Una "trappola" Usa per Italia e Ue
Giuseppe Pennisi
lunedì 31 ottobre 2011
Foto Fotolia
Approfondisci
FINANZA/ Bertone: l’Europa si è svenduta alla Cina
FINANZA/ Non basta un fondo a salvare l’Europa, di M. Bottarelli
vai allo speciale Euro e Italia: quale destino?
Dopo un vertice europeo chiuso con una fragile intesa di breve periodo (ma con molte perplessità sul lungo termine e dell’eurozona e dell’Unione europea), l’attenzione di coloro che seguono la politica economica internazionale si sposta da Bruxelles a Cannes, dove si riuniscono i Capi di Stato e di Governo del G20. È un appuntamento che ha tutte le parvenze per sembrare importante: poco più di due settimane fa l’Ue (e in particolare l’eurozona, tra cui specialmente Grecia e Italia) sono state accusate di non tirare adeguatamente la carretta dell’economia mondiale, ma anzi di fare danni con i loro debiti sovrani e con riforme di struttura sempre annunciate ma mai realizzate. Oggi, Ue, eurozona e Grecia e Italia si presentano al G20 avendo in bisaccia gli accordi della settimana scorsa. Riusciranno i 20 a Cannes a dare la sferzata di cui ha esigenza l’economia mondiale?
Non facciamoci illusioni, come - al termine di ogni lezione - usava dire, nei lontani anni Sessanta, il mio professore di Economia internazionale, Isaiah Frank, il quale se ne intendeva anche perché era stato non solo un teorico della materia ma sottosegretario di Stato preposto agli affari economici dell’Amministrazione Kennedy. Dalla Croisette, più nota per i festival del cinema che per le riunioni di “grandi” del mondo, uscirà un lungo comunicato (peraltro già scritto e negoziato in bozza , pur se potranno essere fatte modifiche all’ultima ora) denso di auspici, ma privo di sostanza.
Il G20 - ammettiamolo una volta per tutte - è un club di malcapitati che devono far finta di potere orientare i cambiamenti dell’economia mondiale in un contesto in cui sono in corso riassetti strutturali molto profondi di cui pochi (anche nel sodalizio) sembrano avere contezza.
In sintesi, nel 1820 il 43% del Pil mondiale era prodotto (e consumato) da India e Cina. Vigeva un’economia di sussistenza per il 97% della popolazione mondiale; quindi, quanto più popolazione si aveva, tanto più si produceva e si consumava (e qualcosa restava per risparmi e investimenti). Da allora per oltre due secoli, i Paesi che si bagnano sull’Atlantico hanno avuto il monopolio dell’innovazione tecnologica, crescendo a tassi ben maggiori di quelli del resto del mondo. Dagli anni Ottanta, la tecnologia dell’innovazione e della comunicazione ha rotto il monopolio e la distribuzione geografica della produzione mondiale (e quindi dei consumi, dei risparmi e degli investimenti) sta drasticamente cambiando. Non ci sono strumentazioni economiche che consentano di delineare quale sarà il nuovo percorso, quali i tempi e se si tornerà (un giorno) a una situazione analoga a quella del 1820 oppure a qualcosa di intermedio (tra i secoli del “monopolio atlantico” e il pre-1820) oppure ancora a qualcosa di completamente differente. Infatti, a considerazioni e determinanti economiche si accavallano e si sommano considerazioni e determinanti sociali, istituzionali e politiche.
20 malcapitati, quindi, sono chiamati a risolvere un sistema di equazioni con un numero vastissimo di incognite di cui nessuno pare conoscere i parametri essenziali. Quindi, le loro pronunce - i comunicati - non possono essere che tanto vaste da tentare di abbracciare qualcosa per poi non abbracciare un bel nulla. Da ciò, inevitabile una crescente frustrazione. “Quanto erano più semplici - non possono non pensare i leader del G20- i G5 o anche i G7 di un tempo, quando bastava una serata in un appartamento al Plaza per riequilibrare quel che allora contava dell’economia mondiale”. È finito per sempre il mondo monopolare in cui gli aggiustamenti erano “esterni” (tramite svalutazioni e rivalutazioni nell’ambito delle regole definite a Bretton Woods) e non è chiaro se è destinato a durare l’attuale situazione basata su aggiustamenti interni e un contesto internazionale in cui l’euro è la seconda moneta principale dopo il dollaro. L’ultimo rapporto del gruppo Bruegel trasnoccia scenari e include anche un’analisi Swot (Strenghts, Weaknesses, Opportunities and Threats) di punti di forza e di debolezza di euro e yuan come seconda moneta internazionale - sempre dopo il dollaro.
L’analisi può essere utile ai “malcapitati della Croisette” non perché possa illuminarli su come pilotare il presente e il futuro dell’economia mondiale, ma perché mostra che la tartaruga europea (e i debiti sovrani di Grecia e Italia) non sono il cuore del problema come indicato (dal Segretario al Tesoro americano, ma anche da esponenti dei Brics) alla sessione dei loro ministri dell’Economia e delle Finanze. Il lento andamento dell’Europa e i debiti di Grecia e Italia sono senza dubbio problemi gravi e seri. Ma in un mondo in cui l’80% delle transazioni internazionali e il 70% di quelle interbancarie sono denominate in dollari, è difficile parlare di ripresa se gli Stati Uniti non trovano modo di sostenere un tasso di crescita maggiore dell’anemico 1,6% l’anno che li contraddistingue dall’inizio del 2011.
Se questo nodo venisse risolto, la carretta dell’economia mondiale, almeno nel breve periodo, andrebbe a ritmo più sostenuto. Ciò non vuole affatto dire che i 20 risolverebbero i problemi più gravi di medio e lungo termine, ma potrebbero riflettere su di essi con meno affanno sul contingente.
________________________________________
PAG. SUCC. >
________________________________________
domenica 30 ottobre 2011
PER IL MAGGIO FIORENTINO DOPO “MAKROPOULOS” UN 2012 TUTTO ITALIANO
PER IL MAGGIO FIORENTINO DOPO “MAKROPOULOS” UN 2012 TUTTO ITALIANO
Firenze - Il repertorio nazionale sarà il protagonista della prossima stagione con Rossini (“Il viaggio a Reims di Gioacchino”), Puccini (“Tosca”), Donizetti (“Anna Bolena”) e Verdi (“La Traviata”). Il Festival, invece, all’insegna della Mitteleuropa
Edizione completa
Stampa l'articolo
Firenze - “L’Affare Makropoulos” di Leoš Janáček caratterizza la ripresa autunnale del Teatro comunale di Firenze. In apparenza è un giallo poliziesco, in sostanza è però una riflessione filosofica-religiosa sul senso della vita: un processo che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una bella e giovane cantante, Emilia Marty o E.M., che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) e cerca disperatamente un manoscritto in greco, dove c’è la formula di una ricetta di lunga vita: E.M. ha già 337 anni (in tre secoli ha sempre mantenuto le iniziali pur cambiando nome) e gli effetti della pozione stanno per scadere. Finale a sorpresa. L’allestimento è curato per la parte drammaturgica da William Friedkin (con l’apporto di Michael Curry per gli “effetti speciali”) e per quella musicale da Zubin Mehta. Fridkin e Curry sono più interessati al “thriller” che alla dimensione filosofico-religiosa. La bacchetta di Mehta dilata i tempi scavando più sui singoli momenti che sugli intrecci tra i numerosi temi. E.M. è Angela Denoke, uno dei rari soprano in grado di affrontare il difficilissimo ruolo in cui si va dal “chiacchierar cantando” al declamato ed un arioso imperniato sui Do. Buono il resto della squadra. In contemporanea con la prima dello spettacolo è stata annunciata la stagione 2012, che verrà inaugurata da Il viaggio a Reims di Gioacchino Rossini in una nuova produzione. A seguire un altro titolo italiano: la Tosca di Giacomo Puccini, che ritorna nella produzione fiorentina curata da Mario Pontiggia per la direzione di Daniel Oren.
Segue un melodramma sempre italiano, Anna Bolena di Gaetano Donizetti, una ripresa di quella andata in scena al Teatro Filarmonico di Verona, co-prodotta dalla Fondazione Arena di Verona e dal Teatro Verdi di Trieste. La Traviata di Giuseppe Verdi verrà presentata dopo la parentesi del 75esimo Festival del Maggio Musicale Fiorentino. Il 24 novembre 2012, la prima opera dopo la pausa estiva sarà Turandot di Giacomo Puccini, ad inaugurare definitivamente il Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze: Zubin Mehta sul podio della già apprezzata e più volte applaudita produzione di Zhang Yimou. Se fil rouge di tutta la stagione 2012 risulta essere il repertorio italiano, la 75esima edizione del Festival del Maggio Musicale Fiorentino è interamente dedicato alla Mitteleuropa di inizio Novecento, al mito di un’Europa in fermento, al tramonto melanconico dell’Impero Asburgico. Viene inaugurato con Der Rosenkavalier di Richard Strauss (4-11 maggio 2012), opera andata in scena per la prima volta il 26 gennaio del 1911. La regia vedrà il ritorno di Eike Gramss (già autore a Firenze d’una felice edizione del Ratto del Serraglio di Mozart), sul podio, immancabile, il direttore principale Zubin Mehta, che nel 2012 celebrerà 50 anni dal debutto sul podio fiorentino: era l’11 febbraio 1962. In programma Incontri di Giorgi, il Concerto per pianoforte di Schumann con solista il grande Friedrich Gulda e la Prima Sinfonia di Gustav Mahler, un autore allora, in Italia, poco conosciuto. Segue, come da tradizione, un’opera commissionata appositamente per il Maggio, La metamorfosi (tre recite dal 22 al 25 maggio), della giovane compositrice italiana Silvia Colasanti, ed ispirata all’omonimo testo di Franz Kafka, pubblicato nel 1915.
A distanza di pochi giorni, dal 31 maggio al 5 giugno, andranno in scena i due capolavori del compositore ungherese Béla Bartók: Il mandarino meraviglioso (iniziato nel 1918 e rappresentato per la prima volta nel 1926) e Il Castello del Duca Barbablù (la cui prima stesura risale al 1911 e poi eseguito nel 1918) diretti da Seiji Ozawa, il cui ritorno al Maggio Musicale è molto atteso. Si tratta di una co-produzione con il Saito Kinen Festival, con la regia e coreografia di Jo Kanamori. All’interno di questo percorso si incardinano le creazioni di MaggioDanza: la prima incastonata nel Mandarino meraviglioso, la seconda in occasione di Die vier Temperamente (17-20 maggio al Teatro della Pergola) su musica di Paul Hindemith, con la coreografia di George Balanchine, abbinato a Verklärte Nacht su musica di Arnold Schönberg con la coreografia di Susanne Linke. Dopo il gala di danza in Piazza della Signoria (28 giugno), MaggioDanza tornerà all’Anfiteatro delle Cascine per riprendere The Genesis Tribute (11-13 luglio). A settembre, un nuovo allestimento che contempla Sechs Tänze, su musiche di Mozart, con la coreografia di Jirí Kylián, e Les Noces, su musiche di Igor Stravinskij per la coreografia di Andonis Foniadakis (27-30 settembre), vedrà collaborare MaggioDanza ed il Coro del Maggio Musicale Fiorentino insieme alla Scuola di Musica di Fiesole. Nel Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze Nir Kabaretti dirigerà l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino per un nuova creazione di MaggioDanza, Il Mago di Oz (19-23 dicembre). (ilVelino/AGV NEWS)
(Hans Sachs) 29 Ottobre 2011 10:16
Firenze - Il repertorio nazionale sarà il protagonista della prossima stagione con Rossini (“Il viaggio a Reims di Gioacchino”), Puccini (“Tosca”), Donizetti (“Anna Bolena”) e Verdi (“La Traviata”). Il Festival, invece, all’insegna della Mitteleuropa
Edizione completa
Stampa l'articolo
Firenze - “L’Affare Makropoulos” di Leoš Janáček caratterizza la ripresa autunnale del Teatro comunale di Firenze. In apparenza è un giallo poliziesco, in sostanza è però una riflessione filosofica-religiosa sul senso della vita: un processo che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una bella e giovane cantante, Emilia Marty o E.M., che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) e cerca disperatamente un manoscritto in greco, dove c’è la formula di una ricetta di lunga vita: E.M. ha già 337 anni (in tre secoli ha sempre mantenuto le iniziali pur cambiando nome) e gli effetti della pozione stanno per scadere. Finale a sorpresa. L’allestimento è curato per la parte drammaturgica da William Friedkin (con l’apporto di Michael Curry per gli “effetti speciali”) e per quella musicale da Zubin Mehta. Fridkin e Curry sono più interessati al “thriller” che alla dimensione filosofico-religiosa. La bacchetta di Mehta dilata i tempi scavando più sui singoli momenti che sugli intrecci tra i numerosi temi. E.M. è Angela Denoke, uno dei rari soprano in grado di affrontare il difficilissimo ruolo in cui si va dal “chiacchierar cantando” al declamato ed un arioso imperniato sui Do. Buono il resto della squadra. In contemporanea con la prima dello spettacolo è stata annunciata la stagione 2012, che verrà inaugurata da Il viaggio a Reims di Gioacchino Rossini in una nuova produzione. A seguire un altro titolo italiano: la Tosca di Giacomo Puccini, che ritorna nella produzione fiorentina curata da Mario Pontiggia per la direzione di Daniel Oren.
Segue un melodramma sempre italiano, Anna Bolena di Gaetano Donizetti, una ripresa di quella andata in scena al Teatro Filarmonico di Verona, co-prodotta dalla Fondazione Arena di Verona e dal Teatro Verdi di Trieste. La Traviata di Giuseppe Verdi verrà presentata dopo la parentesi del 75esimo Festival del Maggio Musicale Fiorentino. Il 24 novembre 2012, la prima opera dopo la pausa estiva sarà Turandot di Giacomo Puccini, ad inaugurare definitivamente il Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze: Zubin Mehta sul podio della già apprezzata e più volte applaudita produzione di Zhang Yimou. Se fil rouge di tutta la stagione 2012 risulta essere il repertorio italiano, la 75esima edizione del Festival del Maggio Musicale Fiorentino è interamente dedicato alla Mitteleuropa di inizio Novecento, al mito di un’Europa in fermento, al tramonto melanconico dell’Impero Asburgico. Viene inaugurato con Der Rosenkavalier di Richard Strauss (4-11 maggio 2012), opera andata in scena per la prima volta il 26 gennaio del 1911. La regia vedrà il ritorno di Eike Gramss (già autore a Firenze d’una felice edizione del Ratto del Serraglio di Mozart), sul podio, immancabile, il direttore principale Zubin Mehta, che nel 2012 celebrerà 50 anni dal debutto sul podio fiorentino: era l’11 febbraio 1962. In programma Incontri di Giorgi, il Concerto per pianoforte di Schumann con solista il grande Friedrich Gulda e la Prima Sinfonia di Gustav Mahler, un autore allora, in Italia, poco conosciuto. Segue, come da tradizione, un’opera commissionata appositamente per il Maggio, La metamorfosi (tre recite dal 22 al 25 maggio), della giovane compositrice italiana Silvia Colasanti, ed ispirata all’omonimo testo di Franz Kafka, pubblicato nel 1915.
A distanza di pochi giorni, dal 31 maggio al 5 giugno, andranno in scena i due capolavori del compositore ungherese Béla Bartók: Il mandarino meraviglioso (iniziato nel 1918 e rappresentato per la prima volta nel 1926) e Il Castello del Duca Barbablù (la cui prima stesura risale al 1911 e poi eseguito nel 1918) diretti da Seiji Ozawa, il cui ritorno al Maggio Musicale è molto atteso. Si tratta di una co-produzione con il Saito Kinen Festival, con la regia e coreografia di Jo Kanamori. All’interno di questo percorso si incardinano le creazioni di MaggioDanza: la prima incastonata nel Mandarino meraviglioso, la seconda in occasione di Die vier Temperamente (17-20 maggio al Teatro della Pergola) su musica di Paul Hindemith, con la coreografia di George Balanchine, abbinato a Verklärte Nacht su musica di Arnold Schönberg con la coreografia di Susanne Linke. Dopo il gala di danza in Piazza della Signoria (28 giugno), MaggioDanza tornerà all’Anfiteatro delle Cascine per riprendere The Genesis Tribute (11-13 luglio). A settembre, un nuovo allestimento che contempla Sechs Tänze, su musiche di Mozart, con la coreografia di Jirí Kylián, e Les Noces, su musiche di Igor Stravinskij per la coreografia di Andonis Foniadakis (27-30 settembre), vedrà collaborare MaggioDanza ed il Coro del Maggio Musicale Fiorentino insieme alla Scuola di Musica di Fiesole. Nel Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze Nir Kabaretti dirigerà l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino per un nuova creazione di MaggioDanza, Il Mago di Oz (19-23 dicembre). (ilVelino/AGV NEWS)
(Hans Sachs) 29 Ottobre 2011 10:16
venerdì 28 ottobre 2011
Affare Makropoulos, thriller in musica in Milano Finanza 29 ottobre
InScena
Affare Makropoulos, thriller in musica
di Giuseppe Pennisi
L'Affare Makropoulos di Leo Janácek, poco rappresentata in Italia fino a 20 anni fa, è oggi spesso sui palcoscenici italiani. Un nuovo allestimento è a Firenze fino al 2 novembre e una ripresa è già annunciata alla Fenice. In apparenza si tratta di un poliziesco alla Agatha Christie: un processo che dura da più di cent'anni in cui si inserisce una bella e giovane Emilia Marty (ossia E.M), che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) e cerca disperatamente un manoscritto in greco.
Nel manoscritto (la «cosa» Makropoulos, traducendo letteralmente dall'originale moravo) c'è la formula di una ricetta di lunga vita: E.M. ha già 337 anni (in tre secoli ha sempre mantenuto le iniziali pur cambiando nome) e gli effetti della pozione stanno per scadere. In sostanza, è, però, una riflessione filosofica-religiosa sul senso della vita.
L'allestimento è curato, per la parte drammaturgica, da William Friedkin (con l'apporto di Michael Curry per gli effetti speciali) e, per quella musicale, da Zubin Mehta. Fridkin e Curry sono più interessati al thriller che alla dimensione filosofico-religiosa. Efficaci l'impianto scenico e le proiezioni ma l'intervallo riduce la tensione: l'opera dura novanta minuti ed è spesso messa in scena senza interruzione. È la prima volta che Zubin Mehta concerta Makropoulos. Dirige con il braccio largo e dilatando i tempi. Dà a Janáceck una patina tardo-romantica e coglie solo in parte il complesso incastro di frammenti e cellule musicali caratteristico della scrittura del compositore. L'orchestra lo segue su questa strada, più facile per il pubblico rispetto a quelle, serrate, di altri concertatori. Angela Denoke ha trionfato, come accadde alla Scala nel 2009 e a Salisburgo la scorsa estate, in un ruolo, quello di E.M, in cui è quasi sempre in scena e deve passare dal chiacchierar cantando al declamato, fino al grande arioso finale in Do. Buono il resto del cast, in gran misura composto da attori e cantanti boemi e moravi avvezzi a interpretare frequentemente i rispettivi ruoli. (riproduzione riservata)
Affare Makropoulos, thriller in musica
di Giuseppe Pennisi
L'Affare Makropoulos di Leo Janácek, poco rappresentata in Italia fino a 20 anni fa, è oggi spesso sui palcoscenici italiani. Un nuovo allestimento è a Firenze fino al 2 novembre e una ripresa è già annunciata alla Fenice. In apparenza si tratta di un poliziesco alla Agatha Christie: un processo che dura da più di cent'anni in cui si inserisce una bella e giovane Emilia Marty (ossia E.M), che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) e cerca disperatamente un manoscritto in greco.
Nel manoscritto (la «cosa» Makropoulos, traducendo letteralmente dall'originale moravo) c'è la formula di una ricetta di lunga vita: E.M. ha già 337 anni (in tre secoli ha sempre mantenuto le iniziali pur cambiando nome) e gli effetti della pozione stanno per scadere. In sostanza, è, però, una riflessione filosofica-religiosa sul senso della vita.
L'allestimento è curato, per la parte drammaturgica, da William Friedkin (con l'apporto di Michael Curry per gli effetti speciali) e, per quella musicale, da Zubin Mehta. Fridkin e Curry sono più interessati al thriller che alla dimensione filosofico-religiosa. Efficaci l'impianto scenico e le proiezioni ma l'intervallo riduce la tensione: l'opera dura novanta minuti ed è spesso messa in scena senza interruzione. È la prima volta che Zubin Mehta concerta Makropoulos. Dirige con il braccio largo e dilatando i tempi. Dà a Janáceck una patina tardo-romantica e coglie solo in parte il complesso incastro di frammenti e cellule musicali caratteristico della scrittura del compositore. L'orchestra lo segue su questa strada, più facile per il pubblico rispetto a quelle, serrate, di altri concertatori. Angela Denoke ha trionfato, come accadde alla Scala nel 2009 e a Salisburgo la scorsa estate, in un ruolo, quello di E.M, in cui è quasi sempre in scena e deve passare dal chiacchierar cantando al declamato, fino al grande arioso finale in Do. Buono il resto del cast, in gran misura composto da attori e cantanti boemi e moravi avvezzi a interpretare frequentemente i rispettivi ruoli. (riproduzione riservata)
UN’EUROPA MALCONCIA APPRODA AL G20 in Il Velino 28 ottobre
UN’EUROPA MALCONCIA APPRODA AL G20
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Terminato il vertice europeo (sarebbe più appropriato parlare di due vertici, uno dell’Ue a 27 e uno dell’eurozona a 17) si apre un nuovo supervertice: quello del G20 che inizia a Cannes il 2 novembre. Come arriva l’Europa a questo appuntamento? E’ domanda che occorre porsi in quanto, nelle riunioni preparatorie, l’Europa è stata spesso presentata come il principale imputato di non tirare adeguatamente la carretta dell’economia mondiale. L’indizio, più che la prova, si basa sul tasso di crescita molto basso del continente vecchio (per demografia e apparato produttivo) e sulle liti interne sia all’Ue sia all’eurozona. Quella che arriva in Costa Azzurra è un’Europa solo apparentemente coesa e ancora meno apparentemente in buono stato. Le differenze profonde tra la Francia e buona parte degli altri sul fondo Salva-Stati hanno inflitto una ferita all’unione monetaria destinata a durare a lungo e gradualmente a incancrenirsi e ad aggravarsi man mano che iniziano le discussioni sui dettagli della nuova Politica agricola comune. L’unione monetaria è traballante; sono sempre più numerosi gli economisti che sottolineano come dal 1960 a oggi una dozzina di unioni monetarie si sono disfatte mentre una sola è stata creata (dietro un impulso politico - la risposta all’unificazione tedesca - piuttosto che per ragioni tecnico economiche). Le politiche di crescita (ossia “Europa 2020”) sono in gran misura declamatorie mentre la sostanza resta al palo.
Il futuro dell’Europa è al centro del G20 in quanto il gruppo intende delineare dove andrà l’economia mondiale nel prossimo quarto di secolo. Finita l’epoca di un mondo uni-polare (in cui gli Usa avevano l’onore e l’onere di pilotare un’economia mondiale in cui gli aggiustamenti avvenivano modificando i cambi nell’ambito di regole ben precise prescritte negli Statuti del Fondo Monetario) si va verso un mondo bipolare o multipolare? E sino a quando l’euro potrà essere la seconda valuta mondiale internazionale (dopo il dollaro e prima dello yuan) se l’eurozona non risolve in via permanente i propri problemi? E di converso in quale misura la moneta cinese potrà sostituire l’euro come seconda moneta internazionale se il settore finanziario interno di quello che fu l’Impero resta essenzialmente primitivo? Questi interrogativi sono molto più ampi e molto più profondi di quelli che hanno spazio sulle prime pagine dei quotidiani e che riguardano essenzialmente i problemi dell’Italia con la propria crescita e nei propri rapporti con l’Ue. Tuttavia, se il programma presentato il 26 ottobre non verrà, come promesso, attuato entro metà novembre, ne conseguirà un ulteriore indebolimento dell’Ue in seno al G20. Con la conseguenza di interrogativi sempre maggiori sul ruolo dell’Europa nel consesso mondiale. (ilVelino/AGV NEWS)
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Terminato il vertice europeo (sarebbe più appropriato parlare di due vertici, uno dell’Ue a 27 e uno dell’eurozona a 17) si apre un nuovo supervertice: quello del G20 che inizia a Cannes il 2 novembre. Come arriva l’Europa a questo appuntamento? E’ domanda che occorre porsi in quanto, nelle riunioni preparatorie, l’Europa è stata spesso presentata come il principale imputato di non tirare adeguatamente la carretta dell’economia mondiale. L’indizio, più che la prova, si basa sul tasso di crescita molto basso del continente vecchio (per demografia e apparato produttivo) e sulle liti interne sia all’Ue sia all’eurozona. Quella che arriva in Costa Azzurra è un’Europa solo apparentemente coesa e ancora meno apparentemente in buono stato. Le differenze profonde tra la Francia e buona parte degli altri sul fondo Salva-Stati hanno inflitto una ferita all’unione monetaria destinata a durare a lungo e gradualmente a incancrenirsi e ad aggravarsi man mano che iniziano le discussioni sui dettagli della nuova Politica agricola comune. L’unione monetaria è traballante; sono sempre più numerosi gli economisti che sottolineano come dal 1960 a oggi una dozzina di unioni monetarie si sono disfatte mentre una sola è stata creata (dietro un impulso politico - la risposta all’unificazione tedesca - piuttosto che per ragioni tecnico economiche). Le politiche di crescita (ossia “Europa 2020”) sono in gran misura declamatorie mentre la sostanza resta al palo.
Il futuro dell’Europa è al centro del G20 in quanto il gruppo intende delineare dove andrà l’economia mondiale nel prossimo quarto di secolo. Finita l’epoca di un mondo uni-polare (in cui gli Usa avevano l’onore e l’onere di pilotare un’economia mondiale in cui gli aggiustamenti avvenivano modificando i cambi nell’ambito di regole ben precise prescritte negli Statuti del Fondo Monetario) si va verso un mondo bipolare o multipolare? E sino a quando l’euro potrà essere la seconda valuta mondiale internazionale (dopo il dollaro e prima dello yuan) se l’eurozona non risolve in via permanente i propri problemi? E di converso in quale misura la moneta cinese potrà sostituire l’euro come seconda moneta internazionale se il settore finanziario interno di quello che fu l’Impero resta essenzialmente primitivo? Questi interrogativi sono molto più ampi e molto più profondi di quelli che hanno spazio sulle prime pagine dei quotidiani e che riguardano essenzialmente i problemi dell’Italia con la propria crescita e nei propri rapporti con l’Ue. Tuttavia, se il programma presentato il 26 ottobre non verrà, come promesso, attuato entro metà novembre, ne conseguirà un ulteriore indebolimento dell’Ue in seno al G20. Con la conseguenza di interrogativi sempre maggiori sul ruolo dell’Europa nel consesso mondiale. (ilVelino/AGV NEWS)
giovedì 27 ottobre 2011
CRESCERE IN TEMPO DI MONETA UNICA Il Riformista 28 ottobre
I LIBRI DEI MINISTRI- SAVERIO ROMANO
CRESCERE IN TEMPO DI MONETA UNICA
Giuseppe Pennisi
Il Ministro delle Politiche, Alimentari e Forestali, Saverio Romano segue le vicende dell’eurozona più di altri colleghi a capo di dicasteri considerati, a torto od a ragione, tecnici. Da un canto, è uomo di vasti interessi. Da un altro, l’avvenire dell’area dell’euro ha implicazioni tentacolari per la politica agricola comune e la constituency del Ministero, dalla Coldiretti alla Confagricoltura, si agita (ed il Ministro non può non tenerne conto).
Guarda con positiva responsabilità al presente ed al futuro. Quindi ha letto con piacere il saggio di Dale E. Jorgenson della Università di Harvard e Khuong M. Vu del Lee Kuan You School of Public Policy di Singapore “Potential Growth of World Economy” appena apparso sul “Journal of Policy Modelling”. Un lavoro non necessariamente ottimista ma molto responsabile: dopo aver analizzato le fonti della crescita economica per l’economia mondiale, sette regioni e 14 tra i principali Paesi tra il 1989 ed il 2004, delinea le prospettive per il 2009-2019: uno sviluppo ed una produttività del lavoro più contenuti ma non raso terra. In questo contesto, i nodi dell’eurozona (pur se non rientrano necessariamente nelle tematiche sue) sono superabili.
Sempre aumenti l’efficienza di tutti. Ha per la mani un altro lavoro, ancora inedito, della Università di Harvard: cinque delle migliori “teste d’uovo” del pensiero economico americano (ah, ce ne vorrebbero in Italia!) hanno utilizzato un campione di 42.337 imprese in 49 Paesi per studiare il nesso tra profittabilità d’imprese ed efficienza della macchina pubblica. Dove l’apparato pubblico è più efficiente, anche le imprese lavorano e rendono meglio. Lo sappiano a Bruxelles; in Italia si è alle prese non solo con una macchina vetusta (che il collega della Funzione Pubblica ed Innovazione sta tentando di modernizzare) ma anche con poteri impropri che invece di sveltire le loro macchine (le statistiche europee dimostrano che la lentocrazia affligge la magistratura in Italia più che altrove) fanno perdere tempo a chi cerca di fare responsabilmente il bene comune. Di questo , la Bce dovrebbe scrivere lettere su lettere.
In questo quadro, non bisogna prendere sul serio la proposta dell’economista africano Oscar Kuikeo , il quale , forse per farsi un nome, alla vigilia dell’ultimo euro vertice è riuscito a far pubblicare sulla più vasta e più autorevole rete telematica di economia, finanza, diritto e quant’altro- il Social Science Research Network- un dotto studio in cui preconizza la fine della moneta unica e propone che la trentina di Stati del continente nero le cui valute hanno un cambio fisso con l’euro se ne distacchino – e basino le loro valute, invece, su un paniere di monete e sui corsi di prodotti di base. Forse ci guadagnerebbero le materie prime agricole ma si tratta di catastrofismo bello e buono.
Piuttosto ora che ci abbiamo mandato Mario Draghi, la Banca centrale europea cambi rotta ed alimenti la crescita: lo dicono non solo bocconiani come Guido Tabellini ma anche il trinariciuto e spesso poco responsabile Centre for European Policy Studies nel Policy Paper n. 251 dell’anno (di Grazia) in corso.
CRESCERE IN TEMPO DI MONETA UNICA
Giuseppe Pennisi
Il Ministro delle Politiche, Alimentari e Forestali, Saverio Romano segue le vicende dell’eurozona più di altri colleghi a capo di dicasteri considerati, a torto od a ragione, tecnici. Da un canto, è uomo di vasti interessi. Da un altro, l’avvenire dell’area dell’euro ha implicazioni tentacolari per la politica agricola comune e la constituency del Ministero, dalla Coldiretti alla Confagricoltura, si agita (ed il Ministro non può non tenerne conto).
Guarda con positiva responsabilità al presente ed al futuro. Quindi ha letto con piacere il saggio di Dale E. Jorgenson della Università di Harvard e Khuong M. Vu del Lee Kuan You School of Public Policy di Singapore “Potential Growth of World Economy” appena apparso sul “Journal of Policy Modelling”. Un lavoro non necessariamente ottimista ma molto responsabile: dopo aver analizzato le fonti della crescita economica per l’economia mondiale, sette regioni e 14 tra i principali Paesi tra il 1989 ed il 2004, delinea le prospettive per il 2009-2019: uno sviluppo ed una produttività del lavoro più contenuti ma non raso terra. In questo contesto, i nodi dell’eurozona (pur se non rientrano necessariamente nelle tematiche sue) sono superabili.
Sempre aumenti l’efficienza di tutti. Ha per la mani un altro lavoro, ancora inedito, della Università di Harvard: cinque delle migliori “teste d’uovo” del pensiero economico americano (ah, ce ne vorrebbero in Italia!) hanno utilizzato un campione di 42.337 imprese in 49 Paesi per studiare il nesso tra profittabilità d’imprese ed efficienza della macchina pubblica. Dove l’apparato pubblico è più efficiente, anche le imprese lavorano e rendono meglio. Lo sappiano a Bruxelles; in Italia si è alle prese non solo con una macchina vetusta (che il collega della Funzione Pubblica ed Innovazione sta tentando di modernizzare) ma anche con poteri impropri che invece di sveltire le loro macchine (le statistiche europee dimostrano che la lentocrazia affligge la magistratura in Italia più che altrove) fanno perdere tempo a chi cerca di fare responsabilmente il bene comune. Di questo , la Bce dovrebbe scrivere lettere su lettere.
In questo quadro, non bisogna prendere sul serio la proposta dell’economista africano Oscar Kuikeo , il quale , forse per farsi un nome, alla vigilia dell’ultimo euro vertice è riuscito a far pubblicare sulla più vasta e più autorevole rete telematica di economia, finanza, diritto e quant’altro- il Social Science Research Network- un dotto studio in cui preconizza la fine della moneta unica e propone che la trentina di Stati del continente nero le cui valute hanno un cambio fisso con l’euro se ne distacchino – e basino le loro valute, invece, su un paniere di monete e sui corsi di prodotti di base. Forse ci guadagnerebbero le materie prime agricole ma si tratta di catastrofismo bello e buono.
Piuttosto ora che ci abbiamo mandato Mario Draghi, la Banca centrale europea cambi rotta ed alimenti la crescita: lo dicono non solo bocconiani come Guido Tabellini ma anche il trinariciuto e spesso poco responsabile Centre for European Policy Studies nel Policy Paper n. 251 dell’anno (di Grazia) in corso.
mercoledì 26 ottobre 2011
Con Friedkin Janácek diventa un thriller in Avvenire 27 ottobre
Con Friedkin Janácek diventa un thriller
Al Maggio Fiorentino il regista de «L’esorcista» dà ritmo serrato a «L’affare Makropulos» del compositore ceco, apologo gotico sull’immortalità. Bene Mehta, ottima Angela Denoke
DA FIRENZE
GIUSEPPE PENNISI
affare Makropulos,
L’ penultima opera di Leóš Janácek (fu scritta tra il 1923 e il 1925), è uno dei lavori del compositore moravo più rappresentanti in Italia negli ultimi vent’anni anche grazie ad un allestimento di Luca Ronconi che dopo il debutto a Torino, si è visto a Bologna, Napoli e Milano. Questa estate commentando una produzione al Festival di Salisburgo si è sottolineato come, sotto l’apparenza di un giallo poliziesco, l’opera tratta di un tema altamente filosofico e religioso: l’immortalità della persona fisica vista come punizione estrema.
La considerava così Platone nel Simposio. Il tema veniva approfondito dai Padri della Chiesa e nelle leggende medioevali; lo stesso Wagner, nel suo ultimo lavoro Parsifal,
vede Kundry condannata all’immortalità perché ha irriso Cristo in Croce. Leóš Janácek ha più volte affrontato il tema religioso, non solo nella sua Messa Glagolitica ma anche in altri lavori dove varie esperienze cristiane (dalla cattolica alla luterana alla ortodossa) si fondono con elementi panteistici. La protagonista de L’affare Makropoulos, E.M, rinuncia all’immortalità e all’eterna giovinezza perché le sente come il peso di una condanna eterna.
Questo aspetto, centrale in numerose regie, non è sfiorato da William Friedkin, noto autore cinematografico, (L’Esorcista, Vivere e Morire a Los Angeles, Braccio violento della legge). Con l’ausilio degli 'effetti speciali' di uno specialista come Michael Curry, scava nel thriller psicologico con grande abilità grazie anche alla destrezza scenica dei cantanti. Interrompendo l’opera (in tutto 90 minuti) con un lungo intervallo, però, indebolisce la tensione scenica.
Gli aspetti musicale sono affidati a Zubin Mehta, la cui bacchetta è più drammatica e dilatata di quelle, terse, di Esa Pekka Salonen a Salisburgo e di Simon Rattle a Aix en Provence. Ricorda piuttosto la concertazione di Makropulos di Charles Mackerras (grande esperto di Janácek). Angela Denoke è E.M., ruolo difficilissimo pure perché sempre in scena e deve ascendere ad acuti elevatissimi (e tenuti a lungo) per poi discendere a tonalità gravi, ha trionfato a Firenze così come alla Scala nel 2009 e a Salisburgo l’estate scorsa. La affiancano Miro Dvorsky, Karl Michael Ebner, Andrzej Dobber, Mirko Guadagnini, Jolana Fogašová e una schiera di caratteristi. Tutti di livello.
Buon successo alla prima l’altra sera. Un Makropulos è annunciato anche a La Fenice; da augurarsi che venga ripreso, se del caso con correzioni di tiro, l’edizione fiorentina e non montata un’edizione nuova di zecca.
Al Maggio Fiorentino il regista de «L’esorcista» dà ritmo serrato a «L’affare Makropulos» del compositore ceco, apologo gotico sull’immortalità. Bene Mehta, ottima Angela Denoke
DA FIRENZE
GIUSEPPE PENNISI
affare Makropulos,
L’ penultima opera di Leóš Janácek (fu scritta tra il 1923 e il 1925), è uno dei lavori del compositore moravo più rappresentanti in Italia negli ultimi vent’anni anche grazie ad un allestimento di Luca Ronconi che dopo il debutto a Torino, si è visto a Bologna, Napoli e Milano. Questa estate commentando una produzione al Festival di Salisburgo si è sottolineato come, sotto l’apparenza di un giallo poliziesco, l’opera tratta di un tema altamente filosofico e religioso: l’immortalità della persona fisica vista come punizione estrema.
La considerava così Platone nel Simposio. Il tema veniva approfondito dai Padri della Chiesa e nelle leggende medioevali; lo stesso Wagner, nel suo ultimo lavoro Parsifal,
vede Kundry condannata all’immortalità perché ha irriso Cristo in Croce. Leóš Janácek ha più volte affrontato il tema religioso, non solo nella sua Messa Glagolitica ma anche in altri lavori dove varie esperienze cristiane (dalla cattolica alla luterana alla ortodossa) si fondono con elementi panteistici. La protagonista de L’affare Makropoulos, E.M, rinuncia all’immortalità e all’eterna giovinezza perché le sente come il peso di una condanna eterna.
Questo aspetto, centrale in numerose regie, non è sfiorato da William Friedkin, noto autore cinematografico, (L’Esorcista, Vivere e Morire a Los Angeles, Braccio violento della legge). Con l’ausilio degli 'effetti speciali' di uno specialista come Michael Curry, scava nel thriller psicologico con grande abilità grazie anche alla destrezza scenica dei cantanti. Interrompendo l’opera (in tutto 90 minuti) con un lungo intervallo, però, indebolisce la tensione scenica.
Gli aspetti musicale sono affidati a Zubin Mehta, la cui bacchetta è più drammatica e dilatata di quelle, terse, di Esa Pekka Salonen a Salisburgo e di Simon Rattle a Aix en Provence. Ricorda piuttosto la concertazione di Makropulos di Charles Mackerras (grande esperto di Janácek). Angela Denoke è E.M., ruolo difficilissimo pure perché sempre in scena e deve ascendere ad acuti elevatissimi (e tenuti a lungo) per poi discendere a tonalità gravi, ha trionfato a Firenze così come alla Scala nel 2009 e a Salisburgo l’estate scorsa. La affiancano Miro Dvorsky, Karl Michael Ebner, Andrzej Dobber, Mirko Guadagnini, Jolana Fogašová e una schiera di caratteristi. Tutti di livello.
Buon successo alla prima l’altra sera. Un Makropulos è annunciato anche a La Fenice; da augurarsi che venga ripreso, se del caso con correzioni di tiro, l’edizione fiorentina e non montata un’edizione nuova di zecca.
Con Friedkin Janácek diventa un thriller in Avvenire 27 ottobre
Con Friedkin Janácek diventa un thriller
Al Maggio Fiorentino il regista de «L’esorcista» dà ritmo serrato a «L’affare Makropulos» del compositore ceco, apologo gotico sull’immortalità. Bene Mehta, ottima Angela Denoke
DA FIRENZE
GIUSEPPE PENNISI
affare Makropulos,
L’ penultima opera di Leóš Janácek (fu scritta tra il 1923 e il 1925), è uno dei lavori del compositore moravo più rappresentanti in Italia negli ultimi vent’anni anche grazie ad un allestimento di Luca Ronconi che dopo il debutto a Torino, si è visto a Bologna, Napoli e Milano. Questa estate commentando una produzione al Festival di Salisburgo si è sottolineato come, sotto l’apparenza di un giallo poliziesco, l’opera tratta di un tema altamente filosofico e religioso: l’immortalità della persona fisica vista come punizione estrema.
La considerava così Platone nel Simposio. Il tema veniva approfondito dai Padri della Chiesa e nelle leggende medioevali; lo stesso Wagner, nel suo ultimo lavoro Parsifal,
vede Kundry condannata all’immortalità perché ha irriso Cristo in Croce. Leóš Janácek ha più volte affrontato il tema religioso, non solo nella sua Messa Glagolitica ma anche in altri lavori dove varie esperienze cristiane (dalla cattolica alla luterana alla ortodossa) si fondono con elementi panteistici. La protagonista de L’affare Makropoulos, E.M, rinuncia all’immortalità e all’eterna giovinezza perché le sente come il peso di una condanna eterna.
Questo aspetto, centrale in numerose regie, non è sfiorato da William Friedkin, noto autore cinematografico, (L’Esorcista, Vivere e Morire a Los Angeles, Braccio violento della legge). Con l’ausilio degli 'effetti speciali' di uno specialista come Michael Curry, scava nel thriller psicologico con grande abilità grazie anche alla destrezza scenica dei cantanti. Interrompendo l’opera (in tutto 90 minuti) con un lungo intervallo, però, indebolisce la tensione scenica.
Gli aspetti musicale sono affidati a Zubin Mehta, la cui bacchetta è più drammatica e dilatata di quelle, terse, di Esa Pekka Salonen a Salisburgo e di Simon Rattle a Aix en Provence. Ricorda piuttosto la concertazione di Makropulos di Charles Mackerras (grande esperto di Janácek). Angela Denoke è E.M., ruolo difficilissimo pure perché sempre in scena e deve ascendere ad acuti elevatissimi (e tenuti a lungo) per poi discendere a tonalità gravi, ha trionfato a Firenze così come alla Scala nel 2009 e a Salisburgo l’estate scorsa. La affiancano Miro Dvorsky, Karl Michael Ebner, Andrzej Dobber, Mirko Guadagnini, Jolana Fogašová e una schiera di caratteristi. Tutti di livello.
Buon successo alla prima l’altra sera. Un Makropulos è annunciato anche a La Fenice; da augurarsi che venga ripreso, se del caso con correzioni di tiro, l’edizione fiorentina e non montata un’edizione nuova di zecca.
Al Maggio Fiorentino il regista de «L’esorcista» dà ritmo serrato a «L’affare Makropulos» del compositore ceco, apologo gotico sull’immortalità. Bene Mehta, ottima Angela Denoke
DA FIRENZE
GIUSEPPE PENNISI
affare Makropulos,
L’ penultima opera di Leóš Janácek (fu scritta tra il 1923 e il 1925), è uno dei lavori del compositore moravo più rappresentanti in Italia negli ultimi vent’anni anche grazie ad un allestimento di Luca Ronconi che dopo il debutto a Torino, si è visto a Bologna, Napoli e Milano. Questa estate commentando una produzione al Festival di Salisburgo si è sottolineato come, sotto l’apparenza di un giallo poliziesco, l’opera tratta di un tema altamente filosofico e religioso: l’immortalità della persona fisica vista come punizione estrema.
La considerava così Platone nel Simposio. Il tema veniva approfondito dai Padri della Chiesa e nelle leggende medioevali; lo stesso Wagner, nel suo ultimo lavoro Parsifal,
vede Kundry condannata all’immortalità perché ha irriso Cristo in Croce. Leóš Janácek ha più volte affrontato il tema religioso, non solo nella sua Messa Glagolitica ma anche in altri lavori dove varie esperienze cristiane (dalla cattolica alla luterana alla ortodossa) si fondono con elementi panteistici. La protagonista de L’affare Makropoulos, E.M, rinuncia all’immortalità e all’eterna giovinezza perché le sente come il peso di una condanna eterna.
Questo aspetto, centrale in numerose regie, non è sfiorato da William Friedkin, noto autore cinematografico, (L’Esorcista, Vivere e Morire a Los Angeles, Braccio violento della legge). Con l’ausilio degli 'effetti speciali' di uno specialista come Michael Curry, scava nel thriller psicologico con grande abilità grazie anche alla destrezza scenica dei cantanti. Interrompendo l’opera (in tutto 90 minuti) con un lungo intervallo, però, indebolisce la tensione scenica.
Gli aspetti musicale sono affidati a Zubin Mehta, la cui bacchetta è più drammatica e dilatata di quelle, terse, di Esa Pekka Salonen a Salisburgo e di Simon Rattle a Aix en Provence. Ricorda piuttosto la concertazione di Makropulos di Charles Mackerras (grande esperto di Janácek). Angela Denoke è E.M., ruolo difficilissimo pure perché sempre in scena e deve ascendere ad acuti elevatissimi (e tenuti a lungo) per poi discendere a tonalità gravi, ha trionfato a Firenze così come alla Scala nel 2009 e a Salisburgo l’estate scorsa. La affiancano Miro Dvorsky, Karl Michael Ebner, Andrzej Dobber, Mirko Guadagnini, Jolana Fogašová e una schiera di caratteristi. Tutti di livello.
Buon successo alla prima l’altra sera. Un Makropulos è annunciato anche a La Fenice; da augurarsi che venga ripreso, se del caso con correzioni di tiro, l’edizione fiorentina e non montata un’edizione nuova di zecca.
L’”AFFARE MAKROPOULOS”: IL DRAMMA DI AVERE 300 ANNI Il Riformista 27 ottobre
L’”AFFARE MAKROPOULOS”: IL DRAMMA DI AVERE 300 ANNI
Beckmesser
Firenze- “Il Caso Makropoulos” o “L’Affare Makropoulos” (a seconda delle traduzione)) di Leoš Janácek arriva a Firenze in un allestimento nuovo di zecca . Ha le guise di un dramma poliziesco: un processo su una vertenza di successione che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una bellissima e giovanissima cantante - Emilia Marty - che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) ma cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il dramma di Čapek dura oltre quattro ore ed è farcito di discorsi filosofici. I tre atti di Janácek durano 90 minuti e rendono meglio se vengono rappresentati senza intervallo. L’opera in effetti tratta del valore e della durata della vita come esperienza terrena. Emilia Marty ha 337 anni; ha avuto negli oltre tre secoli vari nomi tutti con le iniziali E.M.; suo padre, il negromante cretese Makropoulos, ha predisposto una lozione di lunga vita per l’Imperatore d’Ungheria, lei la ha provata, è rimasta sempre giovane ma allo scadere dei giorni in cui si svolge l’opera deve bere di nuovo la pozione o morire. La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro coinvolti nel maxi-processo. Quindi, la sua ricerca affannosa . È così bella che una delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote si innamora perdutamente di lei) e che un altro si suicida quando apprende che suo padre (in possesso delle carte in greco) dà il documento in cambio di una notte di sesso con lei. Ma, pure sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In 300 anni, i suoi amici, i suoi amanti, le sue persone care sono sparite, mentre lei vagava da Paese a Paese. Quando ha il documento, lo cede alla fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo brucia, mentre lei invecchia in pochi istanti e muore.
La scrittura orchestrale e vocale di Janácek è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico slavo e il sinfonismo pagano di Richard Strauss, con influenze di Debussy (del quale Janacek conosceva bene sia “La Mer” sia “Pelléas”), un ininterrotto mormorio, inafferrabile e inclassificabile, , e provvisto di temi di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo sonoro Ancora più interessante la scrittura vocale in cui note e parole si plasmano a vicenda le une sulle altre sino all'immenso arioso finale. Un equilibrio che si può afferrare, con l'ausilio dei sovratitoli.
L'allestimento è curato, per la parte drammaturgica, dal noto regista americano William Friedkin e, per quella musicale, da Zubin Mehta. Un scena unica con proiezioni ed effetti speciali che evocano le vicende pregresse di E.M. da parte di tutti gli altri. Grande cura alla recitazione. Ampia la concertazione di Mehta con tempi dilatati ed accenti tardo romantici.. E.M. è Angela Denoke, uno dei rari soprano in grado di affrontare il difficilissimo ruolo in cui si va dal chiacchierar cantando al declamato ed un arioso imperniato sui Do. Miro Dvorsky, un tenore di razza, è Albert Gregor. Andrej Dobber, un baritono mellifluo, Jaroslav Prus, Mirko Guadagnini suo figlio Janek, Jolana Fogašová la giovane Krista .Con i numerosi altri costituiscono un'ottima compagnia di canto. Grande successo.
.
Beckmesser
Firenze- “Il Caso Makropoulos” o “L’Affare Makropoulos” (a seconda delle traduzione)) di Leoš Janácek arriva a Firenze in un allestimento nuovo di zecca . Ha le guise di un dramma poliziesco: un processo su una vertenza di successione che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una bellissima e giovanissima cantante - Emilia Marty - che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) ma cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il dramma di Čapek dura oltre quattro ore ed è farcito di discorsi filosofici. I tre atti di Janácek durano 90 minuti e rendono meglio se vengono rappresentati senza intervallo. L’opera in effetti tratta del valore e della durata della vita come esperienza terrena. Emilia Marty ha 337 anni; ha avuto negli oltre tre secoli vari nomi tutti con le iniziali E.M.; suo padre, il negromante cretese Makropoulos, ha predisposto una lozione di lunga vita per l’Imperatore d’Ungheria, lei la ha provata, è rimasta sempre giovane ma allo scadere dei giorni in cui si svolge l’opera deve bere di nuovo la pozione o morire. La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro coinvolti nel maxi-processo. Quindi, la sua ricerca affannosa . È così bella che una delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote si innamora perdutamente di lei) e che un altro si suicida quando apprende che suo padre (in possesso delle carte in greco) dà il documento in cambio di una notte di sesso con lei. Ma, pure sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In 300 anni, i suoi amici, i suoi amanti, le sue persone care sono sparite, mentre lei vagava da Paese a Paese. Quando ha il documento, lo cede alla fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo brucia, mentre lei invecchia in pochi istanti e muore.
La scrittura orchestrale e vocale di Janácek è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico slavo e il sinfonismo pagano di Richard Strauss, con influenze di Debussy (del quale Janacek conosceva bene sia “La Mer” sia “Pelléas”), un ininterrotto mormorio, inafferrabile e inclassificabile, , e provvisto di temi di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo sonoro Ancora più interessante la scrittura vocale in cui note e parole si plasmano a vicenda le une sulle altre sino all'immenso arioso finale. Un equilibrio che si può afferrare, con l'ausilio dei sovratitoli.
L'allestimento è curato, per la parte drammaturgica, dal noto regista americano William Friedkin e, per quella musicale, da Zubin Mehta. Un scena unica con proiezioni ed effetti speciali che evocano le vicende pregresse di E.M. da parte di tutti gli altri. Grande cura alla recitazione. Ampia la concertazione di Mehta con tempi dilatati ed accenti tardo romantici.. E.M. è Angela Denoke, uno dei rari soprano in grado di affrontare il difficilissimo ruolo in cui si va dal chiacchierar cantando al declamato ed un arioso imperniato sui Do. Miro Dvorsky, un tenore di razza, è Albert Gregor. Andrej Dobber, un baritono mellifluo, Jaroslav Prus, Mirko Guadagnini suo figlio Janek, Jolana Fogašová la giovane Krista .Con i numerosi altri costituiscono un'ottima compagnia di canto. Grande successo.
.
L’”AFFARE MAKROPOULOS”: IL DRAMMA DI AVERE 300 ANNI Il Riformista 27 ottobre
L’”AFFARE MAKROPOULOS”: IL DRAMMA DI AVERE 300 ANNI
Beckmesser
Firenze- “Il Caso Makropoulos” o “L’Affare Makropoulos” (a seconda delle traduzione)) di Leoš Janácek arriva a Firenze in un allestimento nuovo di zecca . Ha le guise di un dramma poliziesco: un processo su una vertenza di successione che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una bellissima e giovanissima cantante - Emilia Marty - che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) ma cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il dramma di Čapek dura oltre quattro ore ed è farcito di discorsi filosofici. I tre atti di Janácek durano 90 minuti e rendono meglio se vengono rappresentati senza intervallo. L’opera in effetti tratta del valore e della durata della vita come esperienza terrena. Emilia Marty ha 337 anni; ha avuto negli oltre tre secoli vari nomi tutti con le iniziali E.M.; suo padre, il negromante cretese Makropoulos, ha predisposto una lozione di lunga vita per l’Imperatore d’Ungheria, lei la ha provata, è rimasta sempre giovane ma allo scadere dei giorni in cui si svolge l’opera deve bere di nuovo la pozione o morire. La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro coinvolti nel maxi-processo. Quindi, la sua ricerca affannosa . È così bella che una delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote si innamora perdutamente di lei) e che un altro si suicida quando apprende che suo padre (in possesso delle carte in greco) dà il documento in cambio di una notte di sesso con lei. Ma, pure sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In 300 anni, i suoi amici, i suoi amanti, le sue persone care sono sparite, mentre lei vagava da Paese a Paese. Quando ha il documento, lo cede alla fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo brucia, mentre lei invecchia in pochi istanti e muore.
La scrittura orchestrale e vocale di Janácek è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico slavo e il sinfonismo pagano di Richard Strauss, con influenze di Debussy (del quale Janacek conosceva bene sia “La Mer” sia “Pelléas”), un ininterrotto mormorio, inafferrabile e inclassificabile, , e provvisto di temi di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo sonoro Ancora più interessante la scrittura vocale in cui note e parole si plasmano a vicenda le une sulle altre sino all'immenso arioso finale. Un equilibrio che si può afferrare, con l'ausilio dei sovratitoli.
L'allestimento è curato, per la parte drammaturgica, dal noto regista americano William Friedkin e, per quella musicale, da Zubin Mehta. Un scena unica con proiezioni ed effetti speciali che evocano le vicende pregresse di E.M. da parte di tutti gli altri. Grande cura alla recitazione. Ampia la concertazione di Mehta con tempi dilatati ed accenti tardo romantici.. E.M. è Angela Denoke, uno dei rari soprano in grado di affrontare il difficilissimo ruolo in cui si va dal chiacchierar cantando al declamato ed un arioso imperniato sui Do. Miro Dvorsky, un tenore di razza, è Albert Gregor. Andrej Dobber, un baritono mellifluo, Jaroslav Prus, Mirko Guadagnini suo figlio Janek, Jolana Fogašová la giovane Krista .Con i numerosi altri costituiscono un'ottima compagnia di canto. Grande successo.
.
Beckmesser
Firenze- “Il Caso Makropoulos” o “L’Affare Makropoulos” (a seconda delle traduzione)) di Leoš Janácek arriva a Firenze in un allestimento nuovo di zecca . Ha le guise di un dramma poliziesco: un processo su una vertenza di successione che dura da più di cent’anni in cui si inserisce una bellissima e giovanissima cantante - Emilia Marty - che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) ma cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il dramma di Čapek dura oltre quattro ore ed è farcito di discorsi filosofici. I tre atti di Janácek durano 90 minuti e rendono meglio se vengono rappresentati senza intervallo. L’opera in effetti tratta del valore e della durata della vita come esperienza terrena. Emilia Marty ha 337 anni; ha avuto negli oltre tre secoli vari nomi tutti con le iniziali E.M.; suo padre, il negromante cretese Makropoulos, ha predisposto una lozione di lunga vita per l’Imperatore d’Ungheria, lei la ha provata, è rimasta sempre giovane ma allo scadere dei giorni in cui si svolge l’opera deve bere di nuovo la pozione o morire. La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro coinvolti nel maxi-processo. Quindi, la sua ricerca affannosa . È così bella che una delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote si innamora perdutamente di lei) e che un altro si suicida quando apprende che suo padre (in possesso delle carte in greco) dà il documento in cambio di una notte di sesso con lei. Ma, pure sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In 300 anni, i suoi amici, i suoi amanti, le sue persone care sono sparite, mentre lei vagava da Paese a Paese. Quando ha il documento, lo cede alla fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo brucia, mentre lei invecchia in pochi istanti e muore.
La scrittura orchestrale e vocale di Janácek è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico slavo e il sinfonismo pagano di Richard Strauss, con influenze di Debussy (del quale Janacek conosceva bene sia “La Mer” sia “Pelléas”), un ininterrotto mormorio, inafferrabile e inclassificabile, , e provvisto di temi di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo sonoro Ancora più interessante la scrittura vocale in cui note e parole si plasmano a vicenda le une sulle altre sino all'immenso arioso finale. Un equilibrio che si può afferrare, con l'ausilio dei sovratitoli.
L'allestimento è curato, per la parte drammaturgica, dal noto regista americano William Friedkin e, per quella musicale, da Zubin Mehta. Un scena unica con proiezioni ed effetti speciali che evocano le vicende pregresse di E.M. da parte di tutti gli altri. Grande cura alla recitazione. Ampia la concertazione di Mehta con tempi dilatati ed accenti tardo romantici.. E.M. è Angela Denoke, uno dei rari soprano in grado di affrontare il difficilissimo ruolo in cui si va dal chiacchierar cantando al declamato ed un arioso imperniato sui Do. Miro Dvorsky, un tenore di razza, è Albert Gregor. Andrej Dobber, un baritono mellifluo, Jaroslav Prus, Mirko Guadagnini suo figlio Janek, Jolana Fogašová la giovane Krista .Con i numerosi altri costituiscono un'ottima compagnia di canto. Grande successo.
.
martedì 25 ottobre 2011
Che c'entrano le pensioni con gli ultimatum dell'Ue? Il Sussidiario 25 ottobre
FINANZA/ 1. Che c'entrano le pensioni con gli ultimatum dell'Ue?
Giuseppe Pennisi
martedì 25 ottobre 2011
Un gruppo di pensionati
Approfondisci
PENSIONI/ Tra vecchiaia e anzianità, ecco il "ritocco" che serve all’Italia
SCENARIO/ Berlusconi-Bossi, l'ultima partita
Da una lettura frettolosa dei media - quella di gran parte dei telespettatori e dei lettori di giornali, tanto in Italia quanto all’estero - si trae l’impressione che il dibattito in corso da ieri in seno al Governo riguardi essenzialmente che risposta dare alle autorità europee in materia di riassetto della previdenza, ed in particolare di modifica di quella che in linguaggio tecnico viene chiamata “l’età normale” per passare dalla vita attiva alla quiescenza. Pur soltanto in materia di previdenza, il problema è più complesso, come correttamente sottolinea, in questa stessa pagina, Giuliano Cazzola.
Tuttavia quello che gli italiani, prima ancora dell’Unione Europea e degli stessi nostri partner in seno all’eurozona, si aspettano è un programma completo di rilancio dell’economia italiana. Attenti: non ci si attende un “libro dei sogni” come i piani quinquennali firmati da Giovanni Pieraccini all’inizio dell’esperienza politica di centro sinistra o un programma di priorità come quello dei programmi triennali di Giorgio La Malfa e Paolo Savona nei primi anni Ottanta.
Si vuole di meno ma anche di più: un provvedimento che incida nell’immediato sui nodi che bloccano la produttività (il principale male dell’economia reale) e riducano lo stock di debito pubblico (il freno alle politiche di crescita). Tali provvedimenti devono, poi, essere strutturati in modo da fornire il quadro per passare da una crescita rasoterra ad aumenti del Pil sul 2-2,5% quali sarebbero normali per un Paese a struttura demografica, prima ancora che produttiva, matura.
In questo contesto, le modifiche al sistema previdenziale (che dovrebbe riguardare, in primo luogo, l’introduzione del contributivo per tutti in modo ad incoraggiare a restare il più possibile sul mercato del lavoro) non sono che un tassello di uno schema più ampio che deve riguardare il debito pubblico, le privatizzazioni, i servizi pubblici, le liberalizzazioni e – come correttamente rammentato le autorità europee- un sistema giudiziario i cui tempi ed i cui modi non sono da Paese che vuole essere considerato civile e fare parte dell’UE e dell’eurozona.
In breve, l’UE non ha commissariato l’Italia ma offerto su un piatto d’argento a Governo e Parlamento la strategia da adottare per evitare una nuova recessione, uscire dalla trappola della crescita zero e rimettersi ad avanzare in linea con il suo potenziale.
Oggi 25 ottobre è giornata cruciale per constatare se le forze politiche (di governo e di opposizione) sanno cogliere questa opportunità o se la lasciano passare. Il nodo non è come rispondere all’UE. Ancora una volta, come Cassio diceva a Bruto, “il problema non è nelle nostre stelle ma in noi stessi”.
________________________________________
________________________________________
Giuseppe Pennisi
martedì 25 ottobre 2011
Un gruppo di pensionati
Approfondisci
PENSIONI/ Tra vecchiaia e anzianità, ecco il "ritocco" che serve all’Italia
SCENARIO/ Berlusconi-Bossi, l'ultima partita
Da una lettura frettolosa dei media - quella di gran parte dei telespettatori e dei lettori di giornali, tanto in Italia quanto all’estero - si trae l’impressione che il dibattito in corso da ieri in seno al Governo riguardi essenzialmente che risposta dare alle autorità europee in materia di riassetto della previdenza, ed in particolare di modifica di quella che in linguaggio tecnico viene chiamata “l’età normale” per passare dalla vita attiva alla quiescenza. Pur soltanto in materia di previdenza, il problema è più complesso, come correttamente sottolinea, in questa stessa pagina, Giuliano Cazzola.
Tuttavia quello che gli italiani, prima ancora dell’Unione Europea e degli stessi nostri partner in seno all’eurozona, si aspettano è un programma completo di rilancio dell’economia italiana. Attenti: non ci si attende un “libro dei sogni” come i piani quinquennali firmati da Giovanni Pieraccini all’inizio dell’esperienza politica di centro sinistra o un programma di priorità come quello dei programmi triennali di Giorgio La Malfa e Paolo Savona nei primi anni Ottanta.
Si vuole di meno ma anche di più: un provvedimento che incida nell’immediato sui nodi che bloccano la produttività (il principale male dell’economia reale) e riducano lo stock di debito pubblico (il freno alle politiche di crescita). Tali provvedimenti devono, poi, essere strutturati in modo da fornire il quadro per passare da una crescita rasoterra ad aumenti del Pil sul 2-2,5% quali sarebbero normali per un Paese a struttura demografica, prima ancora che produttiva, matura.
In questo contesto, le modifiche al sistema previdenziale (che dovrebbe riguardare, in primo luogo, l’introduzione del contributivo per tutti in modo ad incoraggiare a restare il più possibile sul mercato del lavoro) non sono che un tassello di uno schema più ampio che deve riguardare il debito pubblico, le privatizzazioni, i servizi pubblici, le liberalizzazioni e – come correttamente rammentato le autorità europee- un sistema giudiziario i cui tempi ed i cui modi non sono da Paese che vuole essere considerato civile e fare parte dell’UE e dell’eurozona.
In breve, l’UE non ha commissariato l’Italia ma offerto su un piatto d’argento a Governo e Parlamento la strategia da adottare per evitare una nuova recessione, uscire dalla trappola della crescita zero e rimettersi ad avanzare in linea con il suo potenziale.
Oggi 25 ottobre è giornata cruciale per constatare se le forze politiche (di governo e di opposizione) sanno cogliere questa opportunità o se la lasciano passare. Il nodo non è come rispondere all’UE. Ancora una volta, come Cassio diceva a Bruto, “il problema non è nelle nostre stelle ma in noi stessi”.
________________________________________
________________________________________
lunedì 24 ottobre 2011
Le chicche di Santa Cecilia in Quotidiano Arte 25 ottobre
martedì 25 ottobre 2011
Doppia inaugurazione
Le chicche di Santa Cecilia
Giuseppe Pennisi
Doppia inaugurazione all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: la sera del 21 ottobre, Bruno Campanella ha dato il via alla stagione cameristica 2011-2012 con un concerto dedicato a Franz Liszt, della cui nascita ricorre il bicentenario; il pomeriggio del 22 ottobre, Antonio Pappano ha iniziato la stagione sinfonica con la monumentale “Ottava” di Gustav Mahler, chiamata “sinfonia dei mille” per il numero di esecutori che richiede.
La stagione si annuncia densa di bacchette di prestigio internazionale e con un cartellone che coniuga tradizione con innovazione. Nell’occasione, l’Accademia di Santa Cecilia ha fatto due regali a chi ama la grande musica: un disco della sesta sinfonia di Mahler eseguita dai complessi dell’Accademia sotto la guida di Antonio Pappano, e un cofanetto che raccoglie esecuzioni di grandi maestri dal 1937 al giorno d’oggi: Bernardino Molinari, Victor De Sabata, Franco Ferrara, Guido Cantelli, John Barbirolli, Willy Ferrero, Fernando Previtali, Carlo Maria Giulini, Igor Markevitch, Wolfgang Sawallisch, Daniele Gatti, Giuseppe Sinopoli, Georges Prêtre, Myung-Whun Chung, Antonio Pappano.
Lo si può acquistare unicamente collegandosi al sito www.santacecilia.it
INDIETRO
Doppia inaugurazione
Le chicche di Santa Cecilia
Giuseppe Pennisi
Doppia inaugurazione all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: la sera del 21 ottobre, Bruno Campanella ha dato il via alla stagione cameristica 2011-2012 con un concerto dedicato a Franz Liszt, della cui nascita ricorre il bicentenario; il pomeriggio del 22 ottobre, Antonio Pappano ha iniziato la stagione sinfonica con la monumentale “Ottava” di Gustav Mahler, chiamata “sinfonia dei mille” per il numero di esecutori che richiede.
La stagione si annuncia densa di bacchette di prestigio internazionale e con un cartellone che coniuga tradizione con innovazione. Nell’occasione, l’Accademia di Santa Cecilia ha fatto due regali a chi ama la grande musica: un disco della sesta sinfonia di Mahler eseguita dai complessi dell’Accademia sotto la guida di Antonio Pappano, e un cofanetto che raccoglie esecuzioni di grandi maestri dal 1937 al giorno d’oggi: Bernardino Molinari, Victor De Sabata, Franco Ferrara, Guido Cantelli, John Barbirolli, Willy Ferrero, Fernando Previtali, Carlo Maria Giulini, Igor Markevitch, Wolfgang Sawallisch, Daniele Gatti, Giuseppe Sinopoli, Georges Prêtre, Myung-Whun Chung, Antonio Pappano.
Lo si può acquistare unicamente collegandosi al sito www.santacecilia.it
INDIETRO
LA SINFONIA DEI MILLE APRE SANTA CECILIA Il Riformista 25 ottobre
LA SINFONIA DEI MILLE APRE SANTA CECILIA
Beckmesser
Doppia inaugurazione all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: la sera del 21 ottobre, Bruno Campanella ha dato il via alla stagione cameristica 2011-2012 con un concerto dedicato a Franz Liszt , della cui nascita ricorre il bicentenario; il pomeriggio del 22 ottobre , Antonio Pappano ha iniziato la stagione sinfonica con la monumentale “Ottava” di Gustav Mahler, chiamata “sinfonia dei mille” per il numero di esecutori che richiede. Ci soffermiamo sulla sinfonica non perché le due partiture di Liszt (“il terzo anno di pellegrinaggio: Italia” e la “sonata in si minore”) quali lette da Campanella non siano importanti ma in quanto la “sinfonia dei mille” è una rarità proprio per l’impegno produttivo che richiede. In effetti, nei 103 dalla fondazione dell’orchestra sinfonica dell’Accademia , questa è solo la quinta volta che viene eseguita. Quest’anno nell’arco di poche settimane, è stato possibile ascoltarla in due distinte esecuzioni italiane: quella dei complessi della Rai e del Teatro Regio di Torino, guidati dalla bacchetta di Gianandrea Noseda all’inaugurazione del MiTo ed alla Sagra Malatestiana a Rimini (vedi Il Riformista del 2 settembre) e quella dei complessi di Santa Cecilia, potenziati con il “China National Chorus”, nel concerto del 22 replicato il 23 ed il 24 ottobre a sala esaurita da tempo.
Alla sua prima esecuzione mondiale ci sarebbero stati 1030 esecutori. A Torino, Rimini e Roma ce erano circa 450. A Roma in particolare, l’orchestra contava 150 elementi, il coro 300 ed i solisti erano 8. Un raffronto puntuale tra le due letture non è facile a ragione delle differenti condizioni in termini di acustica (piuttosto mediocre al Palazzo dei Congressi di Rimini, molto buone nella Sala Santa Cecilia, specialmente nella seconda metà della platea e nelle file centrali delle balconate). Noseda ha dato una lettura pittorica della partitura, mentre nella mani di Pappano, la “sinfonia” è una grande opera in un prologo (il Veni Creator della prima parte) ed un atto (la scena finale del Faust di Goethe nella seconda parte). Nella prima parte, il suono dell’orchestra e dell’immenso coro è stato più forte di quanto forse lo stesso Mahler intendesse, mentre nella seconda parte orchestra, cori e solisti hanno avuto il volume e le tinte giuste: dall’introduzione descrittiva alla definizione scultorea degli otto personaggi che danno corpo al dramma. Pappano è stato avvantaggiato dal poter disporre di solisti tutti di alto livello, nettamente migliori di quelli nell’esecuzione a Torino ed a Rimini. Tra gli otto, hanno spiccato Christopher Maltman (nel ruolo del Pater Ecstaticus), Manuela Uhl (Magna Peccatrix) e Sara Mingardo (Mulier Samaritana). Molto interessante anche il Doctor Marianus interpretato da Nikolai Schukoff. Hanno dato vita a veri e propri personaggi.
La stagione si annuncia densa di bacchette di prestigio internazionale e con un cartellone che coniuga tradizione con innovazione. Nell’occasione, l’Accademia di Santa Cecilia ha fatto due regali a chi ama la grande musica: un disco della sesta sinfonia di Mahler eseguita dai complessi dell’Accademia sotto la guida di Antonio Pappano, e un cofanetto che raccoglie esecuzioni di grandi maestri dal 1937 al giorno d’oggi: Bernardino Molinari, Victor De Sabata, Franco Ferrara, Guido Cantelli, John Barbirolli, Willy Ferrero, Fernando Previtali, Carlo Maria Giulini, Igor Markevitch, Wolfgang Sawallisch, Daniele Gatti, Giuseppe Sinopoli, Georges Prêtre, Myung-Whun Chung, Antonio Pappano Lo si può acquistare unicamente collegandosi al sito www.santacecilia.it .
.
Beckmesser
Doppia inaugurazione all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: la sera del 21 ottobre, Bruno Campanella ha dato il via alla stagione cameristica 2011-2012 con un concerto dedicato a Franz Liszt , della cui nascita ricorre il bicentenario; il pomeriggio del 22 ottobre , Antonio Pappano ha iniziato la stagione sinfonica con la monumentale “Ottava” di Gustav Mahler, chiamata “sinfonia dei mille” per il numero di esecutori che richiede. Ci soffermiamo sulla sinfonica non perché le due partiture di Liszt (“il terzo anno di pellegrinaggio: Italia” e la “sonata in si minore”) quali lette da Campanella non siano importanti ma in quanto la “sinfonia dei mille” è una rarità proprio per l’impegno produttivo che richiede. In effetti, nei 103 dalla fondazione dell’orchestra sinfonica dell’Accademia , questa è solo la quinta volta che viene eseguita. Quest’anno nell’arco di poche settimane, è stato possibile ascoltarla in due distinte esecuzioni italiane: quella dei complessi della Rai e del Teatro Regio di Torino, guidati dalla bacchetta di Gianandrea Noseda all’inaugurazione del MiTo ed alla Sagra Malatestiana a Rimini (vedi Il Riformista del 2 settembre) e quella dei complessi di Santa Cecilia, potenziati con il “China National Chorus”, nel concerto del 22 replicato il 23 ed il 24 ottobre a sala esaurita da tempo.
Alla sua prima esecuzione mondiale ci sarebbero stati 1030 esecutori. A Torino, Rimini e Roma ce erano circa 450. A Roma in particolare, l’orchestra contava 150 elementi, il coro 300 ed i solisti erano 8. Un raffronto puntuale tra le due letture non è facile a ragione delle differenti condizioni in termini di acustica (piuttosto mediocre al Palazzo dei Congressi di Rimini, molto buone nella Sala Santa Cecilia, specialmente nella seconda metà della platea e nelle file centrali delle balconate). Noseda ha dato una lettura pittorica della partitura, mentre nella mani di Pappano, la “sinfonia” è una grande opera in un prologo (il Veni Creator della prima parte) ed un atto (la scena finale del Faust di Goethe nella seconda parte). Nella prima parte, il suono dell’orchestra e dell’immenso coro è stato più forte di quanto forse lo stesso Mahler intendesse, mentre nella seconda parte orchestra, cori e solisti hanno avuto il volume e le tinte giuste: dall’introduzione descrittiva alla definizione scultorea degli otto personaggi che danno corpo al dramma. Pappano è stato avvantaggiato dal poter disporre di solisti tutti di alto livello, nettamente migliori di quelli nell’esecuzione a Torino ed a Rimini. Tra gli otto, hanno spiccato Christopher Maltman (nel ruolo del Pater Ecstaticus), Manuela Uhl (Magna Peccatrix) e Sara Mingardo (Mulier Samaritana). Molto interessante anche il Doctor Marianus interpretato da Nikolai Schukoff. Hanno dato vita a veri e propri personaggi.
La stagione si annuncia densa di bacchette di prestigio internazionale e con un cartellone che coniuga tradizione con innovazione. Nell’occasione, l’Accademia di Santa Cecilia ha fatto due regali a chi ama la grande musica: un disco della sesta sinfonia di Mahler eseguita dai complessi dell’Accademia sotto la guida di Antonio Pappano, e un cofanetto che raccoglie esecuzioni di grandi maestri dal 1937 al giorno d’oggi: Bernardino Molinari, Victor De Sabata, Franco Ferrara, Guido Cantelli, John Barbirolli, Willy Ferrero, Fernando Previtali, Carlo Maria Giulini, Igor Markevitch, Wolfgang Sawallisch, Daniele Gatti, Giuseppe Sinopoli, Georges Prêtre, Myung-Whun Chung, Antonio Pappano Lo si può acquistare unicamente collegandosi al sito www.santacecilia.it .
.
Le tre regine all'Opera, ma in un cinema Il Foglio 25 ottobre
Le tre regine all'Opera, ma in un cinema
Da qualche giorno l’opera si può vedere al cinema. Grazie alla tecnologia, infatti, è possibile assistere alla stagione del Metropolitan Opera di New York in diretta. Il programma è in funzione con successo già da quattro anni in 54 paesi (e in 1600 sale) tra cui Russia, Israele, Cina, Cipro, Repubblica Domenicana, Marocco, Slovenia e S. Thomas nelle Isole Vergini. Con l’Italia si aggiungono 42 grandi schermi. Per tutti i dettagli, basta andare al sito.
Perché l’Italia è rimasta sino a ora fuori? Da un lato i “teatri di tradizione”, quelli più piccoli e in gran misura di provincia, temevano la concorrenza tra una “Traviata” casereccia e uno spettacolo del Met. Da un altro, è nato il circuito solo italiano, quello dei micro-cinema, per lo più sale parrocchiali dismesse in piccoli centri che mostravano l’opera in diretta da teatri italiani oppure in dvd su grande schermo.
Ma chi difende l’esistente perde sempre. Nel caso specifico le esperienze del Met digitale negli altri paesi mostrano che lo strumento non fa perdere pubblico all’opera dal vivo, anzi ne porta di nuovo, giovane. Chi ha visto e ascoltato, per esempio, Anna Netrebko in digitale in “Anna Bolena” di Gaetano Donizetti (lo spettacolo inaugurale), vuole vederla dal vivo. In Italia, in questi ultimi anni, si sono viste di frequente le opere del cosiddetto “ciclo delle regine Tudor” di Donizetti, cioè “Anna Bolena” (Verona, Palermo, Trieste), “Maria Stuarda” (Roma, Macerata, Milano, Catania) e più raramente “Roberto Devereux” (Roma, Bergamo). Riascoltate in sequenza, l’una dopo l’altra, le tre “Regine” hanno una grande presa.
In Anna Bolena il virtuosismo vocale domina su una scrittura orchestrale a servizio della voce. E’ una delle opere che più hanno contribuito al successo di Maria Callas (che ne accentuava le tonalità gravi, per scolpire una personalità altamente drammatica) e di Monserrat Caballé (che invece puntava sugli acuti e presentava una Bolena quasi fragile). Nella versione del Metropolitan (edizione integrale di circa 3 ore e 45 minuti compreso un intervallo di mezz’ora), Anna Netrebko sceglie una strada molto simile a quella della Callas: è superba nel modo in cui ascende alle tonalità acute per discendere alle gravi.
La regia di David McVicar, le scene di Robert James, i costumi raffinatissimi di Jane Tiramani offrono uno spettacolo tradizionale ma grandioso. La tensione drammatica è accentuata dalla concertazione tesa di Marco Armiliato. Si era in un cinema dei Pairoli a Roma, ma grande emozione; il pubblico applaudiva come si fosse al Lincoln Center.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
Da qualche giorno l’opera si può vedere al cinema. Grazie alla tecnologia, infatti, è possibile assistere alla stagione del Metropolitan Opera di New York in diretta. Il programma è in funzione con successo già da quattro anni in 54 paesi (e in 1600 sale) tra cui Russia, Israele, Cina, Cipro, Repubblica Domenicana, Marocco, Slovenia e S. Thomas nelle Isole Vergini. Con l’Italia si aggiungono 42 grandi schermi. Per tutti i dettagli, basta andare al sito.
Perché l’Italia è rimasta sino a ora fuori? Da un lato i “teatri di tradizione”, quelli più piccoli e in gran misura di provincia, temevano la concorrenza tra una “Traviata” casereccia e uno spettacolo del Met. Da un altro, è nato il circuito solo italiano, quello dei micro-cinema, per lo più sale parrocchiali dismesse in piccoli centri che mostravano l’opera in diretta da teatri italiani oppure in dvd su grande schermo.
Ma chi difende l’esistente perde sempre. Nel caso specifico le esperienze del Met digitale negli altri paesi mostrano che lo strumento non fa perdere pubblico all’opera dal vivo, anzi ne porta di nuovo, giovane. Chi ha visto e ascoltato, per esempio, Anna Netrebko in digitale in “Anna Bolena” di Gaetano Donizetti (lo spettacolo inaugurale), vuole vederla dal vivo. In Italia, in questi ultimi anni, si sono viste di frequente le opere del cosiddetto “ciclo delle regine Tudor” di Donizetti, cioè “Anna Bolena” (Verona, Palermo, Trieste), “Maria Stuarda” (Roma, Macerata, Milano, Catania) e più raramente “Roberto Devereux” (Roma, Bergamo). Riascoltate in sequenza, l’una dopo l’altra, le tre “Regine” hanno una grande presa.
In Anna Bolena il virtuosismo vocale domina su una scrittura orchestrale a servizio della voce. E’ una delle opere che più hanno contribuito al successo di Maria Callas (che ne accentuava le tonalità gravi, per scolpire una personalità altamente drammatica) e di Monserrat Caballé (che invece puntava sugli acuti e presentava una Bolena quasi fragile). Nella versione del Metropolitan (edizione integrale di circa 3 ore e 45 minuti compreso un intervallo di mezz’ora), Anna Netrebko sceglie una strada molto simile a quella della Callas: è superba nel modo in cui ascende alle tonalità acute per discendere alle gravi.
La regia di David McVicar, le scene di Robert James, i costumi raffinatissimi di Jane Tiramani offrono uno spettacolo tradizionale ma grandioso. La tensione drammatica è accentuata dalla concertazione tesa di Marco Armiliato. Si era in un cinema dei Pairoli a Roma, ma grande emozione; il pubblico applaudiva come si fosse al Lincoln Center.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
Le quattro mosse per riportare l’Italia agli anni del boom Il Sussidiario 24 ottobre
FINANZA/ Le quattro mosse per riportare l’Italia agli anni del boom
Giuseppe Pennisi
lunedì 24 ottobre 2011
Foto Imagoeconomica
Approfondisci
FINANZA/ Bertone: c’è un’Italia che sorpassa i big del mondo
J'ACCUSE/ Vignali: c'è un'anomalia italiana che frena le imprese (e lo Stato)
vai al dossier Crisi o ripresa?
Non è l’Europa a chiederci di fare presto e bene per rimettere in modo lo sviluppo dopo quindici anni di crescita zero o rasoterra. Siamo noi stessi a doverlo esigere. Tutti gli italiani. Abbiamo perso la grande occasione offertaci nell’agosto 1992, quando i mercati ci mostravano la necessità di consolidare il debito pubblico prima di entrare nella moneta unica. Ora con uno stock di debito pubblico che supera di gran lunga l’87% del Pil (la stima più recente della “soglia” oltre la quale il debito diventa un forte freno alla crescita), e privi di sovranità monetaria (l’abbiamo trasferita alla Banca centrale europea), toglierci di dosso il macigno è molto più arduo; in effetti, non esistono studi di rilievo che dimostrino come si possa consolidare il debito di uno Stato che appartiene, sotto il profilo della moneta, a un’unione di Stati. La bozza di Decreto sviluppo di circa 140 articoli che circola in questi giorni non prevede nulla in proposito.
Nelle ultime settimane, su ilsussidiario.net sono state delineate varie misure per rimettersi sul sentiero dello sviluppo. Sabato scorso, in un seminario nella sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, la discussione del libro di Franco Reviglio “Goodbye Keynes? Le riforme per tornare a crescere”, proprio mentre da Bruxelles e dalla riunione dei giovani industriali a Capri (nonché dallo stesso Quirinale) giungevano inviti a “fare presto”, è stata lo stimolo per un dibattito su questi temi tra economisti di varie scuole di pensiero, oltre che considerati contigui a varie parti dello schieramento politico. Non voglio fare la sintesi di quanto già detto, ma sulla base delle analisi precedenti e del dibattito del 22 ottobre, si possono indicare le quattro mosse per rimetterci a crescere.
La prima deve riguardare il debito pubblico. Pensare di ridurlo alle dimensioni appropriate, con il pareggio di bilancio e una serie di saldi primari attivi, è un’illusione che ci porterebbe alla recessione permanente: nei 150 anni dall’Unità d’Italia, il rapporto tra stock di debito pubblico e il Pil ha superato il 60% (a cui ci siamo impegnati) in ben 111 anni. Tutte le volte che siamo stati costretti a ridurlo (nel Secondo dopoguerra siamo passati dal 120% al 25% nel giro di pochi anni) lo abbiamo fatto o con alti tassi d’inflazione o con forte crescita o con operazioni di finanza straordinaria. Per la prima strada, ci manca la leva essenziale: la sovranità monetaria. Per la seconda ci blocca la bassa produttività multifattoriale. Il varo di un’imposta patrimoniale verrebbe letto dai mercati come il preludio della bancarotta. L’unica via realisticamente percorribile allora è la costituzione di un “fondo taglia-debito”, secondo le linee esposte su queste pagine il 3 ottobre. Ciò vuol dire dare priorità alla riduzione dello stock del debito anche rispetto al raggiungimento del pareggio di bilancio.
La misura è essenziale, e per come delineata, comporta pure un rilancio delle privatizzazioni, ma da sola non è risolutiva. Deve essere accompagnata da liberalizzazioni e delegificazioni reali non da piccoli passi quali le pagelle elettroniche e i biglietti dell’autobus telematici. Le riforme che mordono - dal “big bang” delle liberalizzazioni e delle semplificazioni alla revisione della normativa previdenziale - devono essere fatte tutte simulatamente con un decreto di pochi articoli per mostrare a noi stessi e al resto del mondo che il passo è cambiato e che non siamo più prigionieri di gruppi corporativi che, per la salvaguardia dei loro interessi, hanno bloccato la crescita e danneggiato le nuove generazioni e ancora di più quelle future.
Riusciranno le quattro mosse (riduzione del debito, privatizzazioni, liberalizzazioni e delegificazione, riassetto della previdenza) a rimetterci a crescere? In passato, il rilancio della crescita è sempre stato accompagnato da misure relative al tasso di cambio - oggi non più possibili. La “grande inflazione” pilotata da Einaudi dei primi anni del Secondo dopoguerra venne accompagnata da una forte svalutazione anch’essa gestita da Einaudi. Insieme furono la premessa di un quarto di secolo di crescita perché l’Italia disponeva (lo hanno documentato parallelamente economisti profondamente differenti - e che non conoscevano l’uno i lavori dell’altro - come Kindleberger e Janossy) di una ricca dotazione di capitale umano che si è tradotta in alta produttività del lavoro. Pochi ricordano che negli anni Cinquanta delegazioni di altri paesi europei vennero a studiare il nostro sistema di istruzione e di formazione e che negli anni Sessanta l’Ocse gestì un vasto progetto (il “Progetto regionale Mediterraneo”) per individuare come le lezioni dell’alta produttività del lavoro in Italia potessero essere metabolizzate non solo da Grecia, Spagna e Portogallo, ma anche dalla Francia. Il saggio di Franco Reviglio documenta come, al contrario, da quindici anni la produttività del lavoro sia tra le più basse di quelle riscontrate dai Paesi Ocse.
Le quattro mosse per lo sviluppo possono fornire la cornice per azioni (dirette a promuovere una più alta produttività del lavoro) da parte delle imprese, dei sindacati, delle associazioni e agenzie di promozione sociale. In caso contrario, riduzione dello stock di debito, privatizzazioni, liberalizzazioni, delegificazione e riassetto della previdenza rischiano di incidere meno di quello che potrebbero e di avere costi sociali superiori ai benefici alla collettività. Lo Stato non può fare tutto. Ci deve bastare che fornisca la cornice corretta. Al resto deve pensare ciascuno
Giuseppe Pennisi
lunedì 24 ottobre 2011
Foto Imagoeconomica
Approfondisci
FINANZA/ Bertone: c’è un’Italia che sorpassa i big del mondo
J'ACCUSE/ Vignali: c'è un'anomalia italiana che frena le imprese (e lo Stato)
vai al dossier Crisi o ripresa?
Non è l’Europa a chiederci di fare presto e bene per rimettere in modo lo sviluppo dopo quindici anni di crescita zero o rasoterra. Siamo noi stessi a doverlo esigere. Tutti gli italiani. Abbiamo perso la grande occasione offertaci nell’agosto 1992, quando i mercati ci mostravano la necessità di consolidare il debito pubblico prima di entrare nella moneta unica. Ora con uno stock di debito pubblico che supera di gran lunga l’87% del Pil (la stima più recente della “soglia” oltre la quale il debito diventa un forte freno alla crescita), e privi di sovranità monetaria (l’abbiamo trasferita alla Banca centrale europea), toglierci di dosso il macigno è molto più arduo; in effetti, non esistono studi di rilievo che dimostrino come si possa consolidare il debito di uno Stato che appartiene, sotto il profilo della moneta, a un’unione di Stati. La bozza di Decreto sviluppo di circa 140 articoli che circola in questi giorni non prevede nulla in proposito.
Nelle ultime settimane, su ilsussidiario.net sono state delineate varie misure per rimettersi sul sentiero dello sviluppo. Sabato scorso, in un seminario nella sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, la discussione del libro di Franco Reviglio “Goodbye Keynes? Le riforme per tornare a crescere”, proprio mentre da Bruxelles e dalla riunione dei giovani industriali a Capri (nonché dallo stesso Quirinale) giungevano inviti a “fare presto”, è stata lo stimolo per un dibattito su questi temi tra economisti di varie scuole di pensiero, oltre che considerati contigui a varie parti dello schieramento politico. Non voglio fare la sintesi di quanto già detto, ma sulla base delle analisi precedenti e del dibattito del 22 ottobre, si possono indicare le quattro mosse per rimetterci a crescere.
La prima deve riguardare il debito pubblico. Pensare di ridurlo alle dimensioni appropriate, con il pareggio di bilancio e una serie di saldi primari attivi, è un’illusione che ci porterebbe alla recessione permanente: nei 150 anni dall’Unità d’Italia, il rapporto tra stock di debito pubblico e il Pil ha superato il 60% (a cui ci siamo impegnati) in ben 111 anni. Tutte le volte che siamo stati costretti a ridurlo (nel Secondo dopoguerra siamo passati dal 120% al 25% nel giro di pochi anni) lo abbiamo fatto o con alti tassi d’inflazione o con forte crescita o con operazioni di finanza straordinaria. Per la prima strada, ci manca la leva essenziale: la sovranità monetaria. Per la seconda ci blocca la bassa produttività multifattoriale. Il varo di un’imposta patrimoniale verrebbe letto dai mercati come il preludio della bancarotta. L’unica via realisticamente percorribile allora è la costituzione di un “fondo taglia-debito”, secondo le linee esposte su queste pagine il 3 ottobre. Ciò vuol dire dare priorità alla riduzione dello stock del debito anche rispetto al raggiungimento del pareggio di bilancio.
La misura è essenziale, e per come delineata, comporta pure un rilancio delle privatizzazioni, ma da sola non è risolutiva. Deve essere accompagnata da liberalizzazioni e delegificazioni reali non da piccoli passi quali le pagelle elettroniche e i biglietti dell’autobus telematici. Le riforme che mordono - dal “big bang” delle liberalizzazioni e delle semplificazioni alla revisione della normativa previdenziale - devono essere fatte tutte simulatamente con un decreto di pochi articoli per mostrare a noi stessi e al resto del mondo che il passo è cambiato e che non siamo più prigionieri di gruppi corporativi che, per la salvaguardia dei loro interessi, hanno bloccato la crescita e danneggiato le nuove generazioni e ancora di più quelle future.
Riusciranno le quattro mosse (riduzione del debito, privatizzazioni, liberalizzazioni e delegificazione, riassetto della previdenza) a rimetterci a crescere? In passato, il rilancio della crescita è sempre stato accompagnato da misure relative al tasso di cambio - oggi non più possibili. La “grande inflazione” pilotata da Einaudi dei primi anni del Secondo dopoguerra venne accompagnata da una forte svalutazione anch’essa gestita da Einaudi. Insieme furono la premessa di un quarto di secolo di crescita perché l’Italia disponeva (lo hanno documentato parallelamente economisti profondamente differenti - e che non conoscevano l’uno i lavori dell’altro - come Kindleberger e Janossy) di una ricca dotazione di capitale umano che si è tradotta in alta produttività del lavoro. Pochi ricordano che negli anni Cinquanta delegazioni di altri paesi europei vennero a studiare il nostro sistema di istruzione e di formazione e che negli anni Sessanta l’Ocse gestì un vasto progetto (il “Progetto regionale Mediterraneo”) per individuare come le lezioni dell’alta produttività del lavoro in Italia potessero essere metabolizzate non solo da Grecia, Spagna e Portogallo, ma anche dalla Francia. Il saggio di Franco Reviglio documenta come, al contrario, da quindici anni la produttività del lavoro sia tra le più basse di quelle riscontrate dai Paesi Ocse.
Le quattro mosse per lo sviluppo possono fornire la cornice per azioni (dirette a promuovere una più alta produttività del lavoro) da parte delle imprese, dei sindacati, delle associazioni e agenzie di promozione sociale. In caso contrario, riduzione dello stock di debito, privatizzazioni, liberalizzazioni, delegificazione e riassetto della previdenza rischiano di incidere meno di quello che potrebbero e di avere costi sociali superiori ai benefici alla collettività. Lo Stato non può fare tutto. Ci deve bastare che fornisca la cornice corretta. Al resto deve pensare ciascuno
domenica 23 ottobre 2011
Roma e Torino: tutti pazzi per La Bayadère Quotidiano Arte 24 ottobre
lunedì 24 ottobre 2011
A Torino fino al 25 ottbre. A Roma fino al 30 ottobre
Roma e Torino: tutti pazzi per La Bayadère
Giuseppe Pennisi
È in scena, contemporaneamente a Roma (dal 19 al 30 ottobre) e a Torino (dal 21 o al 25 ottobre) La Bayadère, balletto in tre atti di Ludwig Minkus. A Roma lo presentano i complessi del Teatro dell’Opera con étoiles russe e ucraine in un allestimento del Teatro Nazionale sloveno di Malibor. A Torino il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. È uno dei balletti più frequenti non solo in Russia ma anche a Londra, Parigi, New York e alla Scala anche in quanto è spettacolare e acrobatico.
Tre le considerazioni principali:
a) il lavoro è tratto da un lungo poema indiano che ispirò molte opere e balletti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (tra cui Sukantula di Franco Alfano riproposta nella capitale nel 2006);
b) nonostante il nome tedesco, Minkus, nato in quella che oggi è la Repubblica Cèca, è stato dal 1870 al 1917 uno dei maggiori esponenti della musica per teatro della Russia Imperiale;
c) La Bayadère è uno dei rari balletti che richiede due prime ballerine di pari abilità.
Interessante il confronto con Sukantula del 1921 (La Bayadère è del 1877). Straussiano il lavoro di Alfano che fu un grande successo in Italia, in Germania e in America Latina, mentre è marcatamente tardo-romantico quello di Minkus, indicazione quasi del crepuscolo della musica russa “di stile occidentale” (ad esempio, quella di Tchaikovsky) nel periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Siamo a sinfonismo coreografico tanto che l’“andante” della terza parte viene sovente eseguito in concerti. In breve, l’India quale percepita da Minkus non ha il profumo del decadentismo che pervade la scrittura di Alfano sul medesimo argomento.
Semplice e un po’ kitsch l’allestimento sloveno romano. Tradizionale quello russo a Torino.
Il pubblico, però, gradisce alla grande.
A Torino fino al 25 ottbre. A Roma fino al 30 ottobre
Roma e Torino: tutti pazzi per La Bayadère
Giuseppe Pennisi
È in scena, contemporaneamente a Roma (dal 19 al 30 ottobre) e a Torino (dal 21 o al 25 ottobre) La Bayadère, balletto in tre atti di Ludwig Minkus. A Roma lo presentano i complessi del Teatro dell’Opera con étoiles russe e ucraine in un allestimento del Teatro Nazionale sloveno di Malibor. A Torino il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. È uno dei balletti più frequenti non solo in Russia ma anche a Londra, Parigi, New York e alla Scala anche in quanto è spettacolare e acrobatico.
Tre le considerazioni principali:
a) il lavoro è tratto da un lungo poema indiano che ispirò molte opere e balletti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (tra cui Sukantula di Franco Alfano riproposta nella capitale nel 2006);
b) nonostante il nome tedesco, Minkus, nato in quella che oggi è la Repubblica Cèca, è stato dal 1870 al 1917 uno dei maggiori esponenti della musica per teatro della Russia Imperiale;
c) La Bayadère è uno dei rari balletti che richiede due prime ballerine di pari abilità.
Interessante il confronto con Sukantula del 1921 (La Bayadère è del 1877). Straussiano il lavoro di Alfano che fu un grande successo in Italia, in Germania e in America Latina, mentre è marcatamente tardo-romantico quello di Minkus, indicazione quasi del crepuscolo della musica russa “di stile occidentale” (ad esempio, quella di Tchaikovsky) nel periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Siamo a sinfonismo coreografico tanto che l’“andante” della terza parte viene sovente eseguito in concerti. In breve, l’India quale percepita da Minkus non ha il profumo del decadentismo che pervade la scrittura di Alfano sul medesimo argomento.
Semplice e un po’ kitsch l’allestimento sloveno romano. Tradizionale quello russo a Torino.
Il pubblico, però, gradisce alla grande.
sabato 22 ottobre 2011
Il Festival di Roma che riesce a conquistare i giovani in Il Sussidiario 22 ottobre
MUSICA SACRA/ Il Festival di Roma che riesce a conquistare i giovani
Giuseppe Pennisi
sabato 22 ottobre 2011
La basilica di San Pietro (Imagoeconomica)
Approfondisci
FESTIVAL VERDI/ Falstaff, farsa e divertimento al Teatro Farnese di G. Pennisi
OPERA/ L'Elektra di Strauss si riscopre dramma cristiano di G. Pennisi
L'Italia è un BelPaese pieno di contraddizioni. Da un lato, nella preparazione della legge di stabilità c’è stato un tentativo di ridurre ulteriormente il contributo dello Stato alle scuole paritarie (non solo cattoliche) e di abolire l’8 per mille destinato al finanziamento delle attività di culto (non solo cattolico), nonché a scopi sociali quali definiti dallo Stato. Da un altro, è in atto quello che gli esperti di media chiamerebbero un vero e proprio boom della musica sacra o spirituale. Un successo, inoltre, particolarmente significativo tra i giovani che hanno ripreso ad affollare chiese ed auditori dove sono in programma concerti di musica sacra o spirituale.
Della Sagra musicale umbra abbiamo riferito il 9 settembre. E’ appena terminato, nel complesso monumentale della Cattedrale di Pisa, il festival di musica sacra intitolato, eloquentemente, Harmonia Mundi. Un vasto dittico mahleriano la Sinfonia dei Mille, nella prima parte il Veni Creator e nella seconda l’ultima scena del Faust di Goethe inaugurerà il 22 ottobre la stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Il vero grande evento di musica (ed arte) sacra è in calendario a Roma: la decima edizione del Festival internazionale di Musica e Arte che porta la grande musica nelle basiliche romane in cui quest’anno l’orchestra in residence sono i Wiener Philharmoniker.
Dal 26 ottobre al 6 novembre saranno sei i concerti e due le messe accompagnate musicalmente in programma nelle quattro basiliche patriarcali romane - San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura e Santa Maria Maggiore - e in quella di Sant’Ignazio in Campo Marzio, con la partecipazione di quattro cori, quattro orchestre, sette direttori d’orchestra e ben venti solisti. Nel periodo del festival saranno, per la prima volta, aperti al pubblico gli ultimi restauri sostenuti dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra il Mausoleo PHI o dei Marci nelle Grotte Vaticane. Numerosi gli interventi di restauro svolti dalla Fondazione per il recupero di importanti beni artistici: a Roma, nelle Basiliche di San Pietro, Paolo fuori le Mura, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, Sant’Ignazio di Loyola, al Pontificio Istituto di Musica Sacra, nella Necropoli Vaticana, nel Palazzo Apostolico in Vaticano; a Loreto, al Pontificio Santuario della Santa Casa di Loreto.
Roma
Recentemente la Fondazione ha sostenuto presso la Fabbrica di San Pietro i lavori di restauro del prospetto meridionale della Basilica Vaticana e del Mausoleo dei Phi detto dei Marci nella Necropoli Vaticana.
I Wiener Philharmoniker terranno un concerto in San Paolo fuori le mura giovedì 27 ottobre diretti da Georges Prêtre. A loro si affiancano in questa edizione l'Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, per la prima volta ospite del Festival, l'Orchestra della Cappella Ludovicea e i Tölzer Knabenchor, uno dei cori di voci bianche più famoso al mondo. Inizia, inoltre, da quest'anno la collaborazione con il Teatro dell'Opera di Roma, i cui complessi artistici saranno presenti nel concerto del 5 novembre. Come ogni anno, il programma del festival si apre con la Santa Messa celebrata in San Pietro mercoledì 26 ottobre alle ore 17 dal Cardinale Angelo Comastri, Arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano e Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano. Per partecipare ai concerti, per motivi di sicurezza è necessario avere un coupon di ingresso, gratuito. I coupon per i concerti possono essere ritirati - fino ad esaurimento - nei giorni di sabato 22 e domenica 23 ottobre con orario: 11.00-13.00 / 14.00-18.00 presso Palazzo Cardinal Cesi in via della Conciliazione 51 a Roma. Saranno riservati alcuni settori per i sostenitori e gli ospiti della Fondazione. Per informazioni su come diventare sostenitore, partecipare alle attività istituzionali della Fondazione e avere così assicurato il posto riservato a tutti i concerti del Festival, chiamare il numero 06-6869187 oppure visitare i siti www.festivalmusicaeartesacra.net; www.fondazionepromusicaeartesacra.net.
________________________________________
Giuseppe Pennisi
sabato 22 ottobre 2011
La basilica di San Pietro (Imagoeconomica)
Approfondisci
FESTIVAL VERDI/ Falstaff, farsa e divertimento al Teatro Farnese di G. Pennisi
OPERA/ L'Elektra di Strauss si riscopre dramma cristiano di G. Pennisi
L'Italia è un BelPaese pieno di contraddizioni. Da un lato, nella preparazione della legge di stabilità c’è stato un tentativo di ridurre ulteriormente il contributo dello Stato alle scuole paritarie (non solo cattoliche) e di abolire l’8 per mille destinato al finanziamento delle attività di culto (non solo cattolico), nonché a scopi sociali quali definiti dallo Stato. Da un altro, è in atto quello che gli esperti di media chiamerebbero un vero e proprio boom della musica sacra o spirituale. Un successo, inoltre, particolarmente significativo tra i giovani che hanno ripreso ad affollare chiese ed auditori dove sono in programma concerti di musica sacra o spirituale.
Della Sagra musicale umbra abbiamo riferito il 9 settembre. E’ appena terminato, nel complesso monumentale della Cattedrale di Pisa, il festival di musica sacra intitolato, eloquentemente, Harmonia Mundi. Un vasto dittico mahleriano la Sinfonia dei Mille, nella prima parte il Veni Creator e nella seconda l’ultima scena del Faust di Goethe inaugurerà il 22 ottobre la stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Il vero grande evento di musica (ed arte) sacra è in calendario a Roma: la decima edizione del Festival internazionale di Musica e Arte che porta la grande musica nelle basiliche romane in cui quest’anno l’orchestra in residence sono i Wiener Philharmoniker.
Dal 26 ottobre al 6 novembre saranno sei i concerti e due le messe accompagnate musicalmente in programma nelle quattro basiliche patriarcali romane - San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le Mura e Santa Maria Maggiore - e in quella di Sant’Ignazio in Campo Marzio, con la partecipazione di quattro cori, quattro orchestre, sette direttori d’orchestra e ben venti solisti. Nel periodo del festival saranno, per la prima volta, aperti al pubblico gli ultimi restauri sostenuti dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra il Mausoleo PHI o dei Marci nelle Grotte Vaticane. Numerosi gli interventi di restauro svolti dalla Fondazione per il recupero di importanti beni artistici: a Roma, nelle Basiliche di San Pietro, Paolo fuori le Mura, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, Sant’Ignazio di Loyola, al Pontificio Istituto di Musica Sacra, nella Necropoli Vaticana, nel Palazzo Apostolico in Vaticano; a Loreto, al Pontificio Santuario della Santa Casa di Loreto.
Roma
Recentemente la Fondazione ha sostenuto presso la Fabbrica di San Pietro i lavori di restauro del prospetto meridionale della Basilica Vaticana e del Mausoleo dei Phi detto dei Marci nella Necropoli Vaticana.
I Wiener Philharmoniker terranno un concerto in San Paolo fuori le mura giovedì 27 ottobre diretti da Georges Prêtre. A loro si affiancano in questa edizione l'Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, per la prima volta ospite del Festival, l'Orchestra della Cappella Ludovicea e i Tölzer Knabenchor, uno dei cori di voci bianche più famoso al mondo. Inizia, inoltre, da quest'anno la collaborazione con il Teatro dell'Opera di Roma, i cui complessi artistici saranno presenti nel concerto del 5 novembre. Come ogni anno, il programma del festival si apre con la Santa Messa celebrata in San Pietro mercoledì 26 ottobre alle ore 17 dal Cardinale Angelo Comastri, Arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano e Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano. Per partecipare ai concerti, per motivi di sicurezza è necessario avere un coupon di ingresso, gratuito. I coupon per i concerti possono essere ritirati - fino ad esaurimento - nei giorni di sabato 22 e domenica 23 ottobre con orario: 11.00-13.00 / 14.00-18.00 presso Palazzo Cardinal Cesi in via della Conciliazione 51 a Roma. Saranno riservati alcuni settori per i sostenitori e gli ospiti della Fondazione. Per informazioni su come diventare sostenitore, partecipare alle attività istituzionali della Fondazione e avere così assicurato il posto riservato a tutti i concerti del Festival, chiamare il numero 06-6869187 oppure visitare i siti www.festivalmusicaeartesacra.net; www.fondazionepromusicaeartesacra.net.
________________________________________
venerdì 21 ottobre 2011
LIRICA, MAHLER E “BACCHETTE” DOC: I REGALI DI S.CECILIA AI MELOMANI Il Velino 22 ottobre
LIRICA, MAHLER E “BACCHETTE” DOC: I REGALI DI S.CECILIA AI MELOMANI
Roma - L’Accademia inaugura nel fine settimana la stagione concertistica. E in contemporanea pubblica un disco con la sesta di Mahler e un cofanetto a tiratura limitata con alcune delle migliori esecuzioni dal ’37 a oggi
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Questo fine settimana salpa con due grandi concerti, una sinfonico dedicato a Mahler e uno cameristico dedicato a Liszt, la stagione 2011-2012 dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia. In occasione dell’inaugurazione, i saranno due regali per tutti coloro che amano la grande musica. Il primo è un dico della Emi che da qualche giorno è in tutti i maggiori negozi di classica italiani ed esteri: la sesta sinfonia di Mahler eseguita dai complessi dell’Accademia sotto la guida di Antonio Pappano. Il secondo è un cofanetto prezioso di otto dischi a distribuzione limitata e che si può acquistare unicamente collegandosi al sito www.santacecilia.it. Raccoglie esecuzioni dell’orchestra sinfonica di grandi maestri dal 1937 al giorno d’oggi: Bernardino Molinari, Victor De Sabata, Franco Ferrara, Guido Cantelli, John Barbirolli, Willy Ferrero, Fernando Previtali, Carlo Maria Giulini, Igor Markevitch, Wolfgang Sawallisch, Daniele Gatti, Giuseppe Sinopoli, Georges Prêtre, Myung-Whun Chung, Antonio Pappano. Sono registrazioni dal vivo, la cui qualità evolve di pari passo con la tecnica. Negli archivi dell’Accademia esistono registrazioni molto più antiche, ma la qualità di riproduzione del suono non è stata giudicata all’altezza. Lo sarà forse in futuro man mano che le tecniche di rimasterizzazione evolvono. Rappresenta, comunque, non solo un chicca per collezionisti ma un modo per toccare con mano i differenti stili ed approcci. Quindi uno strumento essenziale per tutti coloro, tanto in Italia quanto all’estero, che seguono la sinfonica.
Ma la pubblicazione di questo cofanetto è anche un modo per toccare con mano le radici di un’istituzione molto antica. L’Accademia venne istituita da Papa Sisto V nel 1585. La creazione di una formazione dedicata interamente alla sinfonica (e ora anche al teatro in musica in edizioni semi-sceniche) rappresentava un’assoluta novità nel panorama italiana dell’inizio del Novecento, quando grande delle orchestre erano quelle dei teatri d’opera. Solo più tardi vennero costituite le orchestre dell’Eiar prima e della Rai poi, oggi confluite nell’Orchestra sinfonica nazionale di Torino. Adesso, la sinfonica di Santa cecilia da ottobre a giugno attira circa diecimila spettatori la settimana, per ascoltare la grande musica con programmi che coniugano il repertorio classico con il Novecento e nelle sale più piccole del complesso si spingono all’avanguardia.
Nel febbraio 1908 Roma inaugurava, alle 16 del pomeriggio, una delle più grandi sale da concerto del mondo: l’Augusteo, con 3500 posti. Svettava sul cocuzzolo del Mausoleo di Augusto (ora piazza Augusto Imperatore) e altro non era che l’anfiteatro Corea (dal nome della famiglia proprietaria), ricoperto e ristrutturato. Anfiteatro Corea e Augusteo sono stati demoliti. Secondo l’uso dell’epoca, il programma del concerto inaugurate (replicato oggi con la bacchetta di Antonio Pappano), era eterogeneo: coniugava “classici” come la sinfonia de “L’Assedio di Corinto” di Rossini, l’Eroica di Beethoven, parte di una Sonata di Mozart, con l’ouverture del “Tannhäuser” ed il “mormorio della foresta” di Wagner – musica allora considerata innovativa. La ricchezza del cofanetto è lo specchio della ricchezza del cartellone offerto quest’anno che porta grandi bacchette e grandi complessi cameristici accanto a giovani emergenti che hanno già dato buona prova. (ilVelino/AGV NEWS)
(G. Pennisi) 21 Ottobre 2011 17:13
Roma - L’Accademia inaugura nel fine settimana la stagione concertistica. E in contemporanea pubblica un disco con la sesta di Mahler e un cofanetto a tiratura limitata con alcune delle migliori esecuzioni dal ’37 a oggi
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Questo fine settimana salpa con due grandi concerti, una sinfonico dedicato a Mahler e uno cameristico dedicato a Liszt, la stagione 2011-2012 dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia. In occasione dell’inaugurazione, i saranno due regali per tutti coloro che amano la grande musica. Il primo è un dico della Emi che da qualche giorno è in tutti i maggiori negozi di classica italiani ed esteri: la sesta sinfonia di Mahler eseguita dai complessi dell’Accademia sotto la guida di Antonio Pappano. Il secondo è un cofanetto prezioso di otto dischi a distribuzione limitata e che si può acquistare unicamente collegandosi al sito www.santacecilia.it. Raccoglie esecuzioni dell’orchestra sinfonica di grandi maestri dal 1937 al giorno d’oggi: Bernardino Molinari, Victor De Sabata, Franco Ferrara, Guido Cantelli, John Barbirolli, Willy Ferrero, Fernando Previtali, Carlo Maria Giulini, Igor Markevitch, Wolfgang Sawallisch, Daniele Gatti, Giuseppe Sinopoli, Georges Prêtre, Myung-Whun Chung, Antonio Pappano. Sono registrazioni dal vivo, la cui qualità evolve di pari passo con la tecnica. Negli archivi dell’Accademia esistono registrazioni molto più antiche, ma la qualità di riproduzione del suono non è stata giudicata all’altezza. Lo sarà forse in futuro man mano che le tecniche di rimasterizzazione evolvono. Rappresenta, comunque, non solo un chicca per collezionisti ma un modo per toccare con mano i differenti stili ed approcci. Quindi uno strumento essenziale per tutti coloro, tanto in Italia quanto all’estero, che seguono la sinfonica.
Ma la pubblicazione di questo cofanetto è anche un modo per toccare con mano le radici di un’istituzione molto antica. L’Accademia venne istituita da Papa Sisto V nel 1585. La creazione di una formazione dedicata interamente alla sinfonica (e ora anche al teatro in musica in edizioni semi-sceniche) rappresentava un’assoluta novità nel panorama italiana dell’inizio del Novecento, quando grande delle orchestre erano quelle dei teatri d’opera. Solo più tardi vennero costituite le orchestre dell’Eiar prima e della Rai poi, oggi confluite nell’Orchestra sinfonica nazionale di Torino. Adesso, la sinfonica di Santa cecilia da ottobre a giugno attira circa diecimila spettatori la settimana, per ascoltare la grande musica con programmi che coniugano il repertorio classico con il Novecento e nelle sale più piccole del complesso si spingono all’avanguardia.
Nel febbraio 1908 Roma inaugurava, alle 16 del pomeriggio, una delle più grandi sale da concerto del mondo: l’Augusteo, con 3500 posti. Svettava sul cocuzzolo del Mausoleo di Augusto (ora piazza Augusto Imperatore) e altro non era che l’anfiteatro Corea (dal nome della famiglia proprietaria), ricoperto e ristrutturato. Anfiteatro Corea e Augusteo sono stati demoliti. Secondo l’uso dell’epoca, il programma del concerto inaugurate (replicato oggi con la bacchetta di Antonio Pappano), era eterogeneo: coniugava “classici” come la sinfonia de “L’Assedio di Corinto” di Rossini, l’Eroica di Beethoven, parte di una Sonata di Mozart, con l’ouverture del “Tannhäuser” ed il “mormorio della foresta” di Wagner – musica allora considerata innovativa. La ricchezza del cofanetto è lo specchio della ricchezza del cartellone offerto quest’anno che porta grandi bacchette e grandi complessi cameristici accanto a giovani emergenti che hanno già dato buona prova. (ilVelino/AGV NEWS)
(G. Pennisi) 21 Ottobre 2011 17:13
giovedì 20 ottobre 2011
“LA BAYADÈRE” ARRIVA A ROMA in Il Riformista 21 ottobre
“LA BAYADÈRE” ARRIVA A ROMA
Beckmesser
E’ in scena contemporaneamente a Roma (sino al 30 ottobre) ed a Torino (sino al 25 ottobre) La Bayadère”, balletto in tre atti di Ludwig Minkus . A Roma lo presentano i complessi del Teatro dell’Opera con étoiles russe ed ucraine in un allestimento del Teatro Nazionale sloveno di Malibor. A Torino il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. E’ la prima volta che ) La Bayadère approda al Teatro dell’Opera (si era visto oltre trent’anni fa alle Terme di Caracalla ) mentre è uno dei balletti più frequenti non solo in Russia ma anche a Londra, Parigi, New York ed alla Scala anche in quanto è spettacolare ed acrobatico.
Tre le considerazioni principali: a) il lavoro è tratto da un lungo poema indiano che ispirò molte opere e balletti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (tra cui Sukantula di Franco Alfano riproposta nella capitale nel 2006); b) nonostante il nome tedesco, Minkus, nato in quella che oggi è la Repubblica Cèca, è stato dal 1870 al 1917 uno dei maggiori esponenti della musica per teatro della Russia Imperiale; c) ) La Bayadère è uno dei rari balletti che richiede due prime ballerine di pari abilità.
Interessante il confronto con Sukantula del 1921 (La Bayadère è del 1877). Straussiano il lavoro di Alfano che fu un grande successo in Italia , in Germania ed in America Latina, mentre è marcatamente tardo –romantico quello di Minkus, indicazione quasi del crepuscolo della musica russa “di stile occidentale” (ad esempio, quella di Tchaikovsky ) nel periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Siamo a sinfonismo coreografico tanto che l’”andante” della terza parte viene sovente eseguito in concerti. In breve, l’India quale percepita da Minkus non ha il profumo del decadentismo che pervade la scrittura di Alfano sul medesimo argomento.
Semplice ed un po’ kitsch l’allestimento scenico di Juan Guillermo Nova: un impianto unico con scene dipinte e proiezioni. Vistosi, ma probabilmente a basso costo, i costumi di Luca D’Alpi. Efficaci le luci di Agostino Angelini. Buona, ma non eccelsa la concertazione di David Garforth che non pare avvertire in pieno il sinfonismo di Mirkus. Eccellenti le due protagoniste- Svetlana Zakharova e Olga Esina – nonché il bel principe – Olga Esina- che esse si contendono. Buoni Mario Marozzi, Alessio Rizza, Luigi Zucconi e gli altri. E un “grand ballet” che impegna tutta la compagnia. La sera della prima non tutto il corpo di ballo era all’altezza dei protagonisti. Spiccavano però gli allievi.
Non poteva non far piacere vedere tutti gli ordini di posti del Teatro dell’Opera strapieni e ovazioni da curva sud nei passaggi chiave ed al termine dello spettacolo.
Beckmesser
E’ in scena contemporaneamente a Roma (sino al 30 ottobre) ed a Torino (sino al 25 ottobre) La Bayadère”, balletto in tre atti di Ludwig Minkus . A Roma lo presentano i complessi del Teatro dell’Opera con étoiles russe ed ucraine in un allestimento del Teatro Nazionale sloveno di Malibor. A Torino il Balletto del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. E’ la prima volta che ) La Bayadère approda al Teatro dell’Opera (si era visto oltre trent’anni fa alle Terme di Caracalla ) mentre è uno dei balletti più frequenti non solo in Russia ma anche a Londra, Parigi, New York ed alla Scala anche in quanto è spettacolare ed acrobatico.
Tre le considerazioni principali: a) il lavoro è tratto da un lungo poema indiano che ispirò molte opere e balletti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (tra cui Sukantula di Franco Alfano riproposta nella capitale nel 2006); b) nonostante il nome tedesco, Minkus, nato in quella che oggi è la Repubblica Cèca, è stato dal 1870 al 1917 uno dei maggiori esponenti della musica per teatro della Russia Imperiale; c) ) La Bayadère è uno dei rari balletti che richiede due prime ballerine di pari abilità.
Interessante il confronto con Sukantula del 1921 (La Bayadère è del 1877). Straussiano il lavoro di Alfano che fu un grande successo in Italia , in Germania ed in America Latina, mentre è marcatamente tardo –romantico quello di Minkus, indicazione quasi del crepuscolo della musica russa “di stile occidentale” (ad esempio, quella di Tchaikovsky ) nel periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Siamo a sinfonismo coreografico tanto che l’”andante” della terza parte viene sovente eseguito in concerti. In breve, l’India quale percepita da Minkus non ha il profumo del decadentismo che pervade la scrittura di Alfano sul medesimo argomento.
Semplice ed un po’ kitsch l’allestimento scenico di Juan Guillermo Nova: un impianto unico con scene dipinte e proiezioni. Vistosi, ma probabilmente a basso costo, i costumi di Luca D’Alpi. Efficaci le luci di Agostino Angelini. Buona, ma non eccelsa la concertazione di David Garforth che non pare avvertire in pieno il sinfonismo di Mirkus. Eccellenti le due protagoniste- Svetlana Zakharova e Olga Esina – nonché il bel principe – Olga Esina- che esse si contendono. Buoni Mario Marozzi, Alessio Rizza, Luigi Zucconi e gli altri. E un “grand ballet” che impegna tutta la compagnia. La sera della prima non tutto il corpo di ballo era all’altezza dei protagonisti. Spiccavano però gli allievi.
Non poteva non far piacere vedere tutti gli ordini di posti del Teatro dell’Opera strapieni e ovazioni da curva sud nei passaggi chiave ed al termine dello spettacolo.
LO SVILUPPO CHE NON SI OTTIENE PER DECRETO in Il Riformista 21 ottobre
I LIBRI DEI MINISTRI – GIANNI LETTA
SVILUPPO CHE NON SI OTTIENE PER DECRETO
Giuseppe Pennisi
Gianni Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e gran mediatore, ben sa che lo sviluppo non si ottiene per decreto. Ricorda anzi l’insistenza con cui, agli albori del centro-sinistra, parte del Governo insistette perché il primo “programma quinquennale” (il “Piano Pierracini”) venisse approvato per legge: due anni dopo la preparazione del “Piano”, il Parlamento legiferò un tasso di crescita mentre si era entrati in quella che venne allora chiamata “la congiuntura difficile”.
Tuttavia , grava in gran misura sulle sue spalle la trattativa per arrivare al “Decreto Sviluppo” che forse oggi verrà approvato dal Consiglio dei Ministri. Il contesto non è dei migliori. Negli ultimi fascicoli della rivista “Moneta e Credito” della B.N.L. (un tempo controllata dal Tesoro ma ora dalla francese BNP Parisbas) , sono apparsi una serie di saggi dei maggiori economisti italiani molto pessimisti sul futuro del Paese e non incoraggianti nei confronti della politica economica del Governo. Lo preoccupa particolarmente il saggio di Antonio Pedone, uno dei “Padri Fondatori” dell’economia pubblica e consigliere di Governi sin dal “decretone” del 1968. Lo studio, intotalaro “Vecchi e Nuovi Problemi dell’Impiego delle Politiche di Bilancio”, pare mettere in dubbio quel “pareggio di bilancio” che sembra essere diventato non la stella polare ma l’unica stella nel firmamento delle strategie europee ed italiane. Lo studio, inoltre, afferma che sono “poco credibili” “regole quantitative rigide ed uniformi” che tengano conto delle “profonde differenze” tra Paese messe in luce proprio dalla crisi. Se l’analisi è corretta – si chiede il Sottosegretario – forse i “frondisti” non hanno tutti i torti.
Ma come uscire da quello che sembra un vicolo cieco? Dall’Estremo Oriente, dove suo fratello Corrado è di casa, è giunto che può essere utile. Ne è autore Haochen Sun della Università di Hong Kong , che lo ha pubblicato la settimana scorsa come Research Paper No 2011/009. Il titolo è eloquente: “verso una nuova teoria politica della dottrina della fiducia pubblica”. Il lavoro delinea un a nuova responsabilità sociale come guida per i comportamenti pubblici, anche quando si tenta di ottenere qualche vantaggio per il proprio portafoglio nel decretare lo sviluppo. Sempre dall’Oriente giunge sulla sua scrivania un lavoro quantitativo di Masato Shizume del servizio studio della Banca centrale giapponese appena pubblicato dalla prestigiosa Economic History Review. L’analisi tratta dello sostenibilità del debito pubblico nell’Impero. Non però del debito, pur elevatissimo, di oggi , ma di quello dei decenni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale. Armato con regressioni e modelli VAR, Shizume conclude che il 1931 è stato l’anno in cui si è varcato il Rubicone ed il debito pubblico nipponico da “sostenibile” è diventato “insostenibile” a ragione delle richieste pressanti dei militari. L’economia non sembrò soffrirne. Ma scoppiò la guerra “per mancanza di pressioni sia interne sia dai mercati finanziari internazionali”. Vale la pena rifletterci. Con calma, pace e serenità.
.
SVILUPPO CHE NON SI OTTIENE PER DECRETO
Giuseppe Pennisi
Gianni Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e gran mediatore, ben sa che lo sviluppo non si ottiene per decreto. Ricorda anzi l’insistenza con cui, agli albori del centro-sinistra, parte del Governo insistette perché il primo “programma quinquennale” (il “Piano Pierracini”) venisse approvato per legge: due anni dopo la preparazione del “Piano”, il Parlamento legiferò un tasso di crescita mentre si era entrati in quella che venne allora chiamata “la congiuntura difficile”.
Tuttavia , grava in gran misura sulle sue spalle la trattativa per arrivare al “Decreto Sviluppo” che forse oggi verrà approvato dal Consiglio dei Ministri. Il contesto non è dei migliori. Negli ultimi fascicoli della rivista “Moneta e Credito” della B.N.L. (un tempo controllata dal Tesoro ma ora dalla francese BNP Parisbas) , sono apparsi una serie di saggi dei maggiori economisti italiani molto pessimisti sul futuro del Paese e non incoraggianti nei confronti della politica economica del Governo. Lo preoccupa particolarmente il saggio di Antonio Pedone, uno dei “Padri Fondatori” dell’economia pubblica e consigliere di Governi sin dal “decretone” del 1968. Lo studio, intotalaro “Vecchi e Nuovi Problemi dell’Impiego delle Politiche di Bilancio”, pare mettere in dubbio quel “pareggio di bilancio” che sembra essere diventato non la stella polare ma l’unica stella nel firmamento delle strategie europee ed italiane. Lo studio, inoltre, afferma che sono “poco credibili” “regole quantitative rigide ed uniformi” che tengano conto delle “profonde differenze” tra Paese messe in luce proprio dalla crisi. Se l’analisi è corretta – si chiede il Sottosegretario – forse i “frondisti” non hanno tutti i torti.
Ma come uscire da quello che sembra un vicolo cieco? Dall’Estremo Oriente, dove suo fratello Corrado è di casa, è giunto che può essere utile. Ne è autore Haochen Sun della Università di Hong Kong , che lo ha pubblicato la settimana scorsa come Research Paper No 2011/009. Il titolo è eloquente: “verso una nuova teoria politica della dottrina della fiducia pubblica”. Il lavoro delinea un a nuova responsabilità sociale come guida per i comportamenti pubblici, anche quando si tenta di ottenere qualche vantaggio per il proprio portafoglio nel decretare lo sviluppo. Sempre dall’Oriente giunge sulla sua scrivania un lavoro quantitativo di Masato Shizume del servizio studio della Banca centrale giapponese appena pubblicato dalla prestigiosa Economic History Review. L’analisi tratta dello sostenibilità del debito pubblico nell’Impero. Non però del debito, pur elevatissimo, di oggi , ma di quello dei decenni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale. Armato con regressioni e modelli VAR, Shizume conclude che il 1931 è stato l’anno in cui si è varcato il Rubicone ed il debito pubblico nipponico da “sostenibile” è diventato “insostenibile” a ragione delle richieste pressanti dei militari. L’economia non sembrò soffrirne. Ma scoppiò la guerra “per mancanza di pressioni sia interne sia dai mercati finanziari internazionali”. Vale la pena rifletterci. Con calma, pace e serenità.
.
mercoledì 19 ottobre 2011
Il «condono europeo» potrebbe non bastare 20 ottobre
l’analisi Il «condono europeo» potrebbe non bastare
DI GIUSEPPE PENNISI
M olti hanno applaudito quando la piccolo Slovenia ha ratificato il trattato con cui si crea il fondo europeo Salva-Stati (Efsf). Applausi ancora più scroscianti da parte del mondo della finanza al solo 'sentore' che il Fondo potrebbe essere utilizzato anche per ricapitalizzare le banche, sempre che lo deliberi il vertice dell’Eurogruppo previsto per domenica.
Non tutti, però, hanno stappato bottiglie di champagne. La 'ricapitalizzaione' delle banche tramite il Salva-Stati è un modo elegante per parlare di salvataggi – ove non di 'condoni' – a chi si trova in braghe di tela di fronte alla prospettive di insolvenze, dove aver sperato di incassare cospicui premi di rischio, finanziando Tesori ed imprese (sovente a partecipazione statale) che razzolavano male. Non è, però, solamente una questione di etica pubblica su cui sono lecite opinioni divergenti: il fallimento di banche (specialmente se a catena) causerebbe seri danni a miriadi di piccoli risparmiatori e potrebbe trascinare alcuni Paesi (segnatamente la Francia) verso una profonda e lunga recessione che avrebbe implicazioni negative per il resto dell’Eurozona. Al di là di considerazioni morali, quindi, occorre chiedersi se ci sono alternative al 'condono europeo' sotto il profilo strettamente economico. Ossia, le prospettive di crescita della stagnante economia del vecchio continente (e dalla ripresa dei redditi e dell’occupazione) sono migliori o peggiori 'senza' o 'con' interventi dei contribuenti europei per tirare i creditori fuori dalle sacche in cui si sono messi facendo prestiti a clienti non affidabili. Si può costruire uno scenario 'senza' partendo da un’analisi quantitativa di Carmen Reinhart, dell’Institute of International Economics di Washington, e di Kenneth Rogoff, dell’Università di Harvard, la cui prima parte è apparsa sull’ultimo numero dell’American
Economic Review.
Lavorando su dati di 70 Paesi che rappresentano il 90% del Pil mondiale per un lungo lasso di tempo (1800-2009) ci si accorge anzitutto che le insolvenze di debitori 'sovrani', degli Stati quindi, sono un interludio in un mondo in cui i
defaults sono stati la prassi. Il modo più efficace per affrontarli è stato quello di organizzare 'insolvenze concordate' prima che il bubbone scoppi. Dalla ricca banca dati di Reinhart e Rogoff si ricavano alcuni episodi specifici di insolvenze di massa di debito sovrano: le guerre napoleoniche, il periodo tra il 1820 ed il 1850 (quando la metà degli Stati allora esistenti, compresi tutti quelli dell’America Latina) furono in default, il periodo dal 1870 al 1890 e, infine, la fase dalla Grande Depressione fino al 1955.
Di fronte a queste insolvenze sistemiche, le crisi debitoria dell’America Latina (1987-1991) e dell’Asia (1997-2001) sembrano giocherelli da bambini.
Per alcuni Stati le insolvenze hanno avuto esiti pesanti. Le Newfoundlands persero l’indipendenza e divennero una provincia del Canada. Nel 1826, invece, la Grecia perdette la fiducia dei mercati e riuscì a prendere prestiti internazionali solo dal 1879. Nel 1876, l’Egitto divenne un protettorato del creditore (la Gran Bretagna). Dai dati si evince soprattutto che dalla fine della seconda guerra mondiale, la durata dei defaults è stata mediamente pari alla metà di quella registrata nel periodo 1800-1945. Si sono affinate le tecniche di prevenzione e specialmente di ristrutturazione (pur sempre un’ 'insolvenza concordata'). Uno dei risultati principali è che dopo un lasso di tempo relativamente breve, gli Stati 'insolventi' hanno di nuovo accesso ai mercati internazionali e riprendono a crescere. Ce lo mostrano l’America Latina dagli Anni Novanta e l’Asia dall’inizio di questo secolo (dopo che la 'crisi' del 1997-2001 sembrava averla portata alla fame). Prima di condonare , è bene riflettere.
La storia economica insegna che il modo più efficace per affrontare le insolvenze degli Stati è stato «concordarle» prima del crac Ma la ricapitalizzazione delle banche tramite il fondo Efsf è un modo per salvare chi ha sperato di incassare cospicui premi al rischio
DI GIUSEPPE PENNISI
M olti hanno applaudito quando la piccolo Slovenia ha ratificato il trattato con cui si crea il fondo europeo Salva-Stati (Efsf). Applausi ancora più scroscianti da parte del mondo della finanza al solo 'sentore' che il Fondo potrebbe essere utilizzato anche per ricapitalizzare le banche, sempre che lo deliberi il vertice dell’Eurogruppo previsto per domenica.
Non tutti, però, hanno stappato bottiglie di champagne. La 'ricapitalizzaione' delle banche tramite il Salva-Stati è un modo elegante per parlare di salvataggi – ove non di 'condoni' – a chi si trova in braghe di tela di fronte alla prospettive di insolvenze, dove aver sperato di incassare cospicui premi di rischio, finanziando Tesori ed imprese (sovente a partecipazione statale) che razzolavano male. Non è, però, solamente una questione di etica pubblica su cui sono lecite opinioni divergenti: il fallimento di banche (specialmente se a catena) causerebbe seri danni a miriadi di piccoli risparmiatori e potrebbe trascinare alcuni Paesi (segnatamente la Francia) verso una profonda e lunga recessione che avrebbe implicazioni negative per il resto dell’Eurozona. Al di là di considerazioni morali, quindi, occorre chiedersi se ci sono alternative al 'condono europeo' sotto il profilo strettamente economico. Ossia, le prospettive di crescita della stagnante economia del vecchio continente (e dalla ripresa dei redditi e dell’occupazione) sono migliori o peggiori 'senza' o 'con' interventi dei contribuenti europei per tirare i creditori fuori dalle sacche in cui si sono messi facendo prestiti a clienti non affidabili. Si può costruire uno scenario 'senza' partendo da un’analisi quantitativa di Carmen Reinhart, dell’Institute of International Economics di Washington, e di Kenneth Rogoff, dell’Università di Harvard, la cui prima parte è apparsa sull’ultimo numero dell’American
Economic Review.
Lavorando su dati di 70 Paesi che rappresentano il 90% del Pil mondiale per un lungo lasso di tempo (1800-2009) ci si accorge anzitutto che le insolvenze di debitori 'sovrani', degli Stati quindi, sono un interludio in un mondo in cui i
defaults sono stati la prassi. Il modo più efficace per affrontarli è stato quello di organizzare 'insolvenze concordate' prima che il bubbone scoppi. Dalla ricca banca dati di Reinhart e Rogoff si ricavano alcuni episodi specifici di insolvenze di massa di debito sovrano: le guerre napoleoniche, il periodo tra il 1820 ed il 1850 (quando la metà degli Stati allora esistenti, compresi tutti quelli dell’America Latina) furono in default, il periodo dal 1870 al 1890 e, infine, la fase dalla Grande Depressione fino al 1955.
Di fronte a queste insolvenze sistemiche, le crisi debitoria dell’America Latina (1987-1991) e dell’Asia (1997-2001) sembrano giocherelli da bambini.
Per alcuni Stati le insolvenze hanno avuto esiti pesanti. Le Newfoundlands persero l’indipendenza e divennero una provincia del Canada. Nel 1826, invece, la Grecia perdette la fiducia dei mercati e riuscì a prendere prestiti internazionali solo dal 1879. Nel 1876, l’Egitto divenne un protettorato del creditore (la Gran Bretagna). Dai dati si evince soprattutto che dalla fine della seconda guerra mondiale, la durata dei defaults è stata mediamente pari alla metà di quella registrata nel periodo 1800-1945. Si sono affinate le tecniche di prevenzione e specialmente di ristrutturazione (pur sempre un’ 'insolvenza concordata'). Uno dei risultati principali è che dopo un lasso di tempo relativamente breve, gli Stati 'insolventi' hanno di nuovo accesso ai mercati internazionali e riprendono a crescere. Ce lo mostrano l’America Latina dagli Anni Novanta e l’Asia dall’inizio di questo secolo (dopo che la 'crisi' del 1997-2001 sembrava averla portata alla fame). Prima di condonare , è bene riflettere.
La storia economica insegna che il modo più efficace per affrontare le insolvenze degli Stati è stato «concordarle» prima del crac Ma la ricapitalizzazione delle banche tramite il fondo Efsf è un modo per salvare chi ha sperato di incassare cospicui premi al rischio
martedì 18 ottobre 2011
L'ORCHESTRA DEL RECIH Il Foglio 19 ottobre
Misha Aster
L’ORCHESTRA DEL REICH
I Berliner Philarmoniker e il Nazionalsocialismo
Varese Zecchini Editore pp. 340 € 25
Le autocrazie,politiche e religiose, hanno spesso saputo apprezzare il valore della musica meglio delle democrazie. E’ stato sovente un apprezzamento opportunistico per la capacità di coesione che ha quella che Papa Benedetto XVI ha definito come la “più sublime delle arti”. Molto è stato scritto sui rapporti tra nazismo, fascismo e comunismo, da un lato, e musica e musicisti, dall’alto. Il lavoro di Misha Aster si distingue da altri , in primo luogo, perché l’autore è uno storico di professione, con grande passione ed esperienza, però, per la musica ed il suo mondo (ha lavorato anche al Teatro La Fenice). In secondo luogo, perché non tenta di abbracciare l’insieme dell’interazione tra nazionalsocialismo, da un lato, ed i musicisti, dall’altro, ma sviscera un unico caso di studio eloquente : quello dei Berliner Philarmoniker che da orchestra organizzata come associazione o cooperativa di liberi professionisti diventò la formazione sinfonica ufficiale del Terzo Reich. In tal senso , è molto differente da un libro di un musicologo italiano che ebbe un certo successo alcuni anni fa: “L’Orchestra del Duce- Mussolini, il Fascismo, il Mito del Capo” di Stefano Biguzzi (pp.180 , Torino, Utet, 2003, € 18). Il saggio di Biguzzi, ricco di aneddoti, esamina le varie correnti (dai tradizionalisti agli innovatori) che si contendevano i favori del Capo del Governo (più vicino alle ardite innovazioni di Malipiero che alla magniloquenza dell’ex-socialista Mascagni): Mussolini si barcamenava tra le varie scuole ma fondò il Festival di Musica Contemporanea di Venezia in polemica con quello (allora nazista) di Salisburgo invitandovi molti compositori considerati “degenerati” in Germania.
Lo studio di Aster ha pochi aneddoti ma molta ricerca di archivio (in gran parte in archivi privati aperti per la prima volta) per documentare la trasformazione di un’associazione/cooperativa di musicisti , guidati da un leader carismatico (ma loro collega) come Wilhelm Furtwängler, ad una struttura fortemente burocratizzata , la Reichorchester, destinata a rappresentare e diffondere “il meglio della Germania” tanto in Patria quanto all’estero. I Berliner Philarmoniker vennero spinti al grande passo poiché proprio nell’anno in cui festeggiavano il cinquantesimo anniversario dalla loro creazione versavano in una gravissima crisi finanziaria. In parallelo, Joseph Goebbles, potentissimo Ministro della propaganda, intuì il potenziale dell’orchestra ai fini sia della coesione interna del Reich che della sua immagine nel resto del mondo. Aster mette in luce il gioco di convenienze reciproche che coinvolse anche musicisti più distanti dal nazismo (e da esso sempre più lontani man mano che si avvicinavano le persecuzioni razziali). Lo stesso Goebbles, tuttavia, aveva di fronte a sé un complesso che poneva limiti alla sua ingerenza: lo comprese a tutto tondo quando, nella primavera del 1934, Wilhelm Furtwängler diede le dimissioni da ogni carica ufficiale a ragione del divieto postogli di eseguire, in forma di concerto, l’opera Mathis der Mahler di Hindemith (la cui prima avvenne quattro anni più tardi a Zurigo). Sotto il profilo burocratico-formale Furtwängler venne sostituito (anzi tra il 1934 ed il 1937 ci fu una serie di successori) ma restò la guida effettiva dell’orchestra, che diresse quando la Reichorchester venne chiamata a rappresentare la Germania in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi. Goebbles, quindi, deve trattare ogni dettaglio con un direttore d’orchestra senza cariche formali, ma potente tanto quanto lui. In grado di difendere i suoi orchestrali (facilitando la fuga all’estero di alcuni loro) sino quando nel gennaio 1945 decide di abbandonare Berlino.
In breve una ricerca storica che si legge come un dramma shakespeariano in cui si confrontano due forti personalità.
L’ORCHESTRA DEL REICH
I Berliner Philarmoniker e il Nazionalsocialismo
Varese Zecchini Editore pp. 340 € 25
Le autocrazie,politiche e religiose, hanno spesso saputo apprezzare il valore della musica meglio delle democrazie. E’ stato sovente un apprezzamento opportunistico per la capacità di coesione che ha quella che Papa Benedetto XVI ha definito come la “più sublime delle arti”. Molto è stato scritto sui rapporti tra nazismo, fascismo e comunismo, da un lato, e musica e musicisti, dall’alto. Il lavoro di Misha Aster si distingue da altri , in primo luogo, perché l’autore è uno storico di professione, con grande passione ed esperienza, però, per la musica ed il suo mondo (ha lavorato anche al Teatro La Fenice). In secondo luogo, perché non tenta di abbracciare l’insieme dell’interazione tra nazionalsocialismo, da un lato, ed i musicisti, dall’altro, ma sviscera un unico caso di studio eloquente : quello dei Berliner Philarmoniker che da orchestra organizzata come associazione o cooperativa di liberi professionisti diventò la formazione sinfonica ufficiale del Terzo Reich. In tal senso , è molto differente da un libro di un musicologo italiano che ebbe un certo successo alcuni anni fa: “L’Orchestra del Duce- Mussolini, il Fascismo, il Mito del Capo” di Stefano Biguzzi (pp.180 , Torino, Utet, 2003, € 18). Il saggio di Biguzzi, ricco di aneddoti, esamina le varie correnti (dai tradizionalisti agli innovatori) che si contendevano i favori del Capo del Governo (più vicino alle ardite innovazioni di Malipiero che alla magniloquenza dell’ex-socialista Mascagni): Mussolini si barcamenava tra le varie scuole ma fondò il Festival di Musica Contemporanea di Venezia in polemica con quello (allora nazista) di Salisburgo invitandovi molti compositori considerati “degenerati” in Germania.
Lo studio di Aster ha pochi aneddoti ma molta ricerca di archivio (in gran parte in archivi privati aperti per la prima volta) per documentare la trasformazione di un’associazione/cooperativa di musicisti , guidati da un leader carismatico (ma loro collega) come Wilhelm Furtwängler, ad una struttura fortemente burocratizzata , la Reichorchester, destinata a rappresentare e diffondere “il meglio della Germania” tanto in Patria quanto all’estero. I Berliner Philarmoniker vennero spinti al grande passo poiché proprio nell’anno in cui festeggiavano il cinquantesimo anniversario dalla loro creazione versavano in una gravissima crisi finanziaria. In parallelo, Joseph Goebbles, potentissimo Ministro della propaganda, intuì il potenziale dell’orchestra ai fini sia della coesione interna del Reich che della sua immagine nel resto del mondo. Aster mette in luce il gioco di convenienze reciproche che coinvolse anche musicisti più distanti dal nazismo (e da esso sempre più lontani man mano che si avvicinavano le persecuzioni razziali). Lo stesso Goebbles, tuttavia, aveva di fronte a sé un complesso che poneva limiti alla sua ingerenza: lo comprese a tutto tondo quando, nella primavera del 1934, Wilhelm Furtwängler diede le dimissioni da ogni carica ufficiale a ragione del divieto postogli di eseguire, in forma di concerto, l’opera Mathis der Mahler di Hindemith (la cui prima avvenne quattro anni più tardi a Zurigo). Sotto il profilo burocratico-formale Furtwängler venne sostituito (anzi tra il 1934 ed il 1937 ci fu una serie di successori) ma restò la guida effettiva dell’orchestra, che diresse quando la Reichorchester venne chiamata a rappresentare la Germania in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi. Goebbles, quindi, deve trattare ogni dettaglio con un direttore d’orchestra senza cariche formali, ma potente tanto quanto lui. In grado di difendere i suoi orchestrali (facilitando la fuga all’estero di alcuni loro) sino quando nel gennaio 1945 decide di abbandonare Berlino.
In breve una ricerca storica che si legge come un dramma shakespeariano in cui si confrontano due forti personalità.
POTRANNO I NOSTRI EROI SALVARE L'UNIONE MONETARIA EUROPEA? in Il Velino 18 ottobre
POTRANNO I NOSTRI EROI SALVARE L'UNIONE MONETARIA EUROPEA?
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Il 23 ed il 24 ottobre, il vertice europeo riuscirà a salvare e a dare nuovi e più appropriati contorni e contenuti all’unione monetaria europea? Non facciamoci illusioni: l’euro sta attraversando una crisi gravissima se André Cabannes, una delle voci più ascoltate nelle due sponde dell’Atlantico, non esita a scrivere che dobbiamo abituarci di nuovo ad andare in giro con sei-sette monete in tasca (da utilizzare per le transazioni interne) e limitare l’utilizzazioni della moneta unica a quelle internazionali. In effetti, le misure che si stanno prendendo per tamponare la crisi degli Stati maggiormente indebitati sono non solamente contrarie al Trattato di Maastricht (nelle sue varie edizioni) ma ai principi stessi di un’unione monetaria. L’attenzione è, invece, su quelle misure e non su come trovare un percorso che recuperi quella che sarebbe dovuta essere la funzione primaria dell’euro: una convergenza delle economie reali verso tassi di produttività e di competitività più elevati e tali da rendere l’Europa elemento dinamico, non un fardello (come è adesso), per l’economia mondiale. Purtroppo, come ha dimostrato James Buchanan, i politici (quale che sia il Paese e quale che sia la loro provenienza) soffrono di miopia e così i barracuda-esperti che li coadiuvano. Lo short-termism si è accentuato negli ultimi anni, pure a ragione della crisi finanziaria ed economica internazionale.
Una strada per salvare l’unione monetaria, prima che la situazione deteriori ulteriormente, c’è. Nell’immediato, occorre evitare una nuova recessione poiché nessun Paese dell’area oggi sosterebbe un’ulteriore perdita di Pil del 4-6 per cento (in aggiunta alla contrazione già avuta nel 2008-2010) senza forti rischi per la propria tenuta politica e sociale tali da mettere a repentaglio non solo l’euro ma il disegno complessivo dell’Ue. Lo si consideri nell’approntare il Decreto Sviluppo. Ormai da mesi Hans-Werner Sinn (Presidente del CESifo di Monaco, il più autorevole centro di ricerche tedesco) sta visitando varie capitali europee in modo del tutto informale al fine di esaminare le vie di un possibile riassetto dell’economia reale dell’eurozona, premessa essenziale per qualsiasi marchingegno d’ingegneria finanziaria.
Potrebbe essere adottato il metodo di base utilizzato nel 1993-1999 per dare vita all’eurozona: un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori pre-stabiliti. Si possono anche mutuare lezioni di unioni monetarie in cui alcuni partner sono usciti senza pagare costi troppo alti. Ci sono stati esempi recenti in America Latina e più lontani nel tempo in Asia. Le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador), mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).Le tappe devono avere puntelli chiari di economia reale per porre al centro del percorso la convergenza delle strutture di produzione e la produttività dei fattori e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata. Potrebbero confluire nello SME 2: l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’UE che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro. (ilVelino/AGV NEWS)
(Giuseppe Pennisi) 18 Ottobre 2011 12:19
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Il 23 ed il 24 ottobre, il vertice europeo riuscirà a salvare e a dare nuovi e più appropriati contorni e contenuti all’unione monetaria europea? Non facciamoci illusioni: l’euro sta attraversando una crisi gravissima se André Cabannes, una delle voci più ascoltate nelle due sponde dell’Atlantico, non esita a scrivere che dobbiamo abituarci di nuovo ad andare in giro con sei-sette monete in tasca (da utilizzare per le transazioni interne) e limitare l’utilizzazioni della moneta unica a quelle internazionali. In effetti, le misure che si stanno prendendo per tamponare la crisi degli Stati maggiormente indebitati sono non solamente contrarie al Trattato di Maastricht (nelle sue varie edizioni) ma ai principi stessi di un’unione monetaria. L’attenzione è, invece, su quelle misure e non su come trovare un percorso che recuperi quella che sarebbe dovuta essere la funzione primaria dell’euro: una convergenza delle economie reali verso tassi di produttività e di competitività più elevati e tali da rendere l’Europa elemento dinamico, non un fardello (come è adesso), per l’economia mondiale. Purtroppo, come ha dimostrato James Buchanan, i politici (quale che sia il Paese e quale che sia la loro provenienza) soffrono di miopia e così i barracuda-esperti che li coadiuvano. Lo short-termism si è accentuato negli ultimi anni, pure a ragione della crisi finanziaria ed economica internazionale.
Una strada per salvare l’unione monetaria, prima che la situazione deteriori ulteriormente, c’è. Nell’immediato, occorre evitare una nuova recessione poiché nessun Paese dell’area oggi sosterebbe un’ulteriore perdita di Pil del 4-6 per cento (in aggiunta alla contrazione già avuta nel 2008-2010) senza forti rischi per la propria tenuta politica e sociale tali da mettere a repentaglio non solo l’euro ma il disegno complessivo dell’Ue. Lo si consideri nell’approntare il Decreto Sviluppo. Ormai da mesi Hans-Werner Sinn (Presidente del CESifo di Monaco, il più autorevole centro di ricerche tedesco) sta visitando varie capitali europee in modo del tutto informale al fine di esaminare le vie di un possibile riassetto dell’economia reale dell’eurozona, premessa essenziale per qualsiasi marchingegno d’ingegneria finanziaria.
Potrebbe essere adottato il metodo di base utilizzato nel 1993-1999 per dare vita all’eurozona: un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori pre-stabiliti. Si possono anche mutuare lezioni di unioni monetarie in cui alcuni partner sono usciti senza pagare costi troppo alti. Ci sono stati esempi recenti in America Latina e più lontani nel tempo in Asia. Le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador), mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).Le tappe devono avere puntelli chiari di economia reale per porre al centro del percorso la convergenza delle strutture di produzione e la produttività dei fattori e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata. Potrebbero confluire nello SME 2: l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’UE che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro. (ilVelino/AGV NEWS)
(Giuseppe Pennisi) 18 Ottobre 2011 12:19
domenica 16 ottobre 2011
Tutte le prime del Metropolitan si vedranno in italia dal vivo in Quotidiano Arte del 17 Ottobre
lunedì 17 ottobre 2011
Dal 18 ottobre
Tutte le prime del Metropolitan si vedranno in italia dal vivo
Giuseppe Pennisi
Dal 18 ottobre, grazie ad un sistema tecnologicamente avanzatissimo, gli italiani potranno andare alle “prime” del Metropolitan semplicemente arrivando ad un cinema non troppo distante da casa.
Ciò avviene già in 54 Paesi (e in 1600 sale). Con l’Italia se ne aggiungono altre 42. Per tutti i dettagli, basta andare al sito www.nexodigital.it. In breve si innesca competizione in un mercato dove esiste già il circuito micro-cinema che porta in una cinquantina di sale gli spettacoli delle nostre fondazioni liriche e dei nostri teatri “di tradizione”, coniugata con tecnologia, la competizione è la molla della crescita.
La stagione operistica del Met ha progressivamente esteso la sua distribuzione raggiungendo 1600 cinema e coprendo un totale di 54 Paesi tanto da raccogliere la più grande platea mondiale mai raggiunta per un’iniziativa di questo genere. Di recente le trasmissioni via satellite del Metropolitan sono arrivate anche in Russia, Israele, Cina, Cipro, Repubblica Domenicana, Marocco, Slovenia e S. Thomas nelle Isole Vergini. Sinora il Met ha avuto cinque “stagioni cinematografiche” in diretta e in sale attrezzate.
Perché l’Italia è rimasta fuori? Da un lato i “teatri di tradizione”, quelli più piccoli e in gran misura di provincia, temevano la concorrenza tra una “Traviata” casereccia e uno spettacolo del Met. Da un altro, è nato il circuito solo italiano, quello dei micro-cinema in gran misura sale parrocchiali dismesse in piccoli centri che mostravano l’opera in diretta da teatri italiani oppure in dvd su grande schermo.
Tuttavia chi difende l’esistente perde sempre. Specialmente di fronte al progresso tecnologico. Nel caso specifico le esperienze del Met digitale in altri 54 Paesi mostrano che lo strumento non fa perdere pubblico all’opera dal vivo ma ne porta di nuovo, giovane, che dopo avere visto e ascoltato, ad esempio, Anna Netrebko in digitale in “Anna Bolena” (lo spettacolo inaugurale), vuole vederla dal vivo. Oppure dopo avere visto al micro-cinema “Il Barbiere di Siviglia” di Parma, lo compara con quello del Met e fa poi la fila per un posto di galleria o loggione alla Scala.
Il mercato si vendica sempre, diceva Luigi Einaudi. Sulle implicazioni di questo episodio dovrebbero riflettere non solamente gli appassionati di lirica ma coloro che nella compagine di governo stanno discutendo su liberalizzazioni.
Lo facciano presto. Per non essere oggetto di vendetta.
Dal 18 ottobre
Tutte le prime del Metropolitan si vedranno in italia dal vivo
Giuseppe Pennisi
Dal 18 ottobre, grazie ad un sistema tecnologicamente avanzatissimo, gli italiani potranno andare alle “prime” del Metropolitan semplicemente arrivando ad un cinema non troppo distante da casa.
Ciò avviene già in 54 Paesi (e in 1600 sale). Con l’Italia se ne aggiungono altre 42. Per tutti i dettagli, basta andare al sito www.nexodigital.it. In breve si innesca competizione in un mercato dove esiste già il circuito micro-cinema che porta in una cinquantina di sale gli spettacoli delle nostre fondazioni liriche e dei nostri teatri “di tradizione”, coniugata con tecnologia, la competizione è la molla della crescita.
La stagione operistica del Met ha progressivamente esteso la sua distribuzione raggiungendo 1600 cinema e coprendo un totale di 54 Paesi tanto da raccogliere la più grande platea mondiale mai raggiunta per un’iniziativa di questo genere. Di recente le trasmissioni via satellite del Metropolitan sono arrivate anche in Russia, Israele, Cina, Cipro, Repubblica Domenicana, Marocco, Slovenia e S. Thomas nelle Isole Vergini. Sinora il Met ha avuto cinque “stagioni cinematografiche” in diretta e in sale attrezzate.
Perché l’Italia è rimasta fuori? Da un lato i “teatri di tradizione”, quelli più piccoli e in gran misura di provincia, temevano la concorrenza tra una “Traviata” casereccia e uno spettacolo del Met. Da un altro, è nato il circuito solo italiano, quello dei micro-cinema in gran misura sale parrocchiali dismesse in piccoli centri che mostravano l’opera in diretta da teatri italiani oppure in dvd su grande schermo.
Tuttavia chi difende l’esistente perde sempre. Specialmente di fronte al progresso tecnologico. Nel caso specifico le esperienze del Met digitale in altri 54 Paesi mostrano che lo strumento non fa perdere pubblico all’opera dal vivo ma ne porta di nuovo, giovane, che dopo avere visto e ascoltato, ad esempio, Anna Netrebko in digitale in “Anna Bolena” (lo spettacolo inaugurale), vuole vederla dal vivo. Oppure dopo avere visto al micro-cinema “Il Barbiere di Siviglia” di Parma, lo compara con quello del Met e fa poi la fila per un posto di galleria o loggione alla Scala.
Il mercato si vendica sempre, diceva Luigi Einaudi. Sulle implicazioni di questo episodio dovrebbero riflettere non solamente gli appassionati di lirica ma coloro che nella compagine di governo stanno discutendo su liberalizzazioni.
Lo facciano presto. Per non essere oggetto di vendetta.
Quel "Big Bang" che può far crescere l’Italia a costo zero in Il Sussidiario del 17 ottobre
IL CASO/ Quel "Big Bang" che può far crescere l’Italia a costo zero
Giuseppe Pennisi
lunedì 17 ottobre 2011
Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti (Foto Imagoeconomica)
Approfondisci
IL CASO/ Da imprese e famiglie la "ricetta" contro la crisi, di G. Fabi
TASSE/ L’esperto: ecco l’Ici che può aiutare le famiglie, int. a U. Arrigo
vai al dossier Crisi o ripresa?
Sarebbe futile tentare di prevedere cosa conterrà il Decreto sviluppo in materia di liberalizzazione, l’unica via per la crescita che non comporta oneri per la finanza pubblica. Secondo una ricerca della Banca d’Italia - il “Temi di Discussione” n. 706 - il mark-up e/o la rendita di posizione per i pochi fortunati che ne traggono protezioni e, quindi, vantaggi è un freno tale allo sviluppo che, ove venisse rimosso, ne risulterebbe nell’arco di un quinquennio una crescita del Pil dell’11% circa, dei consumi del 7,7% e degli investimenti del 18%. L’incremento del benessere, misurato in unità di consumo reali, sarebbe del 3,5% e dei salari reali del 12%.
A convalidare le analisi dei ricercatori nostrani di Palazzo Koch ci sono quelle del resto d’Europa. La regolamentazione per dare vita (e far funzionare) il mercato unico europeo ammonta a 150.000 pagine - ancora più carta è stata necessaria per la moneta unica e ammennicoli vari; il costo dei regolamenti Ue su cittadini e imprese è variamente stimato tra l’1% e il 3,5% - un vero ed elevato costo di transazione - del Pil complessivo dell’Europa a 27; lo documenta Alan Hardacre in un saggio pubblicato dall’Eipa (l’Istituto europeo di formazione per la pubblica amministrazione, un ente che non inforca certo occhiali malevoli nei confronti delle istituzioni europee - che lo finanziano).
In Germania, soltanto gli obblighi di fornire informazioni alla burocrazia federale (escludendo quella dei Länder) tocca 40 miliardi di euro l’anno (in base a una stima effettuata su 7.000 dei 10.500 obblighi d’informazione individuati dal Consiglio federale per il Controllo della regolazione); l’ultimo rapporto annuale del Consiglio in questione afferma che si tratta di una stima per difetto, ma che il Governo federale si è impegnato a ridurre costi delle regole su cittadini e imprese del 25% e che, di riffa o di raffa, lo farà (la determinazione teutonica è nota, anzi notoria). I tedeschi hanno preso a modello l’Olanda che, secondo l’“International Regulatory Reform Report 2010”, “è diventata un modello e un leader internazionale in materia di riforma della regolamentazione”.
Anche la Francia (notoriamente statalista e interventista) ci sta andando a fondo: dal 2006, afferma un saggio di Frédéric Bouder, si possono avere in otto giorni tutte le autorizzazioni per fare decollare un’impresa. In Francia, come in America dall’epoca del primo Governo Reagan (misura che nessun Presidente o Congresso successivo ha modificato), tutti i disegni e le proposte di legge dovranno essere corredati non solo di una relazione tecnica relativa all’impatto sul bilancio dello Stato (analoga a quanto predisposto in Italia con l’ausilio della Ragioneria Generale dello Stato), ma anche da un’analisi costi benefici (o costi efficacia) rigorosa relativa a oneri e vantaggi per la collettività.
Una malattia, quindi, comune, aggravata in Italia da un riparto di competenze tra centro e periferia piuttosto caotico a ragione della frettolosa riforma del Titolo V della Costituzione. Il “capitalismo municipale” è, al tempo stesso, vittima e imputato del pullulare di regolazione spesso contraddittoria tra centro e periferia. I dati salienti per l’Italia sono i seguenti: numero di aziende, 369; contributo al Pil nazionale dall’1% al 6% (a seconda della ragione); addetti, 200.000 unità. In Francia le dimensioni sono analoghe. Oltralpe, inoltre, non ci sono le persistenti differenze nei costi del personale e della redditività fra le varia macro-aree (Sud, Centro e Nord) che, secondo analisi recenti della Fondazione Eni Enrico Mattei e dell’Università La Sapienza, caratterizzano l’Italia. Infine, i nuclei francesi a basso reddito erogano per acqua, elettricità e riscaldamento lo 0,075% della spesa familiare - un po’ più dello 0,059% di quelle italiane nella stessa fascia sociale. Proprio a proposito del settore idrico è scoppiata la rivolta quando si è tentato di recepire le regole europee.
Come uscire da questo pasticcio? Il secondo Governo Prodi tentò con le “lenzuolate”. Pierluigi Bersani probabilmente non sa che questo è il metodo seguito dalla Margaret Thatcher e mirabilmente descritto in un libro di Paul Pierson. Tuttavia, ciò che funziona in Gran Bretagna non è necessariamente adatto a un’Italia dove le corporazioni sono molto più radicate. Le lenzuolate hanno reso ben poco.
A mio avviso sono indispensabili due misure: a) una norma costituzionale in base alla quale tutte le leggi, tutti i regolamenti, tutte le circolari sono a termine e dopo un certo numero di anni devono essere riapprovate secondo le procedure con cui sono state varate (non tramite un decreto mille proroghe o simili); b) un “Bing Bang” per far sì che i gruppi di interesse si elidano a vicenda. Se questo proposte non sono buone, se ne facciano altre. I costi e i freni sono tali che non si può eludere il problema.
________________________________________
Giuseppe Pennisi
lunedì 17 ottobre 2011
Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti (Foto Imagoeconomica)
Approfondisci
IL CASO/ Da imprese e famiglie la "ricetta" contro la crisi, di G. Fabi
TASSE/ L’esperto: ecco l’Ici che può aiutare le famiglie, int. a U. Arrigo
vai al dossier Crisi o ripresa?
Sarebbe futile tentare di prevedere cosa conterrà il Decreto sviluppo in materia di liberalizzazione, l’unica via per la crescita che non comporta oneri per la finanza pubblica. Secondo una ricerca della Banca d’Italia - il “Temi di Discussione” n. 706 - il mark-up e/o la rendita di posizione per i pochi fortunati che ne traggono protezioni e, quindi, vantaggi è un freno tale allo sviluppo che, ove venisse rimosso, ne risulterebbe nell’arco di un quinquennio una crescita del Pil dell’11% circa, dei consumi del 7,7% e degli investimenti del 18%. L’incremento del benessere, misurato in unità di consumo reali, sarebbe del 3,5% e dei salari reali del 12%.
A convalidare le analisi dei ricercatori nostrani di Palazzo Koch ci sono quelle del resto d’Europa. La regolamentazione per dare vita (e far funzionare) il mercato unico europeo ammonta a 150.000 pagine - ancora più carta è stata necessaria per la moneta unica e ammennicoli vari; il costo dei regolamenti Ue su cittadini e imprese è variamente stimato tra l’1% e il 3,5% - un vero ed elevato costo di transazione - del Pil complessivo dell’Europa a 27; lo documenta Alan Hardacre in un saggio pubblicato dall’Eipa (l’Istituto europeo di formazione per la pubblica amministrazione, un ente che non inforca certo occhiali malevoli nei confronti delle istituzioni europee - che lo finanziano).
In Germania, soltanto gli obblighi di fornire informazioni alla burocrazia federale (escludendo quella dei Länder) tocca 40 miliardi di euro l’anno (in base a una stima effettuata su 7.000 dei 10.500 obblighi d’informazione individuati dal Consiglio federale per il Controllo della regolazione); l’ultimo rapporto annuale del Consiglio in questione afferma che si tratta di una stima per difetto, ma che il Governo federale si è impegnato a ridurre costi delle regole su cittadini e imprese del 25% e che, di riffa o di raffa, lo farà (la determinazione teutonica è nota, anzi notoria). I tedeschi hanno preso a modello l’Olanda che, secondo l’“International Regulatory Reform Report 2010”, “è diventata un modello e un leader internazionale in materia di riforma della regolamentazione”.
Anche la Francia (notoriamente statalista e interventista) ci sta andando a fondo: dal 2006, afferma un saggio di Frédéric Bouder, si possono avere in otto giorni tutte le autorizzazioni per fare decollare un’impresa. In Francia, come in America dall’epoca del primo Governo Reagan (misura che nessun Presidente o Congresso successivo ha modificato), tutti i disegni e le proposte di legge dovranno essere corredati non solo di una relazione tecnica relativa all’impatto sul bilancio dello Stato (analoga a quanto predisposto in Italia con l’ausilio della Ragioneria Generale dello Stato), ma anche da un’analisi costi benefici (o costi efficacia) rigorosa relativa a oneri e vantaggi per la collettività.
Una malattia, quindi, comune, aggravata in Italia da un riparto di competenze tra centro e periferia piuttosto caotico a ragione della frettolosa riforma del Titolo V della Costituzione. Il “capitalismo municipale” è, al tempo stesso, vittima e imputato del pullulare di regolazione spesso contraddittoria tra centro e periferia. I dati salienti per l’Italia sono i seguenti: numero di aziende, 369; contributo al Pil nazionale dall’1% al 6% (a seconda della ragione); addetti, 200.000 unità. In Francia le dimensioni sono analoghe. Oltralpe, inoltre, non ci sono le persistenti differenze nei costi del personale e della redditività fra le varia macro-aree (Sud, Centro e Nord) che, secondo analisi recenti della Fondazione Eni Enrico Mattei e dell’Università La Sapienza, caratterizzano l’Italia. Infine, i nuclei francesi a basso reddito erogano per acqua, elettricità e riscaldamento lo 0,075% della spesa familiare - un po’ più dello 0,059% di quelle italiane nella stessa fascia sociale. Proprio a proposito del settore idrico è scoppiata la rivolta quando si è tentato di recepire le regole europee.
Come uscire da questo pasticcio? Il secondo Governo Prodi tentò con le “lenzuolate”. Pierluigi Bersani probabilmente non sa che questo è il metodo seguito dalla Margaret Thatcher e mirabilmente descritto in un libro di Paul Pierson. Tuttavia, ciò che funziona in Gran Bretagna non è necessariamente adatto a un’Italia dove le corporazioni sono molto più radicate. Le lenzuolate hanno reso ben poco.
A mio avviso sono indispensabili due misure: a) una norma costituzionale in base alla quale tutte le leggi, tutti i regolamenti, tutte le circolari sono a termine e dopo un certo numero di anni devono essere riapprovate secondo le procedure con cui sono state varate (non tramite un decreto mille proroghe o simili); b) un “Bing Bang” per far sì che i gruppi di interesse si elidano a vicenda. Se questo proposte non sono buone, se ne facciano altre. I costi e i freni sono tali che non si può eludere il problema.
________________________________________
venerdì 14 ottobre 2011
Parma va in scena un Falstaff scanzonato in Milano Finanza 15 ottobre
InScenaA Parma va in scena un Falstaff scanzonato di Giuseppe Pennisi
Fino al 25 ottobre è in scena a Parma un Falstaff speciale. Non viene rappresentato al Teatro Regio ma nel cinquecentesco (ed enorme, da 2.500 posti) Teatro Farnese, costruito per una festa di nozze e quasi mai utilizzato per rappresentazioni. Da qui andrà al Festival Internazionale di Lirica a Hong Kong e, forse, a Shanghai e Pechino prima di approdare di nuovo in Italia la prossima stagione.
Il Teatro Farnese fornisce uno scenario naturale, con pochi elementi.
Jamie Vartan, curatore di scene e costumi, e Stephen Medcalf alla regia rendono lo spettacolo elisabettiano. L'accento è incentrato sugli aspetti chiaramente farseschi, e tralascia la vena di melanconia della riflessione di Verdi sugli stadi della vita e su come coniugare, in ciascuno di essi, un differente modo di amare. Il cast è buono. Spiccano Ambrogio Maestri e Luca Salsi nel gruppo maschile e, nel decisamente migliore gruppo femminile, Svetla Vassileva, Barbara Bargnesi e Romina Tomasoni. Sono tutti anche ottimi attori con dizioni perfette e doti atletiche.
Resta qualche dubbio sulla concertazione del giovane 25enne Andrea Battistoni. La più moderna delle partiture verdiane (lanciata verso il Novecento e senza alcuna concessione al tardo romantico di moda del 1893) è forse ancora troppo complessa per lui. Il Teatro Farnese non è stato costruito per la musica e dunque gli impasti orchestrali che mal si ascoltavano in platea, risuonavano in tutto il loro splendore dalle file alte dell'anfiteatro. (riproduzione riservata)
Fino al 25 ottobre è in scena a Parma un Falstaff speciale. Non viene rappresentato al Teatro Regio ma nel cinquecentesco (ed enorme, da 2.500 posti) Teatro Farnese, costruito per una festa di nozze e quasi mai utilizzato per rappresentazioni. Da qui andrà al Festival Internazionale di Lirica a Hong Kong e, forse, a Shanghai e Pechino prima di approdare di nuovo in Italia la prossima stagione.
Il Teatro Farnese fornisce uno scenario naturale, con pochi elementi.
Jamie Vartan, curatore di scene e costumi, e Stephen Medcalf alla regia rendono lo spettacolo elisabettiano. L'accento è incentrato sugli aspetti chiaramente farseschi, e tralascia la vena di melanconia della riflessione di Verdi sugli stadi della vita e su come coniugare, in ciascuno di essi, un differente modo di amare. Il cast è buono. Spiccano Ambrogio Maestri e Luca Salsi nel gruppo maschile e, nel decisamente migliore gruppo femminile, Svetla Vassileva, Barbara Bargnesi e Romina Tomasoni. Sono tutti anche ottimi attori con dizioni perfette e doti atletiche.
Resta qualche dubbio sulla concertazione del giovane 25enne Andrea Battistoni. La più moderna delle partiture verdiane (lanciata verso il Novecento e senza alcuna concessione al tardo romantico di moda del 1893) è forse ancora troppo complessa per lui. Il Teatro Farnese non è stato costruito per la musica e dunque gli impasti orchestrali che mal si ascoltavano in platea, risuonavano in tutto il loro splendore dalle file alte dell'anfiteatro. (riproduzione riservata)
Sagra Umbra in Musica ottobre
BERNSTEIN Three meditations from (1977) per violoncello e orchestra- per coro, solista e orchestra. FAURE’ Requiem (versione del 1893) per coro, voce bianca solista, baritono , orchestra e organo. Camerata strumentale , New College Oxford Choir, Tetrakis Percussioni. Direttore d’orchestra e del Coro Edward Higginbottom, Alberto Casadei , violoncello, Alessandro Bianconi organo. J. Ward, B. Williamson, A. Learmonth (solisti vocali)
Perugia, Basilica di San Pietro , 11 Settembre
Il tema della 66sima Sagra Musicale Umbra è “Dal Vecchio al Nuovo Mondo” , ossia l’interazione musicale tra l’Europa e le America. La Sagra è dedicata al centenario della nascita di Francesco Siciliani che, per cinquant’anni ne è stato il direttore artistico e l’animatore e che ha avuto un ruolo essenziale nel portare in Italia Leonard Bernstein e la sua musica ed a fare conoscere la ricchezza musicale del Nuovo Continente. In questo spirito , in uno dei concerti iniziali, sono stati giustapposti Bernstein e Fauré facendo perno su complessi e solisti italiani e britannici. I lavori di Bernstein e Fauré hanno un tema che li accomuna: la riflessione sullo splendore dell’Alto, e la morte vista non come una fine ma come un luminoso principio. Lo si avverte chiaramente nel Requiem di Fauré (presentato forse per la prima volta in Italia) nella sua versione originale (prima che venisse esteso e rimaneggiato dai suoi allievi) dove alle tenebre drammatiche del re minore iniziale viene giustapposto il serafico re maggiore finale. Le tre meditazioni di Bernstein si distanziano dalla grandiosità della “Messa” del 1971 , concepite per Mistilav Rostropvich nel 1977 mettono in rilievo non la perdita della Fede del celebrante (tema dell’opera di sei anni prima) ma la fratellanza umana che, quale che sia le religione di ciascun, trova una sua unità nella trascendenza.
Higgingbotton è un noto direttore d’orchestra, specialista non solo di direzione di cori ma anche di musica francese. Il New College Choir è un’istituzione nata nel lontano 1379 e cresciuta grazie a ferrea disciplina e virtuosismo nel vocalizzo; i suoi giovani, da bambini ad adolescenti, hanno fatto più di una tournée che li ha apportati in Italia e si sono fusi perfettamente con la “Camerata” di Prato, un complesso da camera allargato da dimensioni quasi di orchestra sinfonica e con le Tetrakis percussioni.
Due aspetti di rilievo: l’abilità con cui il coro (che la sera precedente aveva eseguito un concerto interamente in inglese) ha scandito con perfezione l’antico ebraico dei “salmi” di Bernstein ed il latino del “requiem” di Fauré. La maestria con cui il ventiquattrenne violoncellista Alberto Casadei ha trattato una composizione ardita concepita (come si è detto) per Rostropvich; non poteva mancare un bis.
Basilica stracolma. Ovazioni al termine del concerto.
Perugia, Basilica di San Pietro , 11 Settembre
Il tema della 66sima Sagra Musicale Umbra è “Dal Vecchio al Nuovo Mondo” , ossia l’interazione musicale tra l’Europa e le America. La Sagra è dedicata al centenario della nascita di Francesco Siciliani che, per cinquant’anni ne è stato il direttore artistico e l’animatore e che ha avuto un ruolo essenziale nel portare in Italia Leonard Bernstein e la sua musica ed a fare conoscere la ricchezza musicale del Nuovo Continente. In questo spirito , in uno dei concerti iniziali, sono stati giustapposti Bernstein e Fauré facendo perno su complessi e solisti italiani e britannici. I lavori di Bernstein e Fauré hanno un tema che li accomuna: la riflessione sullo splendore dell’Alto, e la morte vista non come una fine ma come un luminoso principio. Lo si avverte chiaramente nel Requiem di Fauré (presentato forse per la prima volta in Italia) nella sua versione originale (prima che venisse esteso e rimaneggiato dai suoi allievi) dove alle tenebre drammatiche del re minore iniziale viene giustapposto il serafico re maggiore finale. Le tre meditazioni di Bernstein si distanziano dalla grandiosità della “Messa” del 1971 , concepite per Mistilav Rostropvich nel 1977 mettono in rilievo non la perdita della Fede del celebrante (tema dell’opera di sei anni prima) ma la fratellanza umana che, quale che sia le religione di ciascun, trova una sua unità nella trascendenza.
Higgingbotton è un noto direttore d’orchestra, specialista non solo di direzione di cori ma anche di musica francese. Il New College Choir è un’istituzione nata nel lontano 1379 e cresciuta grazie a ferrea disciplina e virtuosismo nel vocalizzo; i suoi giovani, da bambini ad adolescenti, hanno fatto più di una tournée che li ha apportati in Italia e si sono fusi perfettamente con la “Camerata” di Prato, un complesso da camera allargato da dimensioni quasi di orchestra sinfonica e con le Tetrakis percussioni.
Due aspetti di rilievo: l’abilità con cui il coro (che la sera precedente aveva eseguito un concerto interamente in inglese) ha scandito con perfezione l’antico ebraico dei “salmi” di Bernstein ed il latino del “requiem” di Fauré. La maestria con cui il ventiquattrenne violoncellista Alberto Casadei ha trattato una composizione ardita concepita (come si è detto) per Rostropvich; non poteva mancare un bis.
Basilica stracolma. Ovazioni al termine del concerto.
giovedì 13 ottobre 2011
I LIBRI DEI MINISTRI- GIULIO TREMONTI
LA FINANZA ITALIANA VISTA DALL’ESTERO
Giuseppe Pennisi
Secondo Svetonio, prima delle battaglie importanti, Giulio Cesare passava le notti a leggere (ed a scrivere) . Oggi 14 ottobre, alla Camera si vota la fiducia. Quale che sarà l’esito, le vicende degli ultimi giorni gettano una luce poco favorevole sia sull’attuazione della manovra di Ferragosto (nella veste definitivamente approvata) sia sul programma di crescita. Giulio Cesare si sarebbe rivolto agli aùguri. Non il Ministro, il quale si ritempra con saggi di economia.
Ha appena ricevuto e letto il testo, ancora in corso di pubblicazione, di Georg Erber dell’Istituto tedesco di ricerca economica, il noto DIW di Berlino, nella versione in inglese intitolata “Italy’s Fiscal Crisis”. Erber (particolarmente ascoltato presso il Governo della Repubblica Federale) considera quella italiana “una delle economie più vulnerabili dell’area dell’euro”. Traccia le vicende della finanza pubblica italiana dagli Anni Novanta ad oggi, ponendo l’accento sulla crescita del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Non da molto credito ai vari “piani di rientro” ed a “manovre” grandi e piccole ed afferma che la situazione da “fragile” è diventata “drammatica” in seguito alla crisi internazionale del 2007-2008. Descrive con dettaglio puntiglioso i declassamenti subiti dai nostri titoli di Stato (e non solo) dalle agenzie di rating. Amare le conclusioni: “l’Italia ha di fronte a sé un dilemma: come stimolare la crescita nel breve periodo e ridurre indebitamento e debito sino a rendere sostenibile la situazione della propria finanza pubblica. Anche se gli altri Stati della zona dell’euro si mobilitassero in massa, le prospettive future del Paese restano buie”. Non è certo un lavoro da portare a sonno sereno.
Non è neanche incoraggiante il lavoro di Gabriella Deborah Legrenzi e di Costas Mileas (ambedue di Brunei University) sulla sostenibilità del debito nei GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna) pubblicato dal CESifo di Monaco come Working Paper No. 3594. L’analisi è originale poiché analizza la sostenibilità o meno del debito sulla base di “soglie” variabili in base allo storia recente di ciascun Paese e/o del verificarsi di crisi finanziarie. Viene , quindi, scartata l’ipotesi, piuttosto grezza ma molto frequente, secondo cui il rapporto tra stock di debito e Pil non deve superare una determinata ed immutabile soglia. Secondo i calcoli presentati nel lavoro, però, la soglia ora applicabile all’Italia è uno stock di debito che non superi l’87% del Pil. Quindi, “è naturale che gli operatori internazionali siano preoccupati e chiedano elevati tassi d’interesse”.
Solo leggermente più ottimista Alberto Quadrio Curzio nel saggio pubblicato nel n. 254 di Moneta e Credito . Il lavoro contiene un’analisi sintetica della storia economica e si sofferma, in particolare, sull’evoluzione dell’unione monetaria da quando è scoppiata la crisi economica e finanziaria internazionale: una prima fase caratterizzata da resistenza diversificata (con un aumento dei disavanzi e del debito , principalmente per i salvataggi bancari) seguita da una di ricostruzione. Questa richiede, però, azioni per la crescita.
LA FINANZA ITALIANA VISTA DALL’ESTERO
Giuseppe Pennisi
Secondo Svetonio, prima delle battaglie importanti, Giulio Cesare passava le notti a leggere (ed a scrivere) . Oggi 14 ottobre, alla Camera si vota la fiducia. Quale che sarà l’esito, le vicende degli ultimi giorni gettano una luce poco favorevole sia sull’attuazione della manovra di Ferragosto (nella veste definitivamente approvata) sia sul programma di crescita. Giulio Cesare si sarebbe rivolto agli aùguri. Non il Ministro, il quale si ritempra con saggi di economia.
Ha appena ricevuto e letto il testo, ancora in corso di pubblicazione, di Georg Erber dell’Istituto tedesco di ricerca economica, il noto DIW di Berlino, nella versione in inglese intitolata “Italy’s Fiscal Crisis”. Erber (particolarmente ascoltato presso il Governo della Repubblica Federale) considera quella italiana “una delle economie più vulnerabili dell’area dell’euro”. Traccia le vicende della finanza pubblica italiana dagli Anni Novanta ad oggi, ponendo l’accento sulla crescita del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Non da molto credito ai vari “piani di rientro” ed a “manovre” grandi e piccole ed afferma che la situazione da “fragile” è diventata “drammatica” in seguito alla crisi internazionale del 2007-2008. Descrive con dettaglio puntiglioso i declassamenti subiti dai nostri titoli di Stato (e non solo) dalle agenzie di rating. Amare le conclusioni: “l’Italia ha di fronte a sé un dilemma: come stimolare la crescita nel breve periodo e ridurre indebitamento e debito sino a rendere sostenibile la situazione della propria finanza pubblica. Anche se gli altri Stati della zona dell’euro si mobilitassero in massa, le prospettive future del Paese restano buie”. Non è certo un lavoro da portare a sonno sereno.
Non è neanche incoraggiante il lavoro di Gabriella Deborah Legrenzi e di Costas Mileas (ambedue di Brunei University) sulla sostenibilità del debito nei GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna) pubblicato dal CESifo di Monaco come Working Paper No. 3594. L’analisi è originale poiché analizza la sostenibilità o meno del debito sulla base di “soglie” variabili in base allo storia recente di ciascun Paese e/o del verificarsi di crisi finanziarie. Viene , quindi, scartata l’ipotesi, piuttosto grezza ma molto frequente, secondo cui il rapporto tra stock di debito e Pil non deve superare una determinata ed immutabile soglia. Secondo i calcoli presentati nel lavoro, però, la soglia ora applicabile all’Italia è uno stock di debito che non superi l’87% del Pil. Quindi, “è naturale che gli operatori internazionali siano preoccupati e chiedano elevati tassi d’interesse”.
Solo leggermente più ottimista Alberto Quadrio Curzio nel saggio pubblicato nel n. 254 di Moneta e Credito . Il lavoro contiene un’analisi sintetica della storia economica e si sofferma, in particolare, sull’evoluzione dell’unione monetaria da quando è scoppiata la crisi economica e finanziaria internazionale: una prima fase caratterizzata da resistenza diversificata (con un aumento dei disavanzi e del debito , principalmente per i salvataggi bancari) seguita da una di ricostruzione. Questa richiede, però, azioni per la crescita.
COSA CI DEVE ESSERE NEL DL SVILUPPO (QUALSIASI ALTRA COSA CI SIA) in Il Velino 13 ottobre
COSA CI DEVE ESSERE NEL DL SVILUPPO (QUALSIASI ALTRA COSA CI SIA)
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Può sembrare futile commentare un decreto che non c’è. E farlo, per di più, la sera prima di un importante voto di fiducia. Ossia senza neanche sapere se il Governo ora in carica lo sarà ancora quando detto decreto dovrà andare al vaglio del Consiglio dei ministri, prima, e del Parlamento, poi. Tuttavia, tutti ipotizzano contenuti su questo e su quello aspetto del decreto che sarebbe in cottura.
Mi sono posto il problema in modo differente: cosa deve esserci nel decreto qualsiasi altra cosa ci sia e quale che sia il Governo che lo confeziona e il Parlamento che lo valuta. È un po’ il problema rawlsiano della identificazione dei “beni primari” (ciò che tutti vogliono qualsiasi altra cosa essi vogliano) nella “Teoria della Giustizia” del lontano 1971. Riprendendo in mano la letteratura sulla crescita economica degli ultimi vent’anni ci si accorge che c’è un filone comune: crescono i Paesi e le regioni con i costi di transazione più bassi, ossia quelli ove le transazioni possono essere fatte pagando meno in procedure, bolli e quant’altro e dove, quindi, c’è una forte fiducia reciproca, essenziale per effettuare transazioni senza troppi marchingegni che ne aumentano il costo. È questo il filo conduttore nel rigoglio di nuovi approcci (molti ancora in nuce, alcuni a livello solo teorico ed altri ancora non molto più di uno slogan o di mera affabulazione). Ciò implica il rilancio del neo-istituzionalismo, utilizzando, però, i metodi quantitativi d’analisi sviluppati nei decenti precedenti.
È il nesso che collega le teorie dello sviluppo endogeno a quelle basate sull’applicazione della teoria economica dell’informazione allo sviluppo, a quelle ancora ancorate all’analisi dei costi economici e politici di transazione, alla revisione di alcuni paradigmi di base dell’economia internazionale, all’utilizzazione, a fini esplicativi, di alcuni paradigmi tecnico-economici derivanti dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ad esempio, sono marcatamente e chiaramente neo-istituzionalisti i concetti di fondo degli ultimi “World Development Reports” con i quali si cerca di sistematizzare il fiorire di nuovi approcci. È anche neo-istituzionale il concetto di “social capital”, inteso come il complesso di norme e di reti che consentono agli individui di agire collettivamente. Siamo alle prese – dice acutamente O.E. Williamson – con un “calderone di idee”, molte in competizione le une con le altre, sia in materia di storia economica e sviluppo di norme sociali e quindi di capitale sociale sia in materia di costi di transazione, sia nel campo della comprensione e modellizzazione dei rapporti semi-contrattuali informali sia in quello dell’economia evoluzionaria.
Pure un concetto di base sia alle teorie dello sviluppo endogeno sia ai vari filoni dell’economia neo-istituzionale, quale quello del “sentiero pre-determinato” (“path dependence”), viene interpretato in modo giustapposto e divergente dalle varie scuole di pensiero. Ciascuna di esse, infine, pare seguire un proprio filone distinto di analisi e ricerca nell’ambito di una vasta area neo-istituzionale interdisciplinare in cui gli strumenti dell’economista devono fondersi con quello dello scienziato della politica, dello storico, dello psicologo e dell’esperto in problemi dell’amministrazione e della gestione. Un filone, paradossalmente, particolarmente consono alla formazione interdisciplinare del giornalista economico.
Ma torniamo a come ridurre i costi di transazione che in Italia sono più alti che negli altri Paesi dell’eurozona e di buona parte dei Paesi Ocse. Non basta costituzionalizzare che è lecito tutto ciò che non è vietato per legge. Occorre: a) costituzionalizzare che tutte le leggi (e regolamenti e circolari varie) siano “a termine” (una “sunset regulation” generalizzata) per impedire il formarsi di un Himalaya di norme; b) dimezzare il numero degli eletti (a tutti i livelli); c) mettere in soffitta il bicameralismo; e d) incidere sui comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e politica. Douglas Cecil North ha preso il Nobel per avere dimostrato non solo che è possibile ma che negli ultimi cinquecento anni chi lo ha fatto è corso più rapidamente degli altri. Sotto il profilo teorico lo si ottiene con “giochi ripetuti” in modo che tutti si abituino a seguire le stesse regole - se possibile quelle di chi è più produttivo e più competitivo.
Senza una drastica riduzione dei costi di transazione, qualsiasi altra misura presente nel decreto sviluppo, non riuscirà a mordere. (ilVelino/AGV NEWS)
(Giuseppe Pennisi) 13 Ottobre 2011 17:50
Edizione completa
Stampa l'articolo
Roma - Può sembrare futile commentare un decreto che non c’è. E farlo, per di più, la sera prima di un importante voto di fiducia. Ossia senza neanche sapere se il Governo ora in carica lo sarà ancora quando detto decreto dovrà andare al vaglio del Consiglio dei ministri, prima, e del Parlamento, poi. Tuttavia, tutti ipotizzano contenuti su questo e su quello aspetto del decreto che sarebbe in cottura.
Mi sono posto il problema in modo differente: cosa deve esserci nel decreto qualsiasi altra cosa ci sia e quale che sia il Governo che lo confeziona e il Parlamento che lo valuta. È un po’ il problema rawlsiano della identificazione dei “beni primari” (ciò che tutti vogliono qualsiasi altra cosa essi vogliano) nella “Teoria della Giustizia” del lontano 1971. Riprendendo in mano la letteratura sulla crescita economica degli ultimi vent’anni ci si accorge che c’è un filone comune: crescono i Paesi e le regioni con i costi di transazione più bassi, ossia quelli ove le transazioni possono essere fatte pagando meno in procedure, bolli e quant’altro e dove, quindi, c’è una forte fiducia reciproca, essenziale per effettuare transazioni senza troppi marchingegni che ne aumentano il costo. È questo il filo conduttore nel rigoglio di nuovi approcci (molti ancora in nuce, alcuni a livello solo teorico ed altri ancora non molto più di uno slogan o di mera affabulazione). Ciò implica il rilancio del neo-istituzionalismo, utilizzando, però, i metodi quantitativi d’analisi sviluppati nei decenti precedenti.
È il nesso che collega le teorie dello sviluppo endogeno a quelle basate sull’applicazione della teoria economica dell’informazione allo sviluppo, a quelle ancora ancorate all’analisi dei costi economici e politici di transazione, alla revisione di alcuni paradigmi di base dell’economia internazionale, all’utilizzazione, a fini esplicativi, di alcuni paradigmi tecnico-economici derivanti dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ad esempio, sono marcatamente e chiaramente neo-istituzionalisti i concetti di fondo degli ultimi “World Development Reports” con i quali si cerca di sistematizzare il fiorire di nuovi approcci. È anche neo-istituzionale il concetto di “social capital”, inteso come il complesso di norme e di reti che consentono agli individui di agire collettivamente. Siamo alle prese – dice acutamente O.E. Williamson – con un “calderone di idee”, molte in competizione le une con le altre, sia in materia di storia economica e sviluppo di norme sociali e quindi di capitale sociale sia in materia di costi di transazione, sia nel campo della comprensione e modellizzazione dei rapporti semi-contrattuali informali sia in quello dell’economia evoluzionaria.
Pure un concetto di base sia alle teorie dello sviluppo endogeno sia ai vari filoni dell’economia neo-istituzionale, quale quello del “sentiero pre-determinato” (“path dependence”), viene interpretato in modo giustapposto e divergente dalle varie scuole di pensiero. Ciascuna di esse, infine, pare seguire un proprio filone distinto di analisi e ricerca nell’ambito di una vasta area neo-istituzionale interdisciplinare in cui gli strumenti dell’economista devono fondersi con quello dello scienziato della politica, dello storico, dello psicologo e dell’esperto in problemi dell’amministrazione e della gestione. Un filone, paradossalmente, particolarmente consono alla formazione interdisciplinare del giornalista economico.
Ma torniamo a come ridurre i costi di transazione che in Italia sono più alti che negli altri Paesi dell’eurozona e di buona parte dei Paesi Ocse. Non basta costituzionalizzare che è lecito tutto ciò che non è vietato per legge. Occorre: a) costituzionalizzare che tutte le leggi (e regolamenti e circolari varie) siano “a termine” (una “sunset regulation” generalizzata) per impedire il formarsi di un Himalaya di norme; b) dimezzare il numero degli eletti (a tutti i livelli); c) mettere in soffitta il bicameralismo; e d) incidere sui comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e politica. Douglas Cecil North ha preso il Nobel per avere dimostrato non solo che è possibile ma che negli ultimi cinquecento anni chi lo ha fatto è corso più rapidamente degli altri. Sotto il profilo teorico lo si ottiene con “giochi ripetuti” in modo che tutti si abituino a seguire le stesse regole - se possibile quelle di chi è più produttivo e più competitivo.
Senza una drastica riduzione dei costi di transazione, qualsiasi altra misura presente nel decreto sviluppo, non riuscirà a mordere. (ilVelino/AGV NEWS)
(Giuseppe Pennisi) 13 Ottobre 2011 17:50
mercoledì 12 ottobre 2011
Festival Verdi: in bolletta ma ricco di idee Quotidiano Arte 13 ottobre
Un ballo in maschera, Teatro Regio oggi, 20, 23 ottobre. Falstaff, Teatro Farnese 15, 22, 25 ottobre
Festival Verdi: in bolletta ma ricco di idee
Giuseppe Pennisi
Il Festival Verdi 2011 è in bolletta: pare che debbano ricevere i compensi anche artisti della scorsa tornata. Ritardi nei finanziamenti istituzionali, difficoltà di alcuni sponsor e la crisi generale ne sono le determinanti principali. Anche e la biglietteria non fa difetto. Ma le idee non mancano; presenta con due nuovi allestimenti (“Un ballo in maschera” e “Falstaff”), un’opera in forma di concerto con cantanti giovani a Bussetto (“Il Trovatore”), il “Requiem” diretto da Juriy Temirkanov e una ricca serie di appuntamenti didattici e concertistici.
Per “Un Ballo” regia, scene, costumi e luci sono affidati a Massimo Gasparon che ha ritrovato, nei magazzini, i reperti di un allestimento curato un quarto di secolo fa da Pierluigi Samaritani; ha rimesso a nuovo quel che poteva e lo ha integrato con nuovi elementi. Uno spettacolo visivamente molto bello con scene dipinte, non costruite, che ricordano la Vanvitelliana Regia di Caserta o Versailles, Gianluigi Gelmetti affronta, con equilibrio accurato in questa opera anfibia, legata da un lato a convenzioni del passato e slanciata da un altro verso, l’innovazione . Lo assecondano voci di spessore. Francesco Meli, da tenore lirico mozartiano a tenore “spinto” verdiano; c’è chi parla di “nuovo Pavarotti”. Vladimir Stoyanov è un baritono verdiano di razza: il suo “Eri Tu!” è d’antologia. Kristin Lewis ha ormai una dizione italiana perfetta, è un soprano drammatico di qualità. Serena Gamberoni ha affrontato con disinvolta bravura le colorature richieste al personaggio di Oscar. Elisabetta Fiorillo è una rodatissima Ulrica.
“Falstaff” viene rappresentato nel Teatro Farnese di Parma. Con pochi elementi scenici di Jaime Vartan, Stephen Medcalf costruisce una vera farsa elisabettiana, rinunciando ai toni melanconici che l’ottantenne Giuseppe Verdi mise in quella che è una riflessione sulla sua vita. Ottimo il cast, in cui spiccano Ambrogio Maestri, Luca Salsi e tutto il gruppo femminile guidato da Svetla Vassilleva. Difficile giudicare la concertazione del venticinquenne Andrea Battistoni; in platea gli impasti lasciavano a desiderare, ma dalle file alte dell’anfiteatro il suono era nettamente migliore.
Festival Verdi: in bolletta ma ricco di idee
Giuseppe Pennisi
Il Festival Verdi 2011 è in bolletta: pare che debbano ricevere i compensi anche artisti della scorsa tornata. Ritardi nei finanziamenti istituzionali, difficoltà di alcuni sponsor e la crisi generale ne sono le determinanti principali. Anche e la biglietteria non fa difetto. Ma le idee non mancano; presenta con due nuovi allestimenti (“Un ballo in maschera” e “Falstaff”), un’opera in forma di concerto con cantanti giovani a Bussetto (“Il Trovatore”), il “Requiem” diretto da Juriy Temirkanov e una ricca serie di appuntamenti didattici e concertistici.
Per “Un Ballo” regia, scene, costumi e luci sono affidati a Massimo Gasparon che ha ritrovato, nei magazzini, i reperti di un allestimento curato un quarto di secolo fa da Pierluigi Samaritani; ha rimesso a nuovo quel che poteva e lo ha integrato con nuovi elementi. Uno spettacolo visivamente molto bello con scene dipinte, non costruite, che ricordano la Vanvitelliana Regia di Caserta o Versailles, Gianluigi Gelmetti affronta, con equilibrio accurato in questa opera anfibia, legata da un lato a convenzioni del passato e slanciata da un altro verso, l’innovazione . Lo assecondano voci di spessore. Francesco Meli, da tenore lirico mozartiano a tenore “spinto” verdiano; c’è chi parla di “nuovo Pavarotti”. Vladimir Stoyanov è un baritono verdiano di razza: il suo “Eri Tu!” è d’antologia. Kristin Lewis ha ormai una dizione italiana perfetta, è un soprano drammatico di qualità. Serena Gamberoni ha affrontato con disinvolta bravura le colorature richieste al personaggio di Oscar. Elisabetta Fiorillo è una rodatissima Ulrica.
“Falstaff” viene rappresentato nel Teatro Farnese di Parma. Con pochi elementi scenici di Jaime Vartan, Stephen Medcalf costruisce una vera farsa elisabettiana, rinunciando ai toni melanconici che l’ottantenne Giuseppe Verdi mise in quella che è una riflessione sulla sua vita. Ottimo il cast, in cui spiccano Ambrogio Maestri, Luca Salsi e tutto il gruppo femminile guidato da Svetla Vassilleva. Difficile giudicare la concertazione del venticinquenne Andrea Battistoni; in platea gli impasti lasciavano a desiderare, ma dalle file alte dell’anfiteatro il suono era nettamente migliore.
martedì 11 ottobre 2011
VERDI IL FESTIVAL E’ POVERO MA AGUZZA L’INGEGNO Il Riformista del 12 ottobre
.
VERDI IL FESTIVAL E’ POVERO MA AGUZZA L’INGEGNO
Beckmesser
Vi ricordate “Fiddler on the Roof” , la commedia musicale che è stata uno dei maggiori successi a Broadway a New York e nel West End di Londra? In momento topico, il protagonista Tevye, bracciante ebreo nella Russia zarista, rammenta alle cinque figlie, bisognose di dote per convolare a nozze, che “non bisogna vergognarsi di essere poveri, ma non è neanche detto che se ne debba essere orgogliosi”. E’ probabilmente il messaggio che Mauro Meli, Sovrintendente del Regio di Parma, ha lanciato a colleghi e collaboratori nell’approntare l’edizione 2011 del Festival Verdi. Il contesto è noto: i finanziamenti ministeriali pare abbiano ritardi biblici, alcuni sponsor s si sono tirati indietro a ragione della crisi economica, l’amministrazione comunale è nel caos. Si presenta con due nuovi allestimenti (“Un Ballo in Maschera” e “Falstaff”), un’opera in forma di concerto con cantanti giovani a Bussetto (“Il Trovatore”), il “Requiem” diretto da Juriy Temirkanov ed una ricca serie di appuntamenti (da “Impara l’Opera” per i giovani, a concerti).
“Un Ballo” è molto differente da quello visto alcuni mesi fa a Macerata.Regia, scene , costumi e luci sono affidati a Massimo Gasparon, il quale, come Tevye, sa che la povertà aguzza l’ingegno. Ha ritrovato, nei magazzini del “Regio” di Parma, i reperti di un allestimento curato un quarto di secolo fa da Pierluigi Samaritani; ha rimesso a nuovo quel che poteva e lo ha integrato con nuovi elementi. Uno spettacolo visivamente molto bello con scene dipinte, non costruite, che ricordano la Vanvitelliana Regia di Caserta o Versailles. Essenziali, ma eleganti, le danze curate da Roberto Maria Pizzuto.
Gianluigi Gelmetti affronta con equilibrio accurato in questa opera anfibia, legata da un lato a convenzioni del passato (quali l’impiego di un soprano di coloratura “en travesti”) e slanciata da un altro verso l’innovazione di costruzione musicale per scene intere non per numeri. Lo assecondano voci di spessore. Francesco Meli,da tenore lirico mozartiano a tenore “spinto” verdiano; c’è chi parla di “nuovo Pavarotti”.Vladimir Stoyanov è un baritono verdiano di razza: il suo “Eri Tu!” è d’antologia. Kristin Lewis ha ormai una dizione italiana perfetta , è un soprano drammatico di qualità. Serena Gamberoni ha affrontato con disinvolta bravura le colorature richieste al personaggio di Oscar. Elisabetta Fiorillo è una rodatissima Ulrica.Bravi tutti gli altri. Uno spettacolo d’antan, ma platea, palchi e loggione esultano.
“Falstaff” viene rappresentato nel “Teatro Farnese”(una sala con scalinate costruita nel sedicesimo secolo per una festa di nozze). Con pochi elementi scenici di Jaime Vartan , Stephen Medcalf costruisce una vera farsa elisabettiana, rinunciando ai toni melanconici che l’ottantenne Giuseppe Verdi mise in quella che una riflessione sulla sua vita. Ottimo il cast, in cui spiccano Ambrogio Maestri, Luca Salsi e tutto il gruppo femminile guidato Svetla Vassilleva. Difficile giudicare la concertazione del venticinquenne Andrea Battistoni; in platea gli impasti lasciavano a desiderare, ma dalle file alte dell’anfiteatro il suono era nettamente migliore. Si tratta della più difficile partitura di Verdi, senza un cenno tardo-romantico, e rivolta verso l’avvenire. Lo spettacolo andrà al Festival Internazionale di Hong Kong e forse anche a Shangai e Pechino.
VERDI IL FESTIVAL E’ POVERO MA AGUZZA L’INGEGNO
Beckmesser
Vi ricordate “Fiddler on the Roof” , la commedia musicale che è stata uno dei maggiori successi a Broadway a New York e nel West End di Londra? In momento topico, il protagonista Tevye, bracciante ebreo nella Russia zarista, rammenta alle cinque figlie, bisognose di dote per convolare a nozze, che “non bisogna vergognarsi di essere poveri, ma non è neanche detto che se ne debba essere orgogliosi”. E’ probabilmente il messaggio che Mauro Meli, Sovrintendente del Regio di Parma, ha lanciato a colleghi e collaboratori nell’approntare l’edizione 2011 del Festival Verdi. Il contesto è noto: i finanziamenti ministeriali pare abbiano ritardi biblici, alcuni sponsor s si sono tirati indietro a ragione della crisi economica, l’amministrazione comunale è nel caos. Si presenta con due nuovi allestimenti (“Un Ballo in Maschera” e “Falstaff”), un’opera in forma di concerto con cantanti giovani a Bussetto (“Il Trovatore”), il “Requiem” diretto da Juriy Temirkanov ed una ricca serie di appuntamenti (da “Impara l’Opera” per i giovani, a concerti).
“Un Ballo” è molto differente da quello visto alcuni mesi fa a Macerata.Regia, scene , costumi e luci sono affidati a Massimo Gasparon, il quale, come Tevye, sa che la povertà aguzza l’ingegno. Ha ritrovato, nei magazzini del “Regio” di Parma, i reperti di un allestimento curato un quarto di secolo fa da Pierluigi Samaritani; ha rimesso a nuovo quel che poteva e lo ha integrato con nuovi elementi. Uno spettacolo visivamente molto bello con scene dipinte, non costruite, che ricordano la Vanvitelliana Regia di Caserta o Versailles. Essenziali, ma eleganti, le danze curate da Roberto Maria Pizzuto.
Gianluigi Gelmetti affronta con equilibrio accurato in questa opera anfibia, legata da un lato a convenzioni del passato (quali l’impiego di un soprano di coloratura “en travesti”) e slanciata da un altro verso l’innovazione di costruzione musicale per scene intere non per numeri. Lo assecondano voci di spessore. Francesco Meli,da tenore lirico mozartiano a tenore “spinto” verdiano; c’è chi parla di “nuovo Pavarotti”.Vladimir Stoyanov è un baritono verdiano di razza: il suo “Eri Tu!” è d’antologia. Kristin Lewis ha ormai una dizione italiana perfetta , è un soprano drammatico di qualità. Serena Gamberoni ha affrontato con disinvolta bravura le colorature richieste al personaggio di Oscar. Elisabetta Fiorillo è una rodatissima Ulrica.Bravi tutti gli altri. Uno spettacolo d’antan, ma platea, palchi e loggione esultano.
“Falstaff” viene rappresentato nel “Teatro Farnese”(una sala con scalinate costruita nel sedicesimo secolo per una festa di nozze). Con pochi elementi scenici di Jaime Vartan , Stephen Medcalf costruisce una vera farsa elisabettiana, rinunciando ai toni melanconici che l’ottantenne Giuseppe Verdi mise in quella che una riflessione sulla sua vita. Ottimo il cast, in cui spiccano Ambrogio Maestri, Luca Salsi e tutto il gruppo femminile guidato Svetla Vassilleva. Difficile giudicare la concertazione del venticinquenne Andrea Battistoni; in platea gli impasti lasciavano a desiderare, ma dalle file alte dell’anfiteatro il suono era nettamente migliore. Si tratta della più difficile partitura di Verdi, senza un cenno tardo-romantico, e rivolta verso l’avvenire. Lo spettacolo andrà al Festival Internazionale di Hong Kong e forse anche a Shangai e Pechino.
Iscriviti a:
Post (Atom)