FINANZA E POLITICA/ Da
Pioltello a Philadelphia, la crescita che non ci aspetta più
C'è un
problema che l'Italia condivide con altri paesi avanzati: la stagnante
produttività del lavoro, che influisce negativamente sull'economia. GIUSEPPE
PENNISI 29 gennaio 2018 Giuseppe Pennisi
Lapresse
Il recente
disastro ferroviario nei pressi di Pioltello non è che un esempio, a livello
micro-economico, del nodo della produttività in Italia, che ha smesso di
crescere attorno al 1995 e, dopo una caduta, si è assestata dal 2007 a livelli
inferiori a quelli raggiunti un lustro prima della fine del secolo scorso. Sta
alle indagini dei magistrati individuare se ci sono colpe e a chi attribuirle.
Tuttavia, gli elementi ci sono tutti perché un'analisi economica metta in
evidenza la scarsa produttività della rete ferroviaria: a) c'erano i mezzi
tecnici, a pochi passi dal binario che ha ceduto, per sostituire il tratto di
binario, ma la sostituzione non è stata tempestiva; b) permangono dubbi
sull'efficacia della manutenzione; c) sorgono domande sull'allocazione delle
risorse tra tratti ad alto rendimento (quali quelli delle varie
"frecce") e i treni per i pendolari; d) emergono interrogativi sulla
saggezza della fusione tra Ferrovie dello Stato e Anas e sull'opportunità delle
nomine di vertice fatte da un Governo in ordinaria amministrazione, nonché
della decisione presa circa due anni e mezzo fa di smantellare il gruppo
tecnico che componeva la "struttura di missione" per l'attuazione
della "legge obiettivo"; e) soprattutto, appare una certa disorganizzazione.
Tutti elementi che incidono negativamente sulla produttività e che non vengono
curati da un aumento delle spese per ricerca e sviluppo.
Se dalla
tragedia di Pioltello andiamo agli aspetti macro-economici vediamo che il nodo
della produttività riguarda tutti i Paesi industrializzati a economia di
mercato, anche quelli che corrono di più, come gli Stati Uniti. Negli Usa non
c'è stata una riduzione, prima, e un ristagno, poi, della produttività come in
Italia ma la produttività del lavoro (quella più semplice da stimare), dopo una
crescita del 2,5% dal 1995 al 2004 segna un aumento annuo appena dell'1%,
nonostante lo sviluppo di grandi imprese ad alta tecnologia, nate, e
localizzate, nel Nord America come Amazon, Google, Facebook e simili.
Le
determinanti della riduzione della produttività negli Stati Uniti, e della sua
stagnazione in Paesi come l'Italia, sono state uno degli elementi centrali
della riunione annuale di circa tremila economisti iscritti all'American
Economic Association tenuta all'inizio di gennaio a Philadelphia. Una selezione
degli studi presentata verrà, come ogni anno, pubblicata in un numero speciale
dell'American Economic Review all'inizio dell'estate, ma numerosi lavori
sono consultabili in siti ad abbonamento. Possono essere utili al Governo
italiano che verrà formato dopo le elezioni del 4 marzo.
L'interrogativo
di fondo è perché la produttività ha rallentato, o stagnato, nonostante il
forte aumento degli investimenti in ricerca. È quanto avvenuto negli Stati
Uniti, come documentato in uno studio collettaneo, guidato da John Fernald
della Federal Reserve Bank di San Francisco. Una spiegazione è offerta da un
nuovo modello teorico presentato da Daron Acemoglu del Massachusetts Institute
of Technology (Mit) e da Pascual Restrepo della Boston University. Il loro
lavoro distingue due differenti tipologie di progresso tecnologico: a) quello
che rimpiazza lavoro con macchine (e che crea disoccupazione e abbassa le
retribuzioni di chi lavora); b) quello che crea nuove, e più complesse, attività
per uomini e donne (che invece aumenta la loro produttività e i loro guadagni).
Nella storia
economica queste due tipologie si sono mosse quasi di pari passo, spinte dalle
forze del mercato. Tuttavia, da tempo non sono in sincronia. Le determinanti sono
molteplici: il capitale ha un prezzo basso (a ragione delle varie misure di
Quantitative easing) rispetto al lavoro, la fiscalità premia gli
investimenti in capitale, l'attenzione delle imprese e della politica economica
è soprattutto rivolta all'automazione e via discorrendo. In questi casi, si dà
poco peso a nuove, e più produttive, attività per uomini e donne. Un altro
elemento è che una parte significativa della forza lavoro non ha la formazione
di base per essere addestrata ad affrontare le nuove attività; in questo caso,
gli investimenti in ricerca e sviluppo non trovano un terreno da fertilizzare.
Un lavoro di
Erik Brynjolfsson (anche lui del Mit) fa da complemento alle analisi di
Acemoglu e Restrepo: quando si è alle prese con tecnologie che possono essere
utilizzate in vari settori e per molteplici scopi (in gergo general purpose
technologies) possono essere necessari anni perché si vedano i risultati,
perché occorre non solo alfabetizzare, nelle nuove tecnologie, i lavoratori a
tutti i livelli (dai più alti dirigenti alla manovalanza), ma si deve
modificare "l'ambiente" (organizzazioni, gerarchie, procedure,
prassi). È quanto avvenuto, ad esempio, in Europa quando negli anni Novanta e
nei primi anni di questo secolo si ebbe l'introduzione diffusa della net
economy, ma una proporzione significativa della forza lavoro non aveva la
preparazione e ai piani alti di aziende e di Pubblica amministrazione si
pensava di poter introdurre le nuove tecnologie senza modificare organigrammi,
procedure e prassi.
La
conclusione immediata che si trae da queste analisi è che non basta
l'attenzione su investimenti in ricerca e sviluppo (come nel programma Industria
4.0) se non c'è una pari attenzione alla formazione e una ferma
volontà di modificare "l'ambiente". Sul primo punto possono essere
importanti i risultati della ricerca sull'occupazione dei diplomati tecnici e
professionali, condotta dalla Fondazione Agnelli e dal Centro
Interuniversitario di Ricerca per i Servizi di pubblica utilità, che verranno
presentati a Roma il primo febbraio. Sul secondo punto, tutti debbono farsi un
esame di coscienza, soprattutto le alte dirigenze.
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