Il costo più alto del neo protezionismo lo
pagherebbero Asia e America Latina
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha giocato a
carte scoperte: sin dalla campagna elettorale, ha detto di favorire non il
commercio libero ('free') ma equo ('fair'). In inglese c’è solo una differenza
d’intonazione tra free e fair. Per fair non intende – come si voleva dire negli
anni Settanta (quando a questo scopo venne creata l’Unctad, organo delle
Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo) un commercio che favorisca i
Paesi più poveri. Ma scambi tali da difendere imprese e lavoratori americani
dalle importazioni da aree a basso reddito. Dopo un anno alla Casa Bianca, il
22 gennaio, un suo decreto ha imposto dazi elevati nei confronti di
importazioni di lavatrici e pannelli solari. A Washington, sono in cantiere
misure restrittive nei confronti di siderurgia, alluminio e una lunga lista di
altri prodotti. Il deprezzamento del dollaro è parte di una strategia per
respingere le importazioni negli Usa e stimolare, invece, l’export del 'made in
Usa'.
Da quando, tra la fine del Settecento e l’inizio
dell’Ottocento, David Ricardo formulò la Teoria dei costi comparati sappiamo
dalla libertà degli scambi guadagnano tutti. Lo prova la forte crescita
economica che ha accompagnato l’economia mondiale dal 1945, dovuta in gran
misura dalla liberalizzazione dei commerci dovuta alle trattative multilaterali
prima in seno al Gatt (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio) e poi al
Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio), che ha sviluppato un codice di
regole tali da rendere gli scambi sia free sia fair .Tutti i principali modelli
econometrici (quali quelli dell’Italia) considerano il commercio mondiale la
'variabile indipendente' a cui è correlata la crescita del Paese.
Cosa avverrebbe se prevalesse l’ondata neo protezionistica? A
metà dicembre, la Banca Mondiale ha concluso uno studio, ancora non
pubblicato.Vengono tracciati due scenari. Il primo riguarda un ritiro
coordinato (ossia negoziato a livello multilaterale seguendo le regole Wto)
dagli impegni in essere in materia di riduzione di restrizioni e dagli schemi
unilaterali di preferenze commerciali (e un relativo aumento dei costi dei
servizi commercia-li): ne risulterebbero perdite di reddito reale mondiale
dello 0,3% l’anno che dopo tre anni raggiungerebbero 211 miliardi di dollari,
concentrati sui Paesi dell’Asia e dell’America Latina. Il secondo, riguarda
misure restrittive uni-laterali, ma maneggiate con la cura di evitare una
guerra commerciale. La contrazione del reddito reale mondiale sarebbe del 2,1%
l’anno, ossia tra i 611 ed i 634 miliardi di dollari (a seconda dell’andamento
dei costi dei servizi commerciali); colpirebbe soprattutto Asia ed America
Latina.
La Banca Mondiale non quantizza un terzo scenario: quello di
una guerra commerciale, ossia del prevalere di azioni di ritorsione contro le
misure unilaterali Usa. È difficile una stima quantitativa sino a quando non si
hanno dettagli sulle specifiche misure. Si prospetta uno scenario apocalittico.
Vale la pena ricordare che tanto la prima quanto la seconda guerra mondiale
furono precedute da una frammentazione del commercio e da una contrazione degli
scambi mondiali risultanti da battaglie a base di dazi e contingenti.
Giuseppe Pennisi
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