domenica 20 maggio 2012
QUANDO L’IDEOLOGIA UCCIDE LA RAGIONE in Music@ maggio.-giugno
QUANDO L’IDEOLOGIA UCCIDE LA RAGIONE
Giuseppe Pennisi
Nell’ultimo fascicolo del trimestrale La Nuova Antologia, rivista nata con il Gabinetto Vieusseux e da decenni edita dalla Fondazione Spadolini, ho esaminato come la musica bollata in Germania come “degenerata” ai tempi del nazismo sia tornata nei teatri e nelle sale da concerto tedesche ed anche italiane nonché di molti altri Paesi, mentre la musica italiana dello stesso periodo è stata tacciata per decenni dall’accusa di essere “fascista” e, quindi, condannata all’oblio. Diversi anni fa, il libro di Stefano Biguzzi L’Orchestra del Duce (UET 2003) ha illustrato in modo elegante ed eloquente, nonché grazie ad una dettagliata ricerca di archivio, come Benito Mussolini, violinista dilettante (di pessima qualità), avesse un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, ed era appassionato di lirica. Considerava l’opera come espressione di italianità con un forte appello popolare. In effetti, nel ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico-sinfonici ed i teatri “di tradizione”, sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città, anche le più piccole, avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti, quali il “carro di Tespi”. Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano), tutti i loro titoli sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni (si pensi a “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi ed “I capricci di Callot” di Gian Francesco Malipiero) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici. Come sempre, l’ideologia ammazza la ragione. In parallelo, proprio in quegli anni si sviluppava, la grande sinfonica italiana (non solamente Respighi, ma anche Casella, Martucci, Pratella, Sgambati) che aveva metabolizzato la scuola tardo romantica ed era andata verso nuovi orizzonti, specialmente nella “musica a programma”. Come si è accennato, (tranne poche eccezioni) su tutto questo periodo c’è una coltre d’oblio unita ad una vera e propria damnatio memoriae.
Si arriva al paradosso che nel 2004, il centenario della nascita del fiorentino Luigi Dallapiccola sia passato quasi inosservato (nonostante il suo Il Prigioniero sia una delle opere più rappresentate negli Stati Uniti ed in Europa Centrale) poiché uno dei maggiori quotidiani italiani lo aveva definito “fascista”, nonostante fosse stato uno dei rari professori universitari a dare le dimissioni dalla cattedra universitaria al momento del varo delle leggi razziali; ancora oggi, il maggior lavoro di Dallapiccola, “Ulisse” , si può ascoltare in una rara registrazione di RadioFrance ed in Italia è stato messo in scena una sola volta in lingua originale (l’italiano) mentre lo si è visto ed ascoltato in versioni ritmiche tedesco nell’ambito di tournée di teatri tedeschi (dove è in repertorio) nel nostro Paese. Non esiste neanche una registrazione di uno dei più innovativi lavori italiani “Le Sette Canzoni” di Gian Francesco Malipiero, considerata dagli studiosi al livello di “Pierrot Lunaire” di Schönberg. Altro paradosso “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi, opera simbolica-patriottica che sarebbe stata perfetta nei programmi per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, viene chiamata “fascista”, nonostante ebbe la prima alla Scala nel 1913 e negli Anni Trenta veniva rappresentata più frequentemente negli Stati Uniti (era un “cavallo di battaglia” del soprano Rosa Ponselle) che in Italia - ora è in repertorio a Zurigo da dove il Teatro Regio di Torino la ha noleggiata per alcune recite.
Ci sono alcuni ostacoli oggettivi a riproporre oggi la lirica della scuola “tradizionalista” (Mascagni, Cilea) del periodo: richiede organici orchestrali e vocali enormi e soprattutto una batteria di heldetenor “all’italiana” (ossia tenori eroici a mezza via tra l’impostazione wagneriana e quella “spinta” italiana) oggi sparita. Viene ripresa di frequente “Francesa da Rimini” di Riccardo Zandonai (di cui di recente si sono rivisti anche “I cavalieri di Ekebu” e “Romeo e Giulietta”) proprio perché la vocalità insiste sul soprano, che deve essere “un soprano assoluto”. Considerazioni analoghe devono farsi per “Madame Sans Gêne” di Umberto Giordano, la cui riproposizione in Italia (si vede spesso altrove) è stata fortemente voluta da Mirella Freni. Ricordo un unico tentativo di rimettere in pista la meravigliosa “Parisina” di Pietro Mascagni, su libretto di Gabriele D’Annunzio, a Roma nella seconda metà degli Anni Settanta; spettacolo di livello (voluto da Gianandrea Gavazzeni) ma mai ritentato. Di recente, il Teatro Comunale di Bologna ha programmato (ma non realizzato) “Nerone”, sempre di Mascagni; ha rinunciato non tanto per la diceria che il libretto fosse di Mussolini sotto pseudonimo, ma per gli alti costi di produzione e la difficoltà di trovare le vocalità adatte. Del livornese, in breve, circolano solo “Cavalleria Rusticana” e le opere più relativamente semplici.
E che dire dalla produzione di Ildebrando Pizzetti, considerato per decenni uno dei maggiori compositori di teatro in musica e di sinfonica, non solo in Italia ma nell’intero mondo occidentale, nonché vero “ponte” tra tradizione ed innovazione. Nel primo decennio di questo secolo, per volontà espressa di Ruggero Raimondi, si è visto a Torino ed a Roma “Assassinio nella Cattedrale” ma sono sparite opere di altissimo livello come “La Figlia di Iorio” e “Fedra”. Il Teatro dell’Opera di Roma ha riportato in scena due capolavori di Ottorino Respighi ‘La Fiamma’ (da sempre in repertorio a Budapest) e “Marie Victoire” , una riscoperta che ha successivamente trionfato alla Deutsche Oper Berlin. Interessante il recupero di due lavori imp”ortanti di Franco Alfano; il “Cyrano de Bergerac” è approdato alla Scala in due delle due edizioni (una voluta da Placido Domingo, e l’altra da Robrto Alagna) che hanno girato i maggiori teatri internazionali e “Sakuntala” (per diversi aspetti molto più innovativa di “Cyrano”) in una bella edizione romana che non avuto seguito. Anche “Sly” Ermanno Wolf-Ferrari, su libretto di Gioacchino Forzano, ha fatto tappa a Roma in un’edizione (voluta pure essa da Domingo) in un allestimento del teatro dell’opera di Washington che ha effettuato lunghe tournée negli Stati Uniti ed in Europa. La tenacia di Gianluigi Gelmetti ha portato a queste importanti riprese di lavori ingiustamente obliati in Italia nonostante siano in scena all’estero.
Ignorati gli innovatori, a partire da Malipiero, di cui sono state viste anni orsono a Venezia le “Tre Commedie Goldoniane” ed a Roma “La Favola del Figlio Cambiato” (su testo di Luigi Pirandello) e Alfredo Casella, di cui nessuno, in Italia, ha il coraggio di riproporre “La Donna Serpente”, anche se di tanto in tanto il balletto “La Giara” viene accoppiato a “Cavalleria Rusticana” od altri atti unici.
Del tutto ignorato il grande capitolo della sinfonica anche se grazie agli sforzi dell’Orchestra Sinfonica di Roma (sostenuta dalla Fondazione Roma) e del suo creatore e direttore, Francesco La Vecchia, “la musica degenerata” sinfonica italiana sta uscendo dall’oblio. La offre nella stagione dell’Auditorium di Via della Conciliazione e la registra con una grande casa discografica internazionale (la Naxos). La prossima stagione, infatti, pone l’accento sulla grande sinfonica italiana del Novecento (Casella, Catalani, Ghedini, Mancinelli, Martucci, Petrassi, Respighi, Sgambati) affiancati al grande repertorio. Pubblicata l’integrale di Martucci, stanno ora per uscire quelle di Casella e Respighi. Nei prossimi cinque anni arriveranno gli altri. Si tratta di musicisti di cultura romana, anche se non sempre nati a Roma.
Sorge una domanda: perché un compito simile non viene svolto dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia? Ed una seconda: perché La Scala, La Fenice ed il Teatro dell’Opera di Roma non si danno il compito di fare rivivere l’opera italiana “obliata” della prima metà del Novecento?
Nell’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia, ciò dovrebbe indurre a riflettere.
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