Cosa serve all’Italia per risollevare l’economia italiana
Il corsivo dell'economista Giuseppe Pennisi
Il Pil italiano delude: nel 2015 la
crescita è stata dello 0,6% (invece che dello 0,9%) previsto nei documenti
programmatici. Nell’ultimo trimestre unicamente dello 0,1%, indicando che è ben
difficile che per l’anno nel suo complesso si raggiunga l’1,3%-1,4% sulla cui
base sono stati basati i testi di finanza pubblica e la legge di stabilità. I
venti maggiori istituti di previsioni econometriche (tutti privati, nessuno
italiano) stimano che nell’anno in corso, se l’economia mondiale tirerà e
l’eurozona sfiorerà un tasso di crescita del 2%, il Pil italiano aumenterà dello
0,9-1%. Maledettamente troppo poco per creare produzione, valore aggiunto ed
occupazione.
Perché non riusciamo ad innescare
una marcia più veloce ed essere sempre tra i fanalini di coda dell’eurozona? Le
spiegazioni sono molteplici. Nel breve e medio periodo, possiamo dire che avere
dato priorità alle riforme istituzionali rispetto a quelle economiche comporta
un rallentamento dell’economia (se non altro per l’esigenza di dovere
apprendere le nuove regole); lo hanno dimostrato sia economisti liberisti come John
D. North che economisti social democratici come Albert O. Hirschman.
Da un altro lato, le riforme economiche effettuate (Jobs Act, sgravi
contributivi per le nuove assunzioni) non hanno aggredito il nodo di fondo: il
perimetro dello Stato ed il suo costo. Lo scriveva venticinque anni fa un
economista sempre associato alla sinistra, Pier Luigi Ciocca: nel libro
‘Disoccupazione di Fine Secolo’ affermava a tutto tondo che stavano per
arrivare al nodo di fondo: come competere con gli Stati Uniti in cui la
pressione fiscale ed il costo dell’apparato pubblico è attorno al 30% del Pil e
con i Paesi emergenti in cui è sul 20%, mentre in Italiana pressione fiscale e
costo dell’apparato richiedono più di metà di quanto riusciamo a produrre.
Aggredire tale nodo di fondo è la vera riforma strutturale che il mondo si
aspetta dall’Italia.
L’avvertimento di Coccia è il punto
centrale di un saggio di un imprenditore, Massimo Blasoni, il quale non
è un economista ma ha sentito l’esigenza di creare un centro studi – ImpresaLavoro
– per approfondire queste tematiche. Il libro, edito da Rubbettino, è
“Privatizziamo!: ridurre lo Stato, liberare l’Italia”. Il volume esce in questi
giorni e ha già suscitato un notevole interesse proprio perché non è di uno
studioso della ‘triste scienza’ ma di un operatore che quotidianamente ha a che
fare con il perimetro troppo vasto e troppo invadente di uno Stato, che in bel
saggio degli Anni Settanta, Giuliano Amato chiamava ‘pasticcione’ ed
‘impiccione’. Uno Stato che intralciava (allora) invece di facilitare e che
invece di fornire in modo efficienti beni pubblici, indivisibili e non rivali,
come la democrazia, la giustizia, la difesa nazionale e la tutela interna, si
era allargato a macchia d’olio tentando di fare tutto, e facendolo male.
Privatizziamo! è il grimaldello per
liberare la società italiana. Per oltre tre lustri, ho scritto il capitolo
sulle privatizzazioni del rapporto annuale sulla liberalizzazione della società
italiana dell’Associazione Società Libera e posso testimoniare che dopo una
fase in cui si è privatizzato (a volte anche male) per ‘fare cassa’ ed essere
ammessi nell’area dell’euro, le privatizzazioni hanno avuto una battuta
d’arresto a livello nazionale. Mentre proliferava il capitalismo regionale e
municipale, ossia enti e società pubbliche controllate da Regioni e da Comuni.
Ora si parla di ‘privatizzazioni parziali’ come quella di Poste spa dove la
mano pubblica avrebbe sempre il bastone del comando.
Il saggio di Blasoni, dopo una parte
analitico-descrittiva, contiene una serie di proposte che lui stesso chiama
‘radicali’. Andrebbero esaminate singolarmente. Ne manca una: la
privatizzazione della Rai, sempre meno servizio pubblico e sempre più
tendenziosa (come ha sottolineato Ernesto Galli della Loggia nel Corriere
della Sera del 13 febbraio). Si pensi che l’Osservatorio Internazionale
Cardinal von Tuan (un gruppo internazionale che si ispira agli insegnamenti di
un ex Presidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax) la considera come
‘la madre di tutte le privatizzazioni’.
Nella conclusione Blasoni tratteggia
come si potrebbe vivere in Liberrima, la società degli uomini liberi, dove ‘si
vive bene’. Non è molto differente da Agathotopia, l’isola sognata nel suo
ultimo libro dal Premio Nobel James Meade (il testo italiano è stato
pubblicato da Feltrinelli nel 1989). E Meade è stato sempre considerato
social-democratico. E’ il segno che il buon senso supera le barriere
ideologiche.
15/02/2016
Nessun commento:
Posta un commento