Perché il debito pubblico è un problema per le banche italiane
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
Gran parte degli osservatori
italiani non hanno notato che nell’ultima tempesta monetaria sui mercati
europei l’accanimento è stato particolarmente duro. Lo hanno notato alcuni
(pochi) commentatori stranieri, facendo anche allusioni che l’intervento del
Consiglio della Banca centrale europea (Bce) e soprattutto la conferenza stampa
del suo Presidente Mario Draghi, sia stato un assist agli istituti
nostrani, in difficoltà per la ragioni illustrate e documentate da Guido Salerno Aletta su
Formiche.net.
Non crediamo nelle doti salvifiche
di Mario Draghi (e non ci crede neanche lui). Pensiamo anche, come
Galileo Galilei nel dramma di Bertold Brecht sulla sua vita, che sono beati i
Paesi che non hanno bisogno di eroi. In questa vicenda, eroi non ce ne sono: come
spiegano la neuro-economia e la economia comportamentale, frasi ben comunicate,
e comunicate al momento giusto, possono avere effetti di breve periodo
importante ma non risolvono i nodi economici di medio e lungo periodo. Quindi,
pensiamo che, al di là delle vicende asiatiche e latino-americane,
l’accanimento dei mercati contro le banche italiane continuerà. Anche se si
troverà una soluzione (ipotesi poco probabile) al completamento dell’unione
bancaria con la garanzia europea sui depositi in conto corrente superiori a 100
mila euro. E pure se si farà un pateracchio per dar vita ad una o più bad bank
seguendo il principio ‘tutti contenti, tutti canzonati’.
Il vero nodo è che le banche
italiane, oltre ad avere in pancia 200 miliardi di crediti tanto deteriorati da
essere di fatto non esigibili (per questo il governo e il settore bancario
chiede una bad bank ed è disposto ad accettarla in varie forme), hanno attivi
composti in gran misura di titoli di Stato (su cui tra l’altro la Commissione europea ha iniziative in
corso che riguardano appunto gli istituti di credito).
L’accanimento è stato specialmente
nei confronti di banche (tipo Mps) gonfie di titoli di Stato. Ciò dimostra che
la finanza internazionale dubita della sostenibilità di un debito pubblico che
ha superato il 135% del Pil (e vola verso il 140) mentre il Fiscal Compact di
cui siamo stati tra i primi firmatari (e tra i primi “ratificatori”) di
giungere al pareggio di bilancio (già rinviato da due anni) dal prossimo
esercizio di bilancio (ossia quello del 2017) e di effettuare una drastica
riduzione del debito pubblico di almeno un 20esimo l’anno per passare
dall’oltre 130% del Pil al 60%. Data l’elevata pressione tributaria (gli
italiani lavorano per pagare il fisco sino al 20 giugno di ogni anno), è
difficile ipotizzare aumenti ulteriori di tassi ed imposte, quindi il Fiscal
Compact comporta una drastica riduzione della spesa, meglio se dopo una
rigorosa revisione.
Data la nostra storia in termini di
revisione e riduzione della spesa e dato che la flessibilità in termini di
indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni aumenta il debito pubblico,
l’attacco alle banche depositarie dei titoli di Stato è una manifestazione
evidente della poca credibilità delle nostre dichiarazioni in tema di
sostenibilità di debito pubblico.
Come rispondere? Tagliando
drasticamente la spesa di parte corrente, vendendo e privatizzando.
24/01/2016
Nessun commento:
Posta un commento