OPERA/ Perché il pubblico romano ha fischiato il Barbiere di Siviglia
Pubblicazione: lunedì 15 febbraio 2016
Foto di Yasuko Kageyama
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Per celebrare i duecento anni dalla
prima rappresentazione del Barbiere di Siviglia) (20 febbraio 1816, al
Teatro Argentina), nonché il debutto della seconda opera romana di Rossini La
Cenerentola (25 gennaio 1817), il Teatro dell’Opera ha messo in scena un
nuovo allestimento della seconda delle due opere (ne abbiamo parlato il 26
gennaio su questa testata) e ha programmato addirittura tre allestimenti per la
prima e più nota- uno nella sala maggiore (Il Teatro Costanzi), uno nella
stagione estiva alle Terme di Caracalla, ed uno (ridotto) in un camion che
stazionerà in varie piazze della città, nonché di Palermo (che co produce
l’avventura). In un’intervista nel programma di sala, il regista, Davide
Livermore, afferma di essersi ‘spaventato’ quando gli è stato offerto
l’incarico del primo dei tre allestimenti. Ne aveva ben donde.
Registi più affermati di lui, nel
Tempio Rossiniano di Pesaro avevano fatto cilecca, per avendo il miglior
intento di essere sia rispettosi sia innovativi: Luigi Squarzina che nel 1992
ha ambientato l’opera nel lugubre gabinetto di anatomia dell’Archiginnasio di
Bologna e Luca Ronconi che nel 2005 fece ‘volare’ attrezzeria e qualche
personaggio dentro qualcosa a metà tra una gabbia ed una prigione. Tra i grandi
nomi della regia, solo Ponnelle nello spettacolo del 1975 alla Scala (più volte
ripreso) si accostò al Barbiere con grandissima umiltà nella
consapevolezza che la combinazione del genio di Rossini, di Sterbini e di
Beaumarchais non necessitava altro che il libretto, la partitura e quel
po’ di ‘disposizioni sceniche’ dell’epoca ancora disponibili (ed ovviamente
un’orchestra e cantanti all’altezza) per assicurare il successo.
Il Barbiere di Rossini è una delle quattro grandi
commedie in musica del periodo tra la fine del settecento e quella dell’ottocento
- in compagnia di altri tre capolavori come Le Nozze di Figaro di
Mozart , I Maestri Cantori di Norimberga di Wagner e Falstaff di
Verdi - anche perché basta seguire le intenzioni degli autori per fare un
grande spettacolo.
Davide Livermore (responsabile di
regia, scene e luci) ed il suo team di costumisti (Gianluca Falaschi),
illustrazioni (Francesco Calcagnini), video (D-Work) ed effetti speciali
(Alexander) hanno presentato una sintesi di interpretazioni negli ultimi
duecento anni sia della commedia di Beaumarchais (nei suoi contenuti
rivoluzionari) che dell’opera buffa di Rossini: dalla ghigliottina ai
televisori a rate di qualche anno fa, passando per il periodo della prima
guerra mondiale. Non tutto è malvagio; ad esempio, il bianco e nero (un omaggio
al Ponnelle non de Il Barbiere ma de Le Cenerentola) della scena
e dei costumi sono un’ottima idea.
E così anche alcune gag (ad esempio,
Rosina che danzicchia a tempo di Charlestone nella sequenza ambientata del
1917). Altre hanno fatto ridere il pubblico a crepapelle. Una trovata ingegnosa
(per le voci) quella di fare svolgere gran parte dello spettacolo nella parte
centrale del vasta palcoscenico tra tre pareti di una casa, che diventa una
scatola sonora rivolta al pubblico) Ma dopo il primo atto, ci sono stati i
primi ‘boo’ diventati una mitragliatrice quanto regista, costumista ed autori
di proiezioni ed effetti sociali sono venuti a salutare il pubblico. Un vero
peccato perché il Teatro dell’Opera di Roma è in veloce ripresa e collezione
una serie di ‘tutto esaurito’.
Indubbiamente, il pubblico romano,
specialmente quello delle ‘prime’, è tradizionalista. Ma l’allestimento
scenico, affollato di mimi, ghigliottine, aeroplani e televisioni acquistate ‘a
rate’, rendeva l’opera non buffa ma grottesca, anche a ragione di scelte non
condivisibili, quali quella di mostrare Don Bartolo come un vecchio in
carrozzella (è , invece, un cinquantenne voglioso di impalmare la pupilla non
solo per denaro ma anche per goderne sotto le lenzuola) ed un Don Basilio con
una protesi al braccio destro. Inoltre, gran parte dell’opera pare svolgersi
sotto una coltre di nubi. Nulla da dire della recitazione, molto curata.
Non so se nelle prossime repliche si
possano fare aggiustamento: è il concetto stesso di presentare una sintesi di
due secoli di allestimenti a non reggere. Buona parte del pubblico (bastava
ascoltare i commenti nel foyer durante l’intervallo) non se ne è reso conto :
era andato a teatro per divertirsi con un lavoro noto ma leggero e si è trovato
la rivoluzione francese, medaglioni di dittatori (tra cui anche Stalin e
Mussolini), un topo che attraversava il palcoscenico , teste tagliate
(anche ad Almaviva il quale se la ri-incolla) ed un palcoscenico spesso
affollato da mimi.
La serata è stata salvata dalla
parte musicale. Ed infatti, maestro concertatore (un veterano come Donato
Renzetti), orchestra e solisti hanno ricevuto calorosi applausi sia a scena
aperta che alle ‘chiamate’ finali. I complimenti vanno soprattutto ai due
giovani protagonisti: Chiara Amarù (una deliziosa Rosina già acclamatissima in
un bel Barbiere low cost allestito, al Rossini Opera Festival
di Pesaro nel 2014 dall’Accademia di Belle Arti di Urbino) e Edgardo
Rocha (un Almaviva il quale ha affrontato l’impervia aria finale Cessa
di più resistere che solo pochissimi tenori del rango di Floréz e
Gatell, osano affrontare).
Anche Figaro viene dai giovani di
quel bellissimo spettacolo pesarese: Florian Sempey, ineccepibile nel canto
(specialmente nel fraseggio) ma poco brillante nella recitazione, pure perché
in costumi goffi. Con loro un pilastro di grande esperienza come
Ildebrando D’Arcangelo (Don Basilio) e una specialista rossiniano e
donizettiano come Simone del Savio (Don Bartolo). Di livello Eleonora
De la Pena nel ruolo di Berta.
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