Turbolenti Masnadieri
all’Opera di Roma
VERDI I Masnadieri R. Zanellato,
S. Secco, A. Rucinski, R. Mantegna¸ S. Fiore, D. Russo, P. Picone, Orchestra e
coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Roberto Abbado regia Massimo
Popolizio scene Sergio Tramonti costumi Silvia Aymonino luci Roberto
Venturi video Luca Brinchi e Daniele Spanò
Roma, Teatro
dell’Opera, 21 gennaio 2018
Prima de I
Masnadieri tempestosa, al Teatro dell’Opera di Roma: durante lo spettacolo
applausi a scena aperta al giovane soprano Roberta Mantegna, al baritono Artur
Rucinski, al basso Riccardo Zanellato, al coro e (molto moderatamente) al
tenore Stefano Secco, mentre al calar del sipario, fischi e buh sono
stati rivolti al regista Massimo Popolizio ed ai suoi colleghi, nonché allo
stesso Secco, contrappuntati da ovazioni a Roberta Mantegna. Erano anni che il
pubblico del Teatro dell’Opera, di solito piuttosto passivo, non si scatenava
tanto.
Ma andiamo
con ordine. I Masnadieri, opera giovanile di Verdi tratta da una
tragedia — anch’essa giovanile — di Schiller, fu creata a Londra nel luglio
1847, con incerto successo (buone recensioni, ma pubblico poco soddisfatto); la
carriera internazionale di Verdi venne successivamente consacrata a Parigi.
L’esito non fu migliore quando l’anno seguente l’opera debuttò in Italia, a
Roma, al Teatro Apollo. Da qualche anno le proposte del titolo si stanno
intensificando, sia da noi che all’estero, tanto che alcuni musicologi la
considerano superiore e più moderna delle successive La Battaglia di Legnano
e Luisa Miller. È diseguale, ma piena di gemme e innovazioni (come
il preludio per violoncello solo e le arie della protagonista — parte incisa da
Montserrat Caballé e Joan Sutherland). Inoltre, è una delle rare opere di Verdi
(che per gran parte della vita fu un non credente dubbioso) in cui la religione
viene mostrata in una luce positiva (la scena del sacramento della confessione
nel primo quadro del quarto atto). In questi ultimi anni si è vista a Spoleto,
Napoli, Venezia, Parma, Trieste, Busseto principalmente con regie di Gabriele
Lavia (un appassionato della tragedia schilleriana, che ha messo in scena più
volte) e di Leo Muscato. È solo la seconda volta che viene rappresentata nel
teatro della capitale, dove aveva debuttato negli Settanta in un’edizione
diretta da Gianandrea Gavazzeni.
Massimo
Popolizio, il regista, è un noto attore di prosa; sue recenti regie teatrali
hanno avuto importanti riconoscimenti. Ma la regia d’opera è altra cosa.
Stranamente per un regista di teatro, nella produzione manca azione scenica.
Come negli anni Cinquanta, i cantanti sciorinano le loro arie e cabalette quasi
immobili e guardando il pubblico. Inoltre, il palcoscenico è piuttosto buio, le
scene sono elementari ed i video distraggono da ciò che avviene in
palcoscenico. Comprensibile, quindi, l’irritazione di parte del pubblico.
Migliore la parte musicale: l’orchestra diretta da Roberto Abbado evoca le
tinte (scure) della tragedia. Il coro, guidato da Roberto Gabbiani, è come
sempre di alto livello. Tra le voci, il primato della serata spetta
indubbiamente a Roberta Mantegna, 29 anni, appena uscita da “Fabbrica”, il
programma di perfezionamento del Teatro dell’Opera: la si può definire un
soprano drammatico di coloratura, ma ovviamente è presto per dire se arriverà
ai livelli di Montserrat Caballé, Joan Sutherland oppure a quelli mitici di
Jenny Lind, creatrice del ruolo. Deve curare con attenzione i ruoli che canterà
per rafforzare le sue qualità. Artur Rucinski e Riccardo Zanellato sono
professionisti di livello, veterani dei rispettivi ruoli. Più complesso il caso
di Stefano Secco, tenore ancora giovane (classe 1973) che ha alternato, in
Italia ed all’estero, ruoli da tenore leggero (anche di coloratura) con quelli
di tenore spinto; forse è giunto il momento di una riflessione su quali parti
scegliere nel resto della sua carriera.
Giuseppe
Pennisi
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