DEF E POLITICA/ La grana già pronta per il dopo Gentiloni
Il debito pubblico dell’Italia resta alto, soprattutto
rispetto agli impegni presi e considerate le scarse azioni intraprese per
ridurlo negli ultimi anni. GIUSEPPE PENNISI
25 settembre 2017 Giuseppe
Pennisi
Si sono verificati alcuni casi di Stati Usa che hanno dichiarato “insolvenze” temporanee per ridurre il peso del loro debito pubblico; si è quasi sempre trattato di default concordati con i maggiori creditori da cui gli Stati in questione sono rientrati entro relativamente poco tempo, assoggettandosi a regimi di severa austerità. Dato che gli Stati Uniti sono un’area valutaria ottimale hanno sofferto forti emorragie di capitale finanziario, fisico e umano. Basti pensare che dopo la guerra di secessione del 1861-65, numerosi Stati “confederati” dichiararono “fallimento tecnico”, subendo una tracollo del 70% del Pil che sarebbe tornato ai livelli del 1860 solo nella prima decade del Novecento.
Non è neanche possibile smaltire il debito con la crescita: ci vorrebbe un tasso di incremento del Pil tra il 7,5% e l’8% l’anno per quindici anni al fine di portare il rapporto debito/Pil dal 132,4% di questi giorni se non al 60% (che abbiamo sottoscritto, e ratificato, con il Trattato di Maastricht), almeno all’80-90%. Ed esultiamo se quest’anno e il prossimo il tasso di crescita del Pil sarà attorno all’1,5% l’anno! Quindi, crescere per ridurre il debito è pura illusione, perché nessuno considera realistici i tassi di crescita che sarebbero necessari.
I Governi che si sono succeduti nella legislatura che volge al termine hanno avuto opportunità di ridurre il peso del debito, che, a sua volta, frena la crescita, avvitandoci in un declino che sembra inarrestabile. I mercati finanziari erano tranquilli, i tassi d’interesse bassi, non mancavano occasioni per operare sulla riduzione del debito che, invece, ogni anno cresceva. Il Governo Letta ha chiesto al Cnel di fare un confronto le varie proposte in campo e al centro di ricerche Astrid di redigere un rapporto delineando possibili opzioni. Il Governo Renzi sembrava ossessionato dal desiderio di chiudere il Cnel (anche se gli italiani hanno mostrato che la pensavano diversamente) e ovviamente non si è rivolto a Villa Lubin; non si è rivolto a nessun altro e ha utilizzato la flessibilità ottenuta dall’Ue per aumentare disavanzi e debito al fine di elargire quelle che molti hanno chiamato mance elettorali. Il Governo Gentiloni non ha affrontato il problema perché sapeva di essere di breve durata.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze considera di essere “in sicurezza” perché il rapporto debito/Pil pare stabilizzato. Non la pensano così né la Commissione europea, né la Banca centrale europea, né la Banca d’Italia. Per ragioni sia di breve periodo, sia più profonde. Nel breve periodo, la preoccupazione è la fine del Quantitative easing e la situazione politica internazionale. Ambedue minacciano un aumento dei tassi e una conseguente fuga” da titoli a rischio, come quelli dei Paesi ad alto debito.
Due economisti del servizio studi Bce, Marek Jarocinski e Bartosz Mackowiak, hanno esaminato a fondo la situazione: suggeriscono una politica monetaria e di bilancio che includa “eurobonds sempre solvibili” (non defaultable), ma saranno i nostri partner europei pronti ad accettarli? Non più ottimista David Goldberg dell’Università del Texas. Nel suo lavoro più recente esamina il nesso tra le ragioni di scambio (per noi peggiorate a ragione dell’apprezzamento dell’euro) e lo spread, di cui dobbiamo aspettarci un aumento, con ripercussioni sul debito.
Nell’immediato, c’è un altro aspetto: a ragione dell’alto debito (indice di poca affidabilità dato che a Maastricht ci siamo impegnati a portarlo dal 103% del Pil, come era allora, al 60% nel più breve lasso di tempo possibile), siamo stati di fatto esclusi dal negoziato franco-tedesco su come rimodellare l’architettura finanziaria europea.
Cosa fare? Il prossimo Governo dovrebbe porre la riduzione del debito tra gli obiettivi prioritari della legislatura, aggiornando le proposte formulate ai tempi del Governo Letta (e iniziando un serio programma di privatizzazione, specialmente del “capitalismo municipale e regionale”).
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