lunedì 29 gennaio 2018

Essere atlantici in L'Atlantico del 29 gen



Essere atlantici
http://1.gravatar.com/avatar/7a0d00b20269f859fb87932894b6a2d1?s=24&d=mm&r=gdi Giuseppe Pennisi, in Cultura, Quotidiano, del 29 Gen 2018, 07:31
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Cosa vuol dire ‘essere atlantici’? e come ci si diventa? A mio avviso, ‘essere atlantici’ vuole dire coniugare libertà (per sé e per gli altri) con responsabilità (rispetto agli altri) , nonché sentirsi a proprio agio, ‘a casa propria’, sulle due sponde dell’Atlantico. Coniugando libertà con responsabilità si è necessariamente meritocratici.
Considero di essere un “uomo atlantico” perché nato nel gennaio 1942, ho vissuto metà circa della mia vita professionale nella capitale degli Stati Uniti, ed il resto prevalentemente in Italia, mia moglie è francese, i miei figli hanno “padrini” di battesimo americani e britannici, hanno tre passaporti (Italia, Usa e Francia) e votano a tre elezioni politiche, i miei amici più stretti e di più lunga data sono, oltre che italiani, americani, austriaci, britannici, tedeschi, danesi e svedesi ed hanno avuto carriere sia nel settore pubblico (nazionale ed internazionale) che privato (soprattutto insegnamento, giornalismo e banche), e mi sento egualmente a mio agio in qualsiasi grande città (non ha desiderato vivere in campagna) dei Paesi “atlantici”.
Nella mia formazione “atlantica” ha avuto una grande importanza la School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins University. Nel 1966-68, grazie a borse di studio, ho frequentato le sedi di Bologna (oggi SAIS Europe) e Washington. A Bologna eravamo 89; di questo totale una quarantina, dopo un anno a Bologna, proseguì per un secondo anno nella sede centrale di Washington (che allora aveva circa 250 studenti). Della quarantina, un terzo circa erano europei con borse di studio. I “bolognesi” (sia americani sia europei) avevano la tendenza di stare molto insieme perché per gli americani l’esperienza di un anno di studi e di vita Bologna era stata fondante e gli europei tendevano ad essere vicini ai loro amici statunitensi nella loro iniziazione alla vita negli USA. Al SAIS di Bologna ho, poi, tenuto corsi per una decina di anni, mentre, rientrato in Italia, perseguivo una carriera in Patria. Con i colleghi “bolognesi”, in 22 (più 10 coniugi)  abbiamo ricordato nel giugno scorso, con una riunione nella città felsinea, i cinquanta anni dal completamento dei nostri studi a Bologna. Nei cinquanta anni trascorsi, 10 sono deceduti; 22 su 79 disposti a fare un lungo viaggio per una ricorrenza di tre giorni è una percentuale elevata. Questi elementi sono stati il vero “grimaldello” per trasformarmi in un “uomo atlantico”.
Alla fine degli anni sessanta, si sognava una Comunità Economica e Politica Atlantica, con due pilastri-da un lato, l’Unione Europea (allora ancora Comunità Economica a sei Stati) e dall’altro, gli Stati Uniti; gli ‘atlantici’ erano ovviamente favorevoli ad un ampliamento della Comunità Europea, in primo luogo in Gran Bretagna. In Europa, incombeva ancora la minaccia del totalitarismo comunista. Gli Stati Uniti si stavano sempre più impegnando in una guerra in Estremo Oriente con la motivazione che il totalitarismo comunista si sarebbe esteso nell’area del Pacifico. A livello internazionale, dopo anni di difficili trattative, si concludeva felicemente il “Kennedy Round” dei negoziati multilaterali sugli scambi, da noi giovani “atlantici” vissuto come la premessa che un commercio più libero significasse anche un mondo più libero per tutti.
Da allora ad oggi sono passati alcuni decenni. L’impero comunista in Europa orientale si è sgretolato nelle sue contraddizioni. In Asia, un mercato semi-libero convive, non molto bene, con l’autoritarismo politico. Negli Stati Uniti, è al Governo, ed ha la maggioranza del Congresso, un gruppo dirigente che guarda con poca attenzione all’Europa e intende riaffermare un primato americano, al di fuori di qualsiasi partnership con l’Europa.
Può esistere ancora quella che David Calleo, un grande scienziato della politica che viveva diversi mesi l’anno in Europa (più specificatamente all’Isola d’Elba), ha chiamato, nel titolo di un suo saggio della fine degli anni settanta, l'”Atlantic Fantasy” nel senso di sogno per il quale occorre impegnarsi a fondo per vederlo realizzato?
Credo di sì, tanto più che i bacilli totalitari imperversano anche nell’Unione Europea e negli stessi Stati Uniti e, come tutti i virus, hanno mutazioni ed aggrediscono quando meno se lo ci si aspetta.
Oggi, gli uomini e le donne potenzialmente “atlantici” sono molto più numerosi di quanto lo fossero cinquanta anni fa perché le occasioni di viaggio, di studio e di attività professionale sulle due sponde dell’Atlantico sono molto più frequenti. Pochi di loro, però, perseguono carriere nella vita pubblica in primo luogo perché – come hanno documentato studiosi italiani che vivono ed insegnano negli Stati Uniti – nella politica imperversa la “mediocrazia” che essi rifiutano e che comunque li respinge: uno degli studi più recente della University of Pennsylvania, chiama il gruppo dirigente al governo in Italia negli ultimi anni “il più mediocre” dall’inizio della Repubblica.
Mai come oggi non solo è necessario essere “atlantici” ma è urgente che gli “atlantici” si colleghino tra loro per proposte ed azioni che frenino la deriva mediocratica e diano alla partnership economica e politica atlantica la centralità essenziale nell’interesse del mondo intero.
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Giuseppe Pennisi

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