OPERA/ Quei Masnadieri contro
i "poteri costituiti" senza il senso della ribellione
La prima al
Teatro dell'Opera di Roma salutata da bordate di fischi alla regia e alle
scene. Ovazioni al giovane soprano e applausi a baritono e basso. GIUSEPPE
PENNISI 24 gennaio 2018 Giuseppe Pennisi
Una scena de "I
Masnadieri" al Teatro dell'Opera di Roma (Foto di Yasuo Kageyama)
Dal 21
gennaio è in scena al Teatro dell’Opera di Roma I Masnadieri di Giuseppe
Verdi, lavoro poco rappresentato in Italia (mentre lo si vede spesso nei Paesi
di lingua tedesca). La prima è stata salutata da bordate di fischi e “buu” alla
regia, alle scene, ai costumi e ai video. Fischi anche al tenore, ma ovazioni
al giovane soprano e applausi al baritono e al basso. Segno che il pubblico
romano, che ha la reputazione di essere sonnolento, è vivo e sveglio.
E’ solo la
seconda volta che il titolo viene rappresentato nel principale teatro della
capitale, dove aveva debuttato negli anni Settanta in un’edizione diretta da
Gianandrea Gavazzeni. Tratto da una tragedia di Schiller, l’opera ebbe la prima
assoluta a Londra nel luglio 1847 e approdò in Italia al Teatro Apollo a Tor di
Nona, a Roma, l’anno seguente. Non ebbe un grande successo sulle rive del
Tamigi né su quelle del Tevere.
Di recente
si è vista a Spoleto, Napoli, Trieste, Parma e Busseto in un allestimento di
Gabriele Lavia (che ha messo più volte in scena la tragedia di Schiller) e Leo
Muscato. L’allestimento romano è curato da Massimo Popolizio; alla bacchetta
Roberto Abbado.
I Masnadieri
offre lo
spunto per esaminare le relazioni del giovane Verdi (aveva 33 anni) con “i
poteri costituiti”, in quanto è la prima volta che il musicista prende
apertamente parte per coloro che sono, e vogliono essere, fuorilegge. Compose
una sola opera “patriottica”, La Battaglia di Legnano, che,
commissionata dalla breve Repubblica Romana del 1849, debuttò al Teatro
Argentina. All’epoca, i triumviri alla guida della Repubblica (Giuseppe
Mazzini, Aurelio Saffi, Carlo Armellini e il loro braccio armato, Giuseppe
Garibaldi) erano considerati dal resto d’Europa (e dallo stesso Regno di
Sardegna) come dei pericolosissimi briganti. Tanto quanto i Cavalieri della
morte della Lega Lombarda che combattevano contro Federico Barbarossa.
In effetti,
pur se fedele suddito, prima di Maria Luigia duchessa di Parma e Piacenza, poi
del Lombardo-Veneto della monarchia austro-ungarica, infine del Regno d’Italia,
in cuor suo Verdi parteggiava per coloro che i poteri costituiti, i nobili, la
borghesia e anche i ceti meno abbienti consideravano “briganti”. Non erano
sentimenti tanto nascosti, tenuti nel segreto della sua azienda agricola di
Sant’Agata, nei pressi di Busseto. Li proclamava apertamente nelle sue opere.
Per esempio, nella cosiddetta “trilogia popolare” (Rigoletto, Il
Trovatore e Traviata), aristocrazia e alta borghesia sono presentate
come ceti corrotti da combattere; ne Il Trovatore una banda di zingari,
guidati dal protagonista, Manrico, vengono esaltati nella loro lotta contro il
potere legittimo del Conte di Luna nei suoi territori.
Tornando al
periodo giovanile di Verdi, Alzira è un’epopea (a lieto fine) dei
guerriglieri peruviani contro i conquistadores spagnoli, Giovanna D’Arco
è anche lei una guerrigliera contro i conquistatori inglesi (della Francia del
Quattrocento), Ernani è un proscritto contro chi governa l’Aragona, Il
Corsaro viene elogiato per le sue scorrerie tra le isole dell’Egeo. E via
discorrendo.
I Masnadieri
è un dramma
di sangue, violenza e passione, dove due fratelli lottano per il trono paterno
e per la cugina amata da ambedue. Sino all’ecatombe finale. Schiller e Verdi
avevano idee differenti sul significato della tragedia. Per il poeta tedesco,
la ribellione distrugge tutto, anche le cose più sacre come la famiglia. Per
Verdi, invece, la ribellione si giustifica se è contro l’ingiustizia.
La regia di
Massimo Popolizio situa la vicenda nel Settecento, in un cupo ambiente barocco
dove domina il sangue; ma accentua la ribellione giovanile meno di quanto fece
Lavia alcuni anni fa in una produzione che si è vista in vari teatri. La regia
non lavora sull’azione scenica; i cantanti, immobili o quasi, guardano il
pubblico nell’articolare arie e cabalette. Uno stile vecchio, aggravato da un
palcoscenico buio ed elementi scenici rudimentali. Alla produzione, manca il
senso di ribellione, fondamentale tanto in Schiller quanto in Verdi, pur se con
accenti differenti. Strideva anche con la direzione musicale di Roberto Abbado
e il coro guidato da Roberto Gabbiani, attenti a evocare le tinte della
tragedia.
Ancorato
alla tradizione donizettiana di opera “a numeri chiusi”, il lavoro ha
un’orchestrazione smagliante e una complessa scrittura vocale, soprattutto per
la protagonista, un soprano drammatico d’agilità. Per la prima londinese, la
parte fu scritta per la più nota dell’epoca in questa categoria, la svedese
Jenny Lind; il ruolo è stato un cavallo di battaglia di Montserrat Caballé e
Joan Sutherland. Ci sono innovazioni importanti, come la mancanza del coro
iniziale (sostituito con un preludio per violoncello) e anche del concertato
finale.
Nutrivo
dubbi che la giovane Roberta Mantegna (classe 1988), appena uscita dai corsi di
perfezionamento del Teatro dell’Opera, potesse affrontarlo. Ha felicemente
sorpreso. Le auguriamo di non cedere a tentazioni di agenti voraci e di
perseguire una serena carriera in ruoli a lei adatti. Artur Rucinski e Riccardo
Zanellato sono professionisti di livello, veterani dei rispettivi ruoli.
Stefano Secco (classe 1973) deve decidere se tornare ai ruoli di tenore leggero
e di coloritura o tentare ancora quelli “spinti”.
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