Senza riforme e investimenti l’Italia ha
perso molto del suo potenziale di crescita
In questi giorni, si sta preparando l’'aggiornamento' del
Documento di economia e finanza (Def ). Tale aggiornamento non è un esercizio
accademico ma la base della Legge di Bilancio, sui cui contenuti è in atto un
dibattito vivace. C’è un numero chiave che regge l’aggiornamento. E sarà il
cardine della Legge di Bilancio: quello che sintetizza la crescita del Pil nel
2017 e nei prossimi anni. I più recenti dati Istat suggeriscono che è in corso
una 'ripresina'; restiamo pur sempre il fanalino di coda dell’Unione monetaria
ma ci sono buone probabilità che nell’anno in corso l’aumento del Pil non sia
solo qualche decimale ma l’1,5%. Dall’interno dei Ministeri competenti giungono
'spifferi' secondo cui nei prossimi due anni si potrebbe arrivare all’1,7%. Al
di là di questi numeri si pone una questione di fondo: la ripresina è l’inizio
di una tendenza di fondo che ci riporterebbe ad un tasso di crescita del 2 2,5%
degli anni Ottanta od un fenomeno di breve durata (un tempo lo si sarebbe
chiamato 'congiunturale') a rimorchio dell’eurozona (che sta crescendo al 2%) e
soprattutto della Germania (2,5%)?
I 20 istituti del consensus (centri di analisi econometrica e
previsionale internazionali privati e di grande prestigio), non vedono il
rafforzarsi della ripresa in Italia, ma un rallentamento più o meno marcato,
anche nell’ipotesi di un buon traino del resto d’Europa.
Perché? Occorre andare alla teoria economica, a quello che
negli anni Settanta veniva chiamato tasso naturale di crescita o più di recente
tasso potenziale di crescita, nonché ai dibattiti sulla stima dell’output gap.
Prima della crisi, nel 2008, la Commissione europea, il Fondo monetario, l’Ocse
e le altre maggiori istituzioni internazionali (esiste a riguardo un ottimo
documento del servizio studi della Banca centrale europea) stimavano attorno
all’1,3% la crescita potenziale del Pil dell’Italia. Per avere un termine di
paragone i 'piani triennali' predisposti all’inizio degli anni Ottanta la
ponevano sul 2-2.5%, spiegando eloquentemente che è quello che ci si poteva
aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non
modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche ed un’amministrazione
pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un
potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli
ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello
dell’apparato produttivo), nonché del peso del debito che incide comunque sulla
crescita. Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato un
lavoro di Antonio Bassanetti, Michele Caivano ed Alberto Locarno (il 'Temi di
Discussione' n. 771) che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia pre-crisi) con
vari metodi e poneva l’output gap tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita
potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%
(come infatti era).
In effetti, la Commissione europea pare abbia rivisto al
ribasso il 'tasso naturale' o 'tasso potenziale' di crescita dell’Italia a
ragione del fatto che non si sono fatte, a loro parere, le riforme che
avrebbero potuto incidere sulla produttiva. Anzi, l’investimento in capitale umano
(scuola, formazione) è stato trascurato (come indicano i test Pisa dell’Ocse) e
l’investimento pubblico è crollato (un’analisi certosina della Cassa depositi e
prestiti conclude che tra il 2008 ed il 2016, gli investimenti degli locali, i
maggiori attori del settore, sono crollati del 32%). Inoltre, il debito
minaccia di pesare sempre di più con la fine del QE ed il probabile aumento dei
tassi.
Giuseppe Pennisi
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