domenica 20 maggio 2012
Spagna, quel debito record a lungo ignorato in Avvenire 20 maggio
l’analisi Spagna, quel debito record a lungo ignorato
DI GIUSEPPE PENNISI
G ià nel 2009, quando la crisi dei mutui subprime americani aveva appena colpito l’Europa e tra gli Stati dell’eurozona solo le piccole Grecia e Irlanda facevano venire i brividi, la Spagna era il terzo Paese più indebitato al mondo (ma nessuno lo diceva). Dopo Giappone e Regno Unito. Con un debito pari al 366% del Pil; secondo le ultime stime, ora sta per sfiorare il 400% del reddito nazio-nale. Non a caso si è usato il termine 'Paese'; il debito dello Stato era, allora, il 70% del Pil, mentre quello di imprese manifatturiere e agricole giungeva al 135%, e il resto era più o meno equamente diviso tra famiglie e settore finanziario. A differenza del debito giapponese, al 95 % nelle mani di operatori nipponici, e di quello britannico, una parte crescente del debito totale spagnolo è collocata all’estero. Presso investitori estusiasti dal Paese 'happy-go-lucky' (felice e fortunato) dei film di Almodovar.
Tutto sembrava solido: Madrid, Barcellona e tante altre città lustrate a nuovo e dotate di infrastrutture moderne, un forte processo di secola¬rizzazione alla base di una crescita dinamica e sbarazzina, grandi banche (Santander, Bbva) che facevano shopping nel resto d’Europa e del mondo. Nelle ultime settimane, invece, il governo guidato da Mariano Rajoy è dovuto correre ai ripari e ricorrere alla nazionalizzazione di uno dei maggiori istituti di credito (Bankia); altri sembrano in predicato di misure analoghe; dopo le ultime aste ed uno spread sui decennali a 500 punti di base rispetto a titoli tedeschi di pari scadenza, lo stesso presidente del Consiglio è andato in televisione ad ammettere che è «a rischio la capacità di finanziamento sui mercati». Salvataggi e nazionalizzazioni (nel quadro di una sempre più severa recessione) comportano il rapido dilatarsi del deficit annuale (6-7% del Pil per il 2012) e del debito pubblico (viaggia verso il 90% del Pil) e il fantasma dell’insolvenza dello Stato (mentre la disoccupazione supera il 25% della forza di lavoro).
Cosa è successo? Due economiste, Graciela L. Kaminski e Carmen Rienhart, avevano fatto una diagno¬si accurata in un saggio pubblicato nel 1999 sull’American Economic Re¬view, la più prestigiosa rivista di eco¬nomia a livello mondiale. Ancora pri¬ma, nel 1990, Xavier Vives dell’Uni-versità Autonoma di Barcellona ave¬va avvertito, nell’European Economic Review, come il rapido processo di deregolamentazione dei servizi fi¬nanziari spagnoli sarebbe stato fo¬rieri di guai. Se ne è parlato poco sul¬la stampa d’informazione: è più faci¬le andare al cinema e godersi l’im¬brunire nei caffè delle avenidas che leggere pesanti scritti di economia quantitativa. Kaminski e Rienhart si sono fatte la fama di Cassandre, e Vives di bacchettone. Si è visto che il debito del sistema ban¬cario era inferiore a quello del mani¬fatturiero e dell’agricoltura. La molla della crisi è stata l’economia reale. Negli ultimi 20 anni, il settore apparentemente più dinamico del Paese è stata l’edilizia, mentre la metalmeccanica si è contratta, i sogni di un’agricol¬tura ad alti rendimenti si sono rivela¬ti chimere e il turismo arranca anche perché, giunto l’euro, alberghi e ri¬storanti hanno ritoccato i prezzi all’insù e, nel contempo, la recessione in Europa induceva a vacanze più frugali. All’ultima conta, solo del campo dell’edilizia abitativa 670 miliardi di euro di ipoteche immobiliari rischiano l’insolvenza, i 'grandi lavori' sono fermi , il principale gruppo del comparto - lo A.C.S. - ha appena portato i libri in tribunale. Le banche, che ne¬li anni a go-go hanno prestato a famiglie per case sempre più grandi, a centri commerciali sempre meno frequentati e ad imprese di costruzione sempre più in bolletta, naturalmente soffrono. E con esse non solo la Spa¬gna, ma pure il resto dell’eurozona.
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