Tutti gli effetti perversi del
calo degli investimenti negli enti locali
L'articolo
dell'economista Giuseppe Pennisi
Già a fine
maggio, in un’audizione in Parlamento, il presidente dell’Ufficio parlamentare
di Bilancio (Upb), Giuseppe Pisauro, aveva sottolineato l’esigenza di
rilanciare l’investimento pubblico (dopo anni e anni in cui lo si era
compresso) e di evitare un’eccessiva penalizzazione degli investimenti degli
enti locali, non solo perché ciò rischia di compromettere la capacità di programmazione
degli enti medesimi, ma perché in Italia (come d’altronde in numerosi altri
Stati europei), l’investimento pubblico è incanalato tramite gli stessi enti
locali. Le amministrazioni centrali dello Stato (principalmente il ministro
delle Infrastrutture) hanno competenze limitate alla grandi opere; gran parte
di queste grandi opere, oggetto della legge Obiettivo (legge n. 443 del 2001),
hanno subito una brusca battuta d’arresto quando, nell’autunno del 2015, è
stata dismessa la struttura di missione che ne assicurava l’operatività. In
effetti, la grandissima parte degli investimenti pubblici rientrano nelle
competenze degli enti locali: sono loro che trasformano idee in progetti
esecutivi, che ne curano gli appalti, che ne vigilano l’esecuzione.
Quindi, in
questa fase in cui si sta preparando la legge di Bilancio 2018, ha un
particolare valore il rapporto sulla finanza locale: indebitamento, spesa
pubblica, debito/pil, idrico, banda ultra larga. Un volume di cinquanta pagine
a stampa fitta, su due colonne, che fornisce un quadro completo della finanza
locale, sotto l’ottica degli investimenti
Dal lavoro,
che merita uno studio attento, emerge, in primo luogo, che dal 2008 al 2015 le
pubbliche amministrazioni hanno ridotto gli investimenti del 30%, Gli enti che
hanno ridotto gli investimenti in modo relativamente maggiore sono stati i
comuni, nei bilanci dei quali questa voce di spesa si è contratta di circa il
32%. Il dato assume un’importanza ancora maggiore in considerazione di quanto
rilevante sia la spesa per investimenti nei bilanci comunali. Infatti, se nel
2008 quasi il 22% della spesa totale dei comuni era destinata agli
investimenti, nel 2015 questa voce si è ridotta fino a una quota pari al 16%.
Il documento attribuisce decisamente alla riduzione dell’investimento pubblico,
in particolare di quello a livello dei comuni, l’andamento deludente
dell’economia italiana
Nonostante
la ripresa degli ultimi anni, il Pil nel 2016 è ancora il 6% inferiore in
termini reali rispetto ai valori del 2008, mentre è più alto dell’8,2% in
Germania e del 5% in Francia. Complessivamente, in questo periodo il gap di
crescita economica dell’Italia rispetto ai principali partner europei è stato
significativo (-14,3% rispetto alla Germania, -11% rispetto alla Francia e -4,4%
rispetto alla Spagna). La mancata crescita del sistema economico è dovuta anche
alla robusta fase restrittiva di finanza pubblica attuata dal nostro Paese al
fine di stabilizzare i saldi di bilancio e rassicurare i mercati finanziari, in
particolare nella fasi più acute della crisi dei debiti sovrani.
E ciò
proprio mentre gli enti locali davano un contributo non secondario ai tentativi
di risanamento di finanza pubblica. Complessivamente, inoltre, tra il 2007 e il
2016, la riduzione del rapporto debito/pil generata attraverso i saldi primari
cumulati pari a circa 11,1 punti percentuali è attribuibile per il 15% alle
amministrazioni locali (le quali hanno registrato circa 1,7 punti percentuali
di avanzo primario cumulato-.
Questi dati
– si badi bene- si riferiscono agli investimenti fisici e non a quelli in
capitale tecnologico (a cui il volume dedica un interessante capitolo) ed a
quello umano (istruzione, sanità). In questi campi, però, le cose non sembrano
essere andate meglio: in istruzione poco o nulla si è fatto per migliorare la
qualità e la sanità è sempre più a macchie di leopardo.
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