FINANZA/ Il nuovo "sgambetto" di Merkel e Hollande a Renzi
Pubblicazione: lunedì 1 febbraio 2016
Angela Merkel e François Hollande (Infophoto)
Approfondisci
NEWS Economia e Finanza
Le cronache (di qualche lustro
orsono) dicono che nel teatrino della Parrocchia di Pontassieve l’attuale
Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, abbia partecipato (allora era poco più
di un bambino) a un paio di recite della commedia musicale di Garinei e
Giovannini “Aggiungi un posto a tavola” in cui si narrava di un nuovo
diluvio universale in un paesetto dei nostri tempi; quindi, anche individui
abbastanza incompatibili tra di loro o con vecchie ruggini chiedevano al
parroco (neo- Noé) che venisse aggiunto un posto, pure per loro,
sull’Arca.
La riunione con la Cancelliera
tedesca Angela Merkel era stata preparata, con diligenza, dalla Farnesina (pur
in armi nei confronti dell’inquilino pro-tempore di Palazzo Chigi per la
sostituzione di un noto e apprezzato diplomatico di carriera con un politico
conosciuto per il suo dinamismo aggressivo). L’obiettivo da raggiungere era
quello di aggiungere un posto al tavolo a cui ora siedono Angela Merkel
e François Hollande, un “direttorio informale” che si riunisce, o si parla via
Skype, prima dei vertici dei Capi di Stati e di Governo dell’Unione europea, al
fine di definire un punto di convergenza, ove non un accordi, sulle questioni
di fondo all’ordine del giorno.
A Renzi, Presidente del Consiglio
della terza maggiore economia dell’unione monetaria, nonché di uno degli “Stati
fondatori” dell’Ue, “rode”- si direbbe un gergo romano - di non fare parte del
“direttorio”, e sostanzialmente, di restare fuori la porta quando al tavolo del
“direttorio informale” si discute di questioni chiave e si prendono decisioni
di grande rilievo. Quindi, tutti mobilitati ad aggiungere un posto.
Gli sforzi - pare - non sono stati
commensurati ai risultati ottenuti. Il Corriere della Sera ha titolato i
servizi dedicati all’incontro lento disgelo nei rapporti tra Italia e
Germania; in effetti, nella storia dell’Ue, mai Roma e Berlino divergono su
tanti dossier. Il lento disgelo non ha, naturalmente, portato un posto
al tavolo del “direttorio informale”, ma la promessa che “zia Angela” farà
una telefonata al “nipotino Matteo” prima dei vertici Ue. Non è detto che nella
telefonata gli svelerà quando concluso con Hollande o gli chiederà il parere su
questo o quell’argomento all’ordine del giorno.
Ci sono due ordini di ragioni che
spiegano perché l’incontro sia terminato così. Alcune appartengono al campo
delle relazioni internazionali. Altre sono più prettamente economiche. A
livello internazionale (ma anche sul piano interno) di norma non si chiede di
essere ammessi a un club ristretto ed esclusivo (specialmente se composto
solamente da due soci). La prassi è che si è invitati per cooptazione. Se e
quando vogliono, Angela Merkel e François Hollande, se e quando pensano che
Matteo Renzi possa dare loro un effettivo contributo, non avranno nessuna
difficoltà a invitarlo al tavolo, proprio per il contributo che ritengono
possano ottenere sulle difficili questioni europee. In materia di seggi nelle
organizzazioni internazionali, purtroppo, l’Italia non ha una buona fama.
Applica quella che Stefano Silvestri, a lungo Presidente dell’Istituto affari
internazionali chiama la politica del sedere, ossia la politica in base
alla quale si chiede un seggio, ma una volta ottenuto non si sa cosa farsene.
Spesso la responsabilità non è di
coloro che ottengono l’incarico , e poggiano il loro posteriore sul seggio, ma
di direttive tardive, e anche contraddittorie, provenienti da Roma. Non c’è
nessun segno che la situazione - elemento di disorientamento dei nostri
interlocutori - sia migliorata; al contrario, indicazioni e direttive
provenienti dai Ministeri competenti per materia si sommano a spesso
estemporanei tweet da Palazzo Chigi. In tale contesto, pochi hanno un genuino
interesse ad aprirci le porte di club ristretti ed esclusivi dove si cammina su
tappeti felpati, non si fa chiasso e non ci si vanta dei risultati che si pensa
di avere ottenuto. O, peggio ancora, si utilizza il seggio per ragioni
particolaristiche o di parte (quali le richieste di flessibilità).
A queste ragioni “diplomatiche” si
aggiungono quelle economiche. L’Economist intellingence unit ha completato uno
studio approfondito sull’Italia (di cui viene riportata una sintesi nel
settimanale The Economist in edicola) da cui si ricava che, da
un lato, se il Paese esce dalla moneta unica (o viene invitato ad andarsene)
l’unione monetaria non potrà sopravvivere, e la stessa Ue sarà ad alto rischio
ma, da un altro, se non vengono realizzate profonde riforme economiche (non
istituzionali) è destinato a un progressivo impoverimento. In termini reali di
parità di potere d’acquisto il Pil procapite è ai livelli del 1999.
Non tutte le previsioni per il
futuro sono negative. Un’analisi della Commissione europea conclude che il Pil
italiano potrebbe aumentare del 24% (rispetto allo scenario di base tracciato
nello studio), ma su un arco di tempo di cinquanta anni; i benefici si comincerebbero
a farsi sentire tra venticinque anni, mentre nei primi lustri del riassetto
l’imprescindibile aumento della produttività comporterebbe inevitabilmente una
contrazione dei salari reali, specialmente nelle regioni e aree meno
sviluppate. In queste condizioni, i due documenti concordano, l’Italia ha poco
da contribuire e molto da chiedere. Non la posizione migliore per fare parte di
un “direttorio”, anche se “informale”.
Il quadro potrebbe migliorare se
dall’Italia pervenissero proposte considerate, a torto o a ragione, non
“particolaristiche”, come quella di una conferenza inter-governativa sul debito
dell’eurozona. Non sembra che questa sia la strada del Presidente del
Consiglio.
© Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento