A quale età è meglio andare in pensione? La risposta negli studi internazionali
I vincoli basati sull’età anagrafica sono regressivi sotto
il profilo sociale. L'analisi del professor Giuseppe Pennisi
Quale è l’età ‘ideale’ per andare in pensione? Su questo tema ci si sta
accapigliando in campagna elettorale. Cerchiamo di fare chiarezza, senza
parteggiare per gli schieramenti in campo. In un sistema, come quello italiano
e di un’altra trentina di Paesi, NDC (Notional Defined Contribution), in cui la
spettanze pensionistiche sono basate sui contributi versati e sul montante che
si è accumulato (in base a parametri e coefficienti definiti per legge) non ci
dovrebbero essere ‘età legali’ né ‘di vecchiaia’ né di ‘anzianità’ come illustrato su Formiche dell’8 febbraio.Tali ‘età legali’ sono discriminatorie nei confronti di cui vuole andare in pensione presto e si accontenta di un assegno basso ed anche di chi vuole e può continuare a lavorare sino a tarda età. Ad esempio, il mio ‘maestro’, Isaiah Frank alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington ha insegnato quattro corsi l’anno (e supervisionato diverse tesi) sino all’età di 85 anni, quando ha smesso a ragione di un cancro che ne ha causato il decesso tre anni dopo. Era considerato un grande docente di economia internazionale sino a quando ha dovuto lasciare; e per lui, presente in università dalle 9 alle 18, l’insegnamento e i contatti con gli studenti erano un toccasana.
È comprensibile, invece, che chi ha un lavoro pesante o ripetitivo, voglia andare in pensione prima, specialmente se ha altri redditi con cui integrare una rendita più bassa e gli possa essere consentito di farlo. In più di una ventina di Paesi NDC, la decisione su quando e come andare in pensione è lasciata agli individui. Nei Paesi dirigisti, e vincolisti, è fissata per legge. Può anche essere ragionevole fissarla se si è in una crisi economica o in una fase di ‘transizione previdenziale’ (da un sistema ad un altro).
La legge Fornero può essere considerata uno di questi casi sia perché l’Italia era nel pieno di una crisi economica e finanziaria sia perché, malauguratamente, nel 1995, su richiesta dei sindacati, governo e Parlamento optarono per una transizione di 18 anni (non 3 come fece in quel periodo la Svezia) causando varie distorsioni che si è, poi, cercato di curare mettendo ‘pezze’ qua e là , senza un disegno organico.
A questo punto, occorre chiedersi se è economico e socialmente preferibile mettere vincoli collegati all’età anagrafica o agli anni in cui si sono stati versati contributi. Sotto il profilo economico e sociale, i secondi (ossia il nesso agli anni di contributi versati) sono preferibili al primo (l’età anagrafica). La ragione è l’aspettativa di vita che varia in funzione dei redditi e dei ceti sociali.
Tutti sanno che in un Paese povero come l’Etiopia l’aspettativa di vita alla nascita non tocca i 50 anni mentre in Italia e altri Paesi europei supera gli 80. Pochi, però, in Europa riflettono che un fenomeno analogo si ha all’interno dei Paesi del continente vecchio. Uno dei maggiori istituti di ricerca tedeschi, il DIW di Berlino, ha pubblicato in questi giorni uno studio approfondito (Discussion Paper No.1698), di cui sono autori Peter Haan, Daniel Kempter e Holger Luthen, sull’aumento del differenziale di longevità secondo i redditi nella vita attiva e le implicazioni distributive per i sistemi pensionistici.
I dati parlano chiaro: il divario di longevità è aumentato da quattro e sette anni tra benestanti e poveri negli ultimi quaranta anni. Non so se l’Istat abbia pubblicato studi analoghi. L’ultimo rapporto del Ministero della Salute documenta, però, che dal 2008 è aumentato il numero di coloro che, passati 65 anni, non hanno una buona qualità della vita – sono tutti nelle fasce di reddito basse e non possono permettersi sanità di livello, ricorrendo anche a finanziamenti privati. In breve, vincoli basati sull’età anagrafica sono regressivi sotto il profilo sociale. Ciascuno ne tragga le conclusioni che ritiene per eventuali proposte legislative.
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