mercoledì 2 maggio 2012
LA QUALITÀ DELLA SPESA in Il Velino 2 maggio
LA QUALITÀ DELLA SPESA
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Roma - Il 30 aprile, prima dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri della task force per la spending review, il Cipe ha sbloccato investimenti per opere pubbliche pari a 2,1 miliardi di euro. Alcune di queste opere (l’ampliamento del Porto di Trieste, la via del mare A4-Jesolo e Litorali) erano in attesa da anni, molte altre (depurazione di acque reflue urbane, bonifica discariche nel Mezzogiorno) rispondono ad impegni assunti da tempo con l’Unione Europea. Per alcune delle opere si fa ricorso a fondi strutturali europei disponibili da anni; per altre a finanza di progetto, con l’apporto di capitali di rischio privati.
Tutta la stampa ha dato ampio risalto alla spending review (peraltro ancora nella sua fase iniziale). Scarsa, invece, l’attenzione alla decisione del Cipe. Eppure si tratta di due rovesci della stessa medaglia. Infatti, non basta tagliare le spese pubbliche con bassa utilità per la collettività. Occorre anche migliorare la qualità della spesa sia complessivamente sia nei singoli comparti. Il primo passo consiste in un migliore equilibrio tra spese pubbliche di parte corrente per consumi collettivi e spesa pubblica in conto capitale tale da attivare, in fase di cantiere, capacità produttiva non utilizzata (un tasso di disoccupazione prossimo al 10 per cento delle forze lavoro indica che in Italia ce n’è, purtroppo, a iosa) sia di aumentare la capacità produttiva multifattoriale grazie al miglioramento del capitale fisso sociale. L’emergenza è duplice: da un lato, l’investimento pubblico in percentuale del Pil è giunta all’1,5 per cento (rispetto a una media europea attorno al 2,5 per cento), da un altro è dagli anni Ottanta che non si aggiornano parametri di valutazione e criteri di scelta.
In breve, da recenti studi della Banca d’Italia e da un documento di Osservazioni e Proposte del Cnel approvato nel luglio scorso, emergono questi temi:
1. Le politiche e gli investimenti privati (sempre più chiamati a partecipare al finanziamento di infrastrutture) devono remunerare gli investitori a un tasso che non sia inferiore al costo opportunità del capitale. Quali misure adottare quando una politica o un investimento abbia un valore economico per la collettività nel lungo periodo (una gamma di investimenti che va dalla tutela del patrimonio artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre) ma che potrebbe avere risultati insoddisfacenti nel breve periodo. In passato, il divario veniva colmato da varie forme di aiuto di Stato - oggi non più contemplabile a ragione non solo della normativa Ue ma anche dei vincoli di bilancio. Occorre, quindi, pensare di colmare il divario con la regolazione, nazionale o europea? I grandi investimenti europei - ad esempio le reti transeuropee - non dovrebbero essere il grimaldello per una regolazione europea? Specialmente una “regolazione” che dia certezze di stabilità e di non essere frequentemente mutata sotto la spinta di interessi particolaristici pure di breve periodo.
2. Le politiche e gli investimenti pubblici (a supporto del miglioramento della qualità della vita) avranno effetti anche sulle generazioni future, che in molti casi ne saranno le principali beneficiarie. Ciò solleva due ordini di interrogativi. In primo luogo, secondo Ocse e Banca mondiale, il tasso di attualizzazione utilizzato per valutare l’investimento pubblico in molti Paesi Ue (a lungo la Francia è stata un’eccezione) e dalla Commissione Europea riflette il vincolo di bilancio pubblico e misura il declino del valore sociale delle risorse pubbliche liberamente utilizzabili. Non è il caso di seguire invece la più antica proposta di scegliere un tasso di attualizzazione che rispecchi il tasso d’interesse sui consumi. Secondo stime disponibili (anche da me effettuate) il primo approccio comporta un tasso di attualizzazione sull’8 per cento, il secondo sul 2,5 per cento; il primo non “cattura” quindi costi e benefici alla collettività nel lungo. Né l’uno né l’altro, poi, “catturano” costi e benefici alle generazioni future: due scuole si confrontano su “come farlo”, ambedue sono cariche di implicazioni di politica pubblica. Non è il caso di promuovere un’intesa a livello europeo?
3. Le metodologie di analisi delle politiche e degli investimenti, anche privati, hanno posto l’accento sin dagli anni Settanta su come coniugare efficienza (intensa nel senso di redditività) con efficacia (intensa nel senso di distribuzione del reddito e, in un secondo tempo, delle opportunità). In materia si sono sviluppati metodi, tecniche e procedure basate sulle “ponderazioni variabili” dei costi e dei benefici a seconda dei livelli di reddito o di consumo delle varie categorie di soggetti coinvolti nell’“intrapresa”. Nel Ventunesimo secolo, e in Paese avanzati ad economia di mercato, l’enfasi si deve spostare su come coniugare il breve e medio con il lungo termine. Dato che previsioni e scenari (specialmente se contro fattuali) a lungo termine sono ardui da costruire con un grado realistico di accuratezza, non è il caso di spostare l’accento dall’analisi del rischio all’analisi dell’incertezza?
4. È invalsa la prassi, promossa da numerose società di studi e consulenza, di quantizzare i benefici degli interventi per beni intangibili (ad esempio gli investimenti in beni culturali e infrastrutture ad esse attinenti) in base alle stime del turismo culturale da essi attivati. Tale metodo non solamente non tiene adeguatamente conto dei costi sociali spesso associati al turismo ma non ha più legittimità accademico-professionale. Non è il caso di promuovere tecniche di “valutazioni contingenti” ormai ampiamente in uso anche in Italia in numerosi settori afferenti al capitale umano ed all’intangibile?
Si tratta di interrogativi non solamente tecnici ma anche politici in cui le parti sociali hanno spesso legittimi punti di vista divergenti. Non è questo un compito precipuo del Cnel, snellito e rinnovato, in collaborazione con gli uffici dei ministeri dell’Economia e delle Finanze, delle Infrastrutture e dello Sviluppo Economico?
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