ECO - Potrà l’eurozona vivere felice (dopo le vicende dell’ultimo anno)?
di Giuseppe Pennisi
Roma, 21 apr (Il Velino) - A questa domanda l’economista Marcello Messori risponde con un “ma” e con un “se” in un Policy Brief diramato dal CEPS (Center for European Policy Studies); a suo avviso, il meccanismo di stabilizzazione finanziaria in corso di messa a punto potrebbe evitare che l’unione monetaria europea faccia la fine di gran parte di quelle istituite nel dopoguerra e regga l’urto dei mercati internazionali. Quasi simultaneamente lo stesso CEPS ha diramato, ai propri abbonati, un Policy Brief di Christian Robert Kopf, direttore del servizio analisi economica di Spinnaker Capital Limited, dal titolo “Restoring European Financial Stability” in cui sostiene che la stabilità finanziaria nell’area può tornare unicamente se si accettano insolvenze programmate e concordate degli Stati con un alto debito estero (e con la difficoltà di rifinanziarlo) anche ove ciò comportasse perdite serie a banche di altri Stati dell’eurozona che hanno fatto loro credito. Due visioni, quindi, differenti ma ambedue con più di una punta di scetticismo sul futuro dell’euro come lo conosciamo oggi. È difficile sapere se il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, abbia avuto accesso a queste analisi quando ha parlato della necessità di rimettere profondamente mano ai trattati istitutivi dell’unione monetaria (l’ultimo dei tanti aggiornamenti è stato appena firmato ed è in fase di ratifica).
Cerchiamo di rispondere alla risposta di Messori e di fare il punto su come dare un assetto più promettente all’eurozona. In primo luogo, i nostri 17 non vivranno felici e contenti dopo gli ultimi ritocchi: l’eurozona è nata male (lo ho documentato in una rubrica quotidiana su “Il Foglio” nel 1996-1998 e in un saggio su “La Rivista di Politica Economica” del 1999) ed è stata rappezzata peggio. Decisa per ragioni puramente politiche (impedire che l’unificazione tedesca comportasse costi elevati agli altri Stati dell’Unione Europea), si è basata su un percorso programmato a tappe che riguardava la convergenza di finanza pubblica e di alcuni aspetti dei mercati finanziari (i tassi d’inflazione) senza tenere conto che il nodo erano le differenze nelle strutture di produzione, nei comportamenti dei soggetti economici, negli andamenti della produttività e nella mobilità effettiva (non solo legale) dei fattori di produzione.
Sostituite le monete nazionali con l’euro, poco o nulla è stato fatto perché Eurolandia diventasse un’area valutaria ottimale. Inoltre, l’euro non è stato il grimaldello per far sì che le politiche economiche e i comportamenti dei soggetti economici fossero in linea con la nuova occupazione. Ha invece prevalso l’opportunismo più smaccato di cui l’indebitamento sino al collo grazie a bassi tassi d’interesse è unicamente uno degli aspetti. Un altro (che riguarda l’Italia) è la mancata liberalizzazione da lacci e laccioli e la lilliputtizzazione delle imprese anche a ragione di una normativa sul lavoro che comporta una selezione avversa (per non superare i 15 dipendenti).
Cosa fare? Uscire dall’eurozona comporta perdite stimabili in quattro punti percentuali del Pil (e un balzo spaventoso della disoccupazione). Credo ci siamo percorsi meno costosi come indicato dalla graduale “dedollarizzazione” (unioni monetarie unilaterali) del Perù e dell’Ecuador e, di converso, dalla repentina (e costosissima) “dedollarizzazione” dell’Argentina. Non si tratterebbe di tornare bruscamente a lira, franco, dracma e via discorrendo, ma di definire un percorso a tappe per formalizzare ciò che è già nei fatti: un sistema in cui valute che - pur chiamandosi tutte “euro” - hanno valori internazionali differenti.
(Giuseppe Pennisi) 21 apr 2011 10:49
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