Con il Fiscal compact l’Italia naviga tra
Scilla e Cariddi
Amargine degli ultimi sprazzi polemici tra Roma
e Bruxelles è stato sollevato il tema della possibile revisione (su richiesta
dell’Italia, ma anche di altri) del Fiscal compact. Il patto è stato stipulato
nel marzo 2012 dai Paesi dell’Unione Europea (con l’eccezione della Gran
Bretagna e della Repubblica Ceca) al fine di rafforzare disciplina e
coordinamento delle rispettive politiche di bilancio ed economiche e la
governance dell’area dell’euro. L’Italia è stato uno dei primi Stati a
ratificarlo e, in aggiunta, ha varato una 'legge costituzionale rafforzata' per
assicurarne l’applicazione. Un’eventuale modifica, quindi, comporta una
revisione della 'legge costituzionale rafforzata', seguendo le (complesse)
procedure dettate dalla Costituzione. Un richiamo ai precedenti. Nel 1997 i
Paesi dell’Unione europea adottarono regole per disciplinare la conduzione
delle politiche di bilancio dopo l’introduzione dell’euro. Tale Patto di
stabilità e crescita era reso necessario, in assenza di una completa unione
fiscale, per due ragioni: da un lato nella nuova area monetaria i Paesi
avrebbero potuto più facilmente finanziare i disavanzi pubblici e, pertanto, si
sarebbero indeboliti gli incentivi a limitarli; dall’altro, tali deficit, se
eccessivi, avrebbero nel tempo compromesso la stabilità della moneta unica. Il
Patto prevedeva norme per contenere i livelli del disavanzo (entro il 3% del
Pil) e del debito (che doveva convergere al 60% del Pil) e anche specifiche
procedure e sanzioni in caso di non osservanza. La sua inefficacia, emersa già
nel 2003 quando Francia e Germania si rifiutarono, sotto la presidenza italiana
dell’Unione, di sottostare alle sue regole, diventò manifesta quando la crisi
finanziaria globale, iniziata nel 2007, si trasformò, nel 2010, in crisi dei
debiti sovrani europei. Con l’aggravarsi della crisi i governi dell’Ue hanno
adottato differenti linee di azione: nel maggio 2010 è stata istituita una
linea di credito per i Paesi dell’area dell’euro, con l’obiettivo di
salvaguardarne la stabilità finanziaria (European Financial Stability
Facility); nel marzo 2011 è stato riformato il Patto di stabilità e crescita e,
nel corso dello stesso anno, il coordinamento è stato esteso alle politiche
strutturali (della competitività, del lavoro ecc.) con il cosiddetto accordo
Euro Plus; inoltre, sotto impulso decisivo della Germania, si è concordato che
la nuova governance dell’euro avrebbe dovuto avere natura costituzionale. Dopo
il rifiuto della Gran Bretagna di modificare a questo fine il Trattato di
Lisbona si è decisa, nel dicembre 2011, la stipula di un nuovo trattato.
Il Fiscal compact sottoscritto dal Consiglio
europeo il 30 gennaio 2012 con l’eccezione di Gran Bretagna e Repubblica Ceca,
prescrive che i Paesi contraenti mantengano – salvo circostanze eccezionali –
un bilancio pubblico in pareggio o in avanzo, quantificato da un disavanzo al
netto dei fattori ciclici e accidentali non superiore allo 0,5% del Pil (1% qualora
il debito e i rischi sulla sua sostenibilità siano particolarmente bassi). In
caso di scostamenti significativi, i meccanismi di correzione devono attivarsi
automaticamente, senza interventi discrezionali delle autorità nazionali. Per
l’Italia il Fiscal compact implica il pareggio di bilancio (già rinviato da due
anni) dal prossimo esercizio di bilancio (ossia da raggiungere nel 2017) e una
drastica riduzione del debito pubblico di almeno un 20esimo l’anno per passare
dall’oltre 130% del Pil al 60%. Data l’elevata pressione tributaria (gli
italiani lavorano per pagare il fisco sino al 20 giugno di ogni anno), è
difficile ipotizzare aumenti ulteriori di tassi ed imposte, quindi il Fiscal
compact comporta una drastica riduzione della spesa, meglio se dopo una
rigorosa revisione.
La illazioni secondo cui il Governo
intenderebbe convincere l’Ue a modificare l’accordo devono essere poste in
questo contesto. Siamo tra Scilla e Cariddi. Da un lato, modificare il Fiscal
compact (anche ammesso che convinciamo i partner europei) comporta una
complessa procedura costituzionale. Da un altro, applicarlo vuol dire una
politica di bilancio e di riduzione del debito fortemente recessiva in un
momento di fragile uscita da una deflazione.
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