eurozona, e, quindi,
all’Italia. È un anno elettorale e i risultati economici dipenderanno, quindi,
anche dal contesto politico e della politiche economiche che verranno messe in
atto. Per il momento, non si conoscono con sufficiente dettaglio i programmi
delle forze politiche che si contendono la guida del Paese.
Con la legge
elettorale denominata Porcellum, con cui cinque anni fa è stata eletta la XVII
legislatura, si pensava che sarebbe uscito un quadro politico chiaro. Invece,
la legge era stata concepita per un sistema bipolare ove non bipartitico,
mentre le elezioni hanno dimostrato che l’Italia era ormai divisa in tre forze
politiche quasi di pari grandezza e che con esagerato premio di maggioranza
(giudicato incostituzionale dalla Consulta) con una manciata di voti si
conquistava uno dei rami del Parlamento. Quindi, abbiamo avuto nei cinque anni,
tre Governi, maggioranze cangianti e un uso abnorme del “voto di fiducia” per
fare progredire l’azione legislativa. Il clima è stato di continua incertezza.
La XVII
legislatura è stata caratterizzata da un altro fenomeno. L’Associazione Open
Polis ha censito ben 566 cambi di gruppo parlamentare, portati a termine da 347
parlamentari, il 35,53% degli eletti. Montecitorio ha totalizzato 313 cambi di
gruppo, con 207 deputati coinvolti, il 32,86% del totale. A Palazzo Madama
invece gli spostamenti sono stati 253, con 140 senatori transfughi (il 43,57%).
In 57 mesi di legislatura, ci sono stati 9,58 cambi al mese. Rispetto allo
scorso quinquennio (2008-2013), la media è più che raddoppiata: nella XVI
legislatura i cambi di casacca al mese erano infatti 4,5. Nella XVII, un
parlamentare ha cambiato dieci gruppi, ossia mediamente due l’anno.
Parte di
questi cambiamenti sono avvenuti negli ultimi mesi ove non settimane a ragione
di nuove aggregazioni tra forze politiche, stimolate anche della normativa
sulla raccolta di firme per presentare liste che non abbiamo già una rappresentanza
in Parlamento. È lecito, però, chiedersi se non si stia tornando al trasformismo
che caratterizzò, per un non breve periodo, i Governi e la vita
parlamentare della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, sino alle
soglie della Prima guerra mondiale. Agostino Depretis, il cui nome è quello più
frequentemente associato al fenomeno del trasformismo, lo
teorizzò e decantò quelli che riteneva fossero i suoi pregi: “Mentre si era
soliti dire che il Governo rappresentava un partito, noi intendiamo governare
nell’interesse di tutti ed accetteremo l’appoggio di tutti gli uomini onesti e
leali, a qualsiasi gruppo appartengano”. E ancora: “Io spero che le mie parole
potranno facilitare quella concordia, quella feconda trasformazione delle parti
liberali della Camera (allora era l’unico ramo del Parlamento a votare la
fiducia al Governo, ndr) che vorranno a costituire quella tanto invocata salda
maggioranza, la quale ai nomi storici tante volte abusati e forse
improvvidamente scelti dalla topografia della Camera, sostituisce per proprio
segnacolo un’idea comprensiva, vecchia come il mondo, come il moto sempre
nuova: il progresso”.
Attenzione,
nel corso della XVII legislatura, un Presidente del Consiglio ha ventilato
l’idea di cambiare il nome del Partito democratico in Partito della Nazione,
una formazione catch all, ossia “acchiappa voti” (e “acchiappa
parlamentari”) senza orpelli ideologici o chiara Weltanschauung. Le
giustificazioni apportate non erano differenti da quelle del brano di Depretis
che si è citato. L’idea - occorre dirlo - è subito rientrata.
Il trasformismo
sarà anche una caratteristica della XVIII legislatura? Difficile fare un
pronostico sino a quando non si conosceranno gli esiti delle elezioni in
calendario la prossima primavera. Dato che i sondaggi indicano che nessuna
coalizione o forza politica avrà la maggioranza, è possibile ipotizzare
cambiamenti di gruppi parlamentari al fine di facilitare la formazione e la
tenuta di un Governo per la Repubblica.
Il trasformismo
di fine Ottocento-inizio Novecento ha favorito il progresso, come
ipotizzato da Depretis? Senza dubbio, è stato associato con una fase di
trasformazione dell’Italia, da poco unificata. Alcuni storici economici
attribuiscono al fenomeno un ruolo non solo nell’infrastrutturazione del Paese
(grazie all’intervento pubblico) e all’industrializzazione (tardiva rispetto al
resto d’Europa e agevolato dal protezionismo e da leggi di incentivazione,
nonché da ambizioni internazionali e coloniali.
Basta, però,
conoscere qualche dettaglio della storia del periodo, o leggere qualche romanzo
parlamentare dell’epoca (ad esempio, L’Imperio di Federico De Roberto),
per sapere che gli intenti del trasformismo non erano sempre così nobili
e che l’epoca fu costellata di scandali, particolarmente nel settore bancario
fragile e mal gestito. I crac del Credito Mobiliare, della Banca Generale e
soprattutto della Banca Romana mostrano come il trasformismo non avesse
mirato a curare gangli vitali per il progresso.
Oggi
l’industria italiana è alle prese con l’integrazione economica internazionale e
con l’agguerrita concorrenza che ne consegue. La recente inchiesta parlamentare
sul sistema bancario ha messo in luce le fragilità del nostro sistema bancario
e l’urgenza di una normativa che consenta di ottenere una più stretta
collaborazione tra gli organi di vigilanza, della creazione di un organo
collegiale per la risoluzione delle crisi bancarie, e maggiore trasparenza nei
confronti dei clienti. Il trasformismo e la mancanza di una chiara
politica economica potrebbero essere un freno e non un acceleratore del
rafforzamento della crescita.
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