Se fosse Trump a temere una
guerra commerciale?
Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi sul Presidente degli Stati Uniti Donald Trump
ospite al World Economic Forum di Davos
Le cronache
che giungono da Davos mostrano un presidente degli Stati Uniti, Donald Trump,
molto più moderato, in materia di commercio internazionale, di quanto non fosse
in campagna elettorale – quando ha formulato la dottrina America First – e
di quanto non apparisse dalle misure prese nei giorni scorsi.
Vale la pena
ricordare che, il 22 gennaio, un decreto presidenziale ha imposto dazi elevati
nei confronti di importazioni di lavatrici. A Washington, sono in cantiere
misure restrittive nei confronti di siderurgia, alluminio, pannelli solari e
una lunga lista di altri prodotti. Il deprezzamento del dollaro è parte di una
strategia per respingere le importazioni negli Usa e stimolare, invece,
l’export del made in Usa.
Cosa spiega
il tono differente assunto al World Economic Forum? Non dipende certo dal
contesto, ossia dall’essere tra i “grandi” dell’economia e della politica.
Anzi, entrato in politica al termine di una carriera in industria immobiliare e
finanza, non si è certamente sentito spaesato tra industriali e finanzieri tra
i maggiori del mondo.
La
determinante è, a mio avviso, differente. Ha metabolizzato, o gli è stato fatto
notare, che le parole forti in tema di scambi commerciali, dazi e tariffe
possono essere utili a trovare voti in Stati dell’Unione dove ci sono industrie
poco competitive e alta disoccupazione, ma che da una guerra commerciale gli
Usa rischiano di uscire perdenti. Non solo a ragione delle misure di ritorsione
che applicherebbero altri Stati e che, nelle circostanze, verrebbero
probabilmente approvate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) nella
sua funzione giurisdizionale, ma perché gli Usa rischiano l’isolamento in un
mondo in cui la libertà degli scambi è vincente.
Non sono in
corso negoziati multilaterali sugli scambi in seno all’Omc (come i vari rounds
che si sono succeduti dalla fine della Seconda guerra mondiale), ma ci sono ben
trentacinque importanti trattative o bilaterali o regionali per ridurre quel
che resta dai dazi, liberalizzare le barriere non tariffarie agli scambi,
eliminare gli ultimi contingenti quantitativi.
Il mondo si
muove anche senza di noi, ha scritto Phil Levy del Chicago Council on
Global Affairs, repubblicano da sempre e a lungo consigliere di George W.
Bush per la politica economica internazionale.
Alla Casa
Bianca – si dice a Washington – si comincia a temere l’isolamento commerciale
degli Stati Uniti, anche e soprattutto in quanto una parte importante della
business community americana teme ripercussioni negative sui propri conti
economici. Numerosi industriali e finanzieri americani hanno guardato con
preoccupazione l’accordo del luglio scorso tra Unione Europea e Giappone,
chiamato dal premier nipponico Shinzo Abe come “la bandiera del libero
mercato mentre imperversano tendenze protezionistiche”. Un messaggio chiaro ed
eloquente.
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