Perché non si può essere troppo ottimisti sull’economia mondiale (e
italiana)
Il commento dell'economista Stefano Pennisi
Il position paper inviato dal
Governo italiano ai partner europei è, sotto molti punti di vista, un anticipo
del Documento di Economia e Finanza (DEF) che deve essere varato entro il 15
marzo. In effetti, dopo circa 60 anni dal Trattato di Roma ed oltre 25 anni dal
Trattato di Maastricht, le politiche economiche italiane si intersecano in modo
sempre più stretto con quelle dell’Unione Europea (UE) in generale e
dell’unione monetaria in particolare.
In effetti, l’impronta del position
paper è giustamente rivolta allo sviluppo e contiene proposte, non
‘richieste’, ai partner europei in discussione da tempo. Gran parte di tali
proposte (dal completamento dell’unione bancaria ad un programma di eurobond
per stimolare gli investimenti, da un’indennità di disoccupazione europea a
forme di mutualizzazione del debito pubblico) sono ineccepibili. In vari modi, Formiche.net pone
l’accento su di esse da vari mesi. Tuttavia, non tengono conto sia della nuova
recessione mondiale che si profila all’orizzonte (ed a cui il settimanale The
Economist di questa settimana dedica un ampio Briefing di quattro
pagine). Lo stesso ultimo rapporto Ocse è incentrato sulla concomitanza di
fattori negativi (non solo in Estremo Oriente ed America Latina) che possono
causare un ‘rallentamento mondiale’, più lungo della ‘crisi’ iniziata nel 2009.
In effetti, unicamente gli Stati
Uniti stanno tirando la carretta dell’economia mondiale ed anche loro stanno
mostrando crescenti segnali di debolezza: il mercato dell’edilizia residenziale
à alle soglie di un nuovo tracollo, gli utili netti aziendali sono in
contrazione, il manifatturiero è in calo da quattro mesi, gli indici di Borsa
sono in flessione (specialmente a ragione di quelli del settore bancario); la
politica monetaria (che negli USA è stata molto più ardita che in Europa, ed è
iniziata ad essere espansiva molto prima che nel Vecchio Continente) non ha
avuto grandi effetti, il deprezzamento del dollaro non ha portato giovamento, e
la stessa politica di bilancio (dal 2008 al 2015 il debito pubblico americano è
cresciuto dal 64% al 104% del Pil) non sembra saper fare muovere la macchina.
E’ in questo quadro che si muovono l’unione monetaria e l’Italia. Non è un
contesto che consente di dipingere prospettive ottimistiche.
Occorre chiedersi se di tale
contesto si ha piena consapevolezza. La Legge di Stabilità per il 2016 è stata
costruita sull’ipotesi di una crescita dell’1,4% del Pil. A preoccupare non
sono state le stime di alcuni organismi internazionali che la pongono a livelli
più bassi (attorno all’1%) quanto quella del ‘gruppo del consensus’(venti
istituti di analisi previsionale, tutti privati, nessuno italiano) secondo i
cui rapporti mensile anche l’1% sarebbe una meta difficile da raggiungere. E’
noto che gran parte di questi strumenti econometrici si basano sul modello Link
costruito da Lawrence Klein la cui principale variabile indipendente è
costituita dall’export mondiale, e dalle esportazioni dei principali Paesi; di
conseguenza, il traino o il freno internazionale pesano moltissimo
sull’andamento economico. Anche il debito pubblico rallenta la crescita:
proprio il 23 febbraio il Political Economy Budget Deficit and Debt
E-Journal vi ha dedicato un numero intero al tema con saggi di rilievo
rivolti in gran misura all’eurozona. In Italia sono state varie proposte:
alcune sono state messe a confronto in un seminario CNEL, ma nessuna pare
essere stata presa in seria considerazione.
Altro elemento importante è messo in
luce da un lavoro, ancora inedito, del Centro Studi Impresa-Lavoro:
negli ultimi 14 anni, quale che fosse il loro colore politico, i Governi
italiani hanno sovrastimato la crescita del Pil, dovendo, quindi, effettuare,
ad esercizio finanziario in corso, manovre suppletive di aggiustamento.
Non bisogna essere ‘gufi’ o
‘Cassandre’ (ma la principessa troiana tanti torti non li aveva) per suggerire
grande cautela nelle nuove stime che verranno effettuate per il DEF e
nell’indicare che il position paper per i partner europei verrebbe
rafforzato da proposte precise per la riduzione del debito (conversione della
rendita di titoli ad alti tassi di interesse acquistati negli anni novanta,
chiusura entro l’anno di almeno la metà delle partecipate del capitalismo
municipale, privatizzazione totale non parziale di Poste SpA e della RAI, e via
discorrendo) e per l’aumento della produttività.
Inoltre, il Governo dovrebbe riflettere
se non ha messo in moto, forse senza rendersene conto, elementi che rallentano
la crescita. In primo luogo, le riforme istituzionali se non accompagnate da
forti vitamine di riforme economiche dirette all’aumento della produttività),
rallentano almeno per cinque anni la crescita a ragione dell’esigenza di
apprendere e metabolizzare le nuove regole. Inoltre, perché ci si è ‘distratti’
dal disegno di legge sulla competitività allestito dal Ministro Guidi,
lasciando navigare tra le Commissioni e fare stravolgere da lobby particolaristiche?
Era il solo piccolo provvedimento per agevolare l’aumento della produttività,
Infine, come mai non si pensato agli effetti di psico-economia
causati dall’incertezza delle voci su imminenti modifiche delle pensioni
di reversibilità e di imposte di successione- misure che aggravano la
tesaurizzazione e la trappola della liquidità?
Il DEF prossimo venturo dovrà dare
risposte concrete su tutti questi punti.
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