sabato 26 maggio 2012

“ATTILA” A ROMA: UN QUADRO CUPO DELLA POLITICA in Il Velino 26 maggio

OPERA, “ATTILA” A ROMA: UN QUADRO CUPO DELLA POLITICA in il Velino 26 maggio Edizione completa Stampa l'articolo Roma - E’ andato ieri in scena all’Opera di Roma il tanto atteso nuovo“Attila” di Giuseppe Verdi con la direzione musicale di Riccardo Muti e la regia di Pier Luigi Pizzi. L’opera è nella Capitale per due cicli di rappresentazioni, il primo sino al 5 giugno e il secondo a cavallo tra luglio ed agosto. La regia e gran parte degli interpreti non cambiano: Riccardo Muti dirige il primo ciclo, Donato Renzetti il secondo. E’ la quarta volta che questo lavoro composto per La Fenice da un Verdi trentatreenne viene messo in scena dal Teatro dell’Opera di Roma. E’ utile porre nella giusta luce un mito: quello di Verdi in quanto patriota risorgimentale. In prima battuta soltanto cinque delle sue 27 opere (“I Lombardi alla prima crociata”, “Nabucco”, “Ernani”, “La battaglia di Legnano”, e per l’appunto, “Attila”) paiono avere connotazioni “patriottiche” che, in quell’epoca, infiammava molto di più altri compositori dei Paesi europei in cui si compiva l’unità nazionale. Di queste quattro, “Nabucco” vi è entrato di straforo: alla prima nel 1842, venne osannato dalla stampa austro-ungarica come epopea della libertà e della religione (loro) contro la barbarie ed i suoi falsi idoli. “Ernari” è più libertario e rivoluzionario che patriottico; anche per questo piace tanto ad Emma Bonino. Ne “La battaglia di Legnano” predomina l’elemento privato e “guelfo” tanto che fu ben accetta dalla censura papalina proprio mentre si respirava aria dei tumulti che avrebbero portato alla Repubblica Romana mazziniana. I “Lombardi” si inserisce addirittura in un solco anti-ottomano (ove non anti-islamico) a cui, ad esempio, Gioacchino Rossini aveva dedicato ben cinque opere, che oggi verrebbe considerate al limite del razzismo allora alla moda a ragione dell’irredentismo greco. I lavori successivi di Verdi, specialmente quelli che seguirono la trilogia popolare hanno, ben poco di patriottico: “Simon Boccanegra”, “Don Carlo” e “Aida” riguardano la sempre più forte sfiducia nei confronti del potere dello Stato (e “Don Carlo” dello Stato-Nazione); “Un ballo in maschera”, la corruzione del Palazzo; “La forza del destino” il pessimismo cosmico; gli stessi “Vespri siciliani” sfiorano appena i temi dell’unità nazionale e della liberazione dallo straniero e si concentrano sul tema (a Verdi, che non hai avuto figli adulti, carissimo) dell’amore paterno e, di converso, filiale. Inoltre, Verdi amava vivere nella Milano austro-ungarica e costruì la sua villa a ridosso del confine con il gretto e pettegolo Granducato di Parma e Piacenza. Nominato Senatore del Regno, trovò l’incarico noiosissimo. E non ne fece mistero. “Attila” è tratta da uno scombinato libretto del tedesco Zacharias Werner, risistemato, alla peggio, da Temistocle Solera e da Francesco Maria Piave. Arduo pensare che nel 1840 o giù di lì Zacharias Werner si infervorasse per un movimento “italiano” di unità nazionale, che peraltro interessava pochi “illuminati” della stessa politica. Il nodo della vicenda è nello scambio politico tra il generale Ezio che appoggerà Attila nella conquista del resto del mondo se l’unno gli lascerà l’Italia (che intende, forse, unificare o depredare con maxi-tassazione a vantaggio suo non dell’Imperatore che siede a Ravenna). Questo intreccio viene inserito in una riedizione lagunare (siamo ad Aquileia) di Giuditta ed Oloferne; Odabella, con la complicità del fidanzato, irretisce l’unno o lo ammazza. Nell’apparentemente puritana Venezia austro-ungarica (l’opera venne commissionata dalla Fenice dove venne osannata dagli austriaci e dalla aristocrazia) un pizzico di eros ed una scena di letto non andavano niente male. Sotto il profilo musicale è un lavoro ineguale. Rossini (grande linguaccia) parlò “di Verdi con l’elmo in testa”, la critica inglese e francese (dove l’opera approdò in pieno 1848) parlò di “fanfara dei bersaglieri”, non certo un complimento. Pure il benevolo Guglielmo Barblan, nella monumentale “Storia dell’Opera” dalla Utet, scrisse che i “momenti strumentali descrittivi” rimasero “nella testa di Verdi”. Di impianto donizzettiano, presenta, grandi arie (quasi sempre con cabaletta finale), un coro importante e concertati di livello. Dà al basso, al baritono ed al soprano di coloratura modo di dare sfoggio al loro virtuosismo. Il tenore ha un ruolo, tutto sommato, secondario. “Attila” non è affatto risorgimentale ma anticipa altri lavori due Verdi (“Don Carlos” e “Aida” in particolare) su quello che lui stesso chiamava “lo squallore della politica”. Nei 100 minuti in cui si dipanano un prologo e tre atti, tutti tradiscono tutti, tranne il Re degli Unni (e Papa Leone Magno), per potere (quello che Federico De Roberto chiamava “l’imperio) ed un po’ anche per sesso. In breve, il solo innocente è proprio colui rimasto alla storia come “il flagello di Dio”. Ciò spiega bene la regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi (che si è cimentato più volte con questa opera negli ultimi quaranta anni): un unico ambiente (plasmato sulla Basilica di Massenzio), cupo e claustrofobico, un po’ la cornice di un congresso di partito in cui i capi corrente trattano tutto e di tutto, pur di scalzare il leader. Il Risorgimento è lontano, ma l’Europa di oggi molto vicina. (ilVelino/AGV) (Hans Sachs) 26 Maggio 2012 15:30

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