FINANZA/ Dal Qatar a Mosca, ecco le crisi che stanno dietro il super-euro
Da gennaio l'euro si è apprezzato del 14% nei confronti del
dollaro. Ma il supereuro è una preoccupazione poco fondata. Riemerge invece il
ruolo chiave del Fmi. GIUSEPPE PENNISI
04 settembre 2017 Giuseppe
Pennisi
Ciò è il risultato di vari determinanti. In primo luogo, le
esportazioni aggregate dei 19 Paesi dell'eurozona ai massimi storici. A fine
2016 il surplus delle partite correnti dell'area — 340 milioni di abitanti per
11mila miliardi di Pil — si è attestato al 3,3% del Pil. In secondo luogo
l'amministrazione americana, nonostante le promesse elettori in favore di un
"dollaro forte", ha in pratica assunto una politica di benign
neglect (noncuranza benevola) nei confronti del cambio, che dall'inizio
dell'anno, nonostante l'economia stia viaggiando bene (meglio di quella
europea) in termini di produzione ed occupazione, si è deprezzato del 9% circa
rispetto al paniere più rappresentativo nel commercio internazionale.
Ci si devono porre due domande: occorre preoccuparsi? si tratta di
fluttuazioni momentanee o di un cambiamento strutturale? La stampa italiana ha
posto l'accento, con una dose di inquietudine, sulle implicazioni di quello che
viene chiamato il "supereuro" sui settori che maggiormente dipendono
dalle esportazioni. Sono preoccupazioni poco fondate. Senza dubbio, alcuni
esportatori soffriranno, ma la tendenza di questi mesi — come ho illustrato
diffusamente altrove — dipende essenzialmente dal dollaro piuttosto che
dall'euro o da altre monete significative. E non da determinanti economiche
pertinenti all'economia americana.
Se si guarda in profondità, ci si accorge che il declino del valore
del dollaro rispetto all'euro (e non solo) non è stato lineare ma a balzi,
connessi ad avvenimenti politici. Negli ultimi mesi, ad esempio, il
deprezzamento del dollaro è stato particolarmente acuto in tre momenti: quando
l'Arabia Saudita (lo scorso giugno) ed altri Paesi del Golfo Persico hanno
imposto un embargo nei confronti del Qatar, quando (in luglio) il presidente
della Federazione Russa, Putin, ha messo alla porta 755 addetti di ambasciate e
consolati americani e quando (negli ultimi quindici-venti giorni) si è
aggravata la crisi con la Corea del Nord. Paradossalmente, in passato,
avvenimenti del genere avrebbero spinto capitali verso il "porto
sicuro" degli Usa. E ci sarebbe stato un apprezzamento del dollaro.
Perché si sta verificando il contrario? Numerosi osservatori — da
Jeremy Cook di World First, una "boutique" finanziaria britannica
specializzata in valute estere, ad Adam Posen, presidente del Peterson
Institute for International Economics — ritengono che lo "stile"
della presidenza Trump, prima ancora della sostanza, contenga semi di rischio
per gli operatori; indubbiamente, il vasto numero di nomine, licenziamenti e
nuove nomine, la prassi di comunicare per tweet spesso smentendo le stesse
istituzioni che più prossime dovrebbero essere alla Casa Bianca e più
dovrebbero essere dotate di dati e di analisi, l'impressione (vera o falsa) di
cambiamenti "umorali" di politiche, strategie, programmi e misure
aumentano il senso di rischio. E' "la politica", quindi, che spinge
il dollaro al ribasso e porta l'euro e gli altri al rialzo.
Le fluttuazioni dei cambi sono un bene o un male? In un saggio
pubblicato la settimana scorsa presso il National Bureau of Economic Reseach
American, Jeffrey A. Frankel dell'Università di Harvard (è stato uno dei tre
componenti del comitato dei consiglieri economici del presidente ai tempi
dell'amministrazione Clinton), auspica un ritorno a tassi di cambio basati su
un sistema di "fluttuazioni sistemiche gestite": le banche centrali
dovrebbero reagire prontamente alla pressioni dei mercati dei cambi,
assorbendone parte nel tasso di cambio e parte in movimenti di riserve. Su una
linea analoga sono Giancarlo Corsetti dell'Università di Cambridge, Keith
Kuester della Banca Federale di Riserva di Filadelfia e Gernot J. Mueller
dell'Università di Tuebingen nel Cepr Discussion Paper n. DP12197.
Vari modi per riscoprire, dopo 70 anni, i principi fondamentali
degli statuti del Fondo Monetario Internazionale.
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