L'Italia "appalta" all'estero il Piano delle riforme
Giuseppe Pennisi
giovedì 14 aprile 2011
Giulio Tremonti insieme a Roberto Calderoli e Maurizio Sacconi nella conferenza stampa seguita al Consiglio dei ministri di ieri (Ansa)
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È naturalmente difficile commentare il Programma nazionale di riforma (Pnr) se, al momento in cui iniziamo a scrivere questa nota (alle 19:00 del 13 aprile 2011), il testo ufficiale completo non è stato ancora diramato (neanche per via elettronica) e il comunicato del Consiglio dei ministri tenuto nel primo pomeriggio per esaminare il Pnr è molto scarno. Dal sito del Governo si apprende che il Pnr è stato “approvato”. Da alcuni giornali sappiamo che il documento consta di circa 100 pagine e delinea una strategia macroeconomica quale quella già anticipata su queste pagine lunedì 11 aprile.
In breve, l’aumento del tasso di crescita dall’1% nel 2011 all’1,5% nel 2013 (non certo spettacolare) dipenderebbe quasi interamente dall’aumento del tasso d’investimento, pilotato, ove non trainato, da quello in opere pubbliche. Se il testo integrale del documento lo conferma, ci si è basati su un modello econometrico aggregato del tipo Harrod-Domar - molto in uso negli Anni Cinquanta e Sessanta, ma già nel 1968 severamente criticato in un saggio breve, ma magistrale, dell’allora giovane Paul Streeten.
Naturalmente, la modellistica del Dipartimento del Tesoro non è così rozza. Il modello Harrod-Domar viene integrato con elementi della modellistica alla Klein in cui la variabile esogena più importante è l’andamento del commercio internazionale; infatti, a “tirare” il tasso di crescita dell’1% all’1,5% sarebbero non solo l’aumento dell’investimento, ma anche quello delle esportazioni (al traino di una crescita del commercio internazionale e di un miglioramento della competitività del “made in Italy”).
Perché iniziare una nota sul Pnr parlando di econometria? Sinora le informazioni disponibili (anche una copia “ufficiosa” ricevuta alle 19:20) riguardano unicamente o principalmente l’aspetto macroeconomico e trattano solo sporadicamente, ove non marginalmente, di riforme. I tre documenti pubblicati intorno alle 20:00 sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze confermano questa impressione: descrivono, infatti, con dovizia di elementi il quadro macroeconomico (e includono un dettagliato allegato tecnico sulle metodologie di previsioni), illustrano con altrettanta dovizia di dati le riforme già fatte (da quella previdenziale, a quella universitaria, al federalismo demaniale e via discorrendo) e le riforme in fase di attuazione. Sono, però, molto vaghi su quelle future, quelle che avrebbero dovuto dare la frustata per accelerare la crescita e portarla al 3-4% l’anno.
Le variabili del programma sono essenzialmente: a) un maggiore tasso d’investimento rispetto al passato recente; b) un miglioramento della performance sui mercati internazionali. Questa seconda variabile - è vero- è agganciata, a sua volta, a misure per allineare i salari alla produttività, far crescere quast'ultima, aumentare il tasso di attività di donne, giovane e anziani. Non viene, però, specificato (almeno per il momento) come raggiungere questi obiettivi, ciascuno dei quali richiede riforme profonde e nella regolazione del mercato del lavoro e nei comportamenti delle imprese.
Non mancano auspici ad aprire ulteriormente il mercato dei servizi e delle industrie a rete e a migliorare il contesto imprenditoriale attraverso una più marcata efficienza amministrativa, a incrementare la spesa privata in ricerca e sviluppo e ad alzare la qualità del capitale umano. Ancora una volta, le informazioni disponibili non danno alcuna specifica di quali riforme si intendono fare, né di come si pensa di farle.
Ancora più nebulosa, la situazione della prima variabile: l’aumento dell’investimento pubblico. Solo meno di due settimane fa si è tentato di fare una rassegna del parco progetti disponibile: mentre è molto vasto quello dei progetti chiamati “definitivi”,molti di essi non sono “esecutivi” e tra gli “esecutivi” soltanto una frazione è dotata dei computi metrici essenziali per aprire un cantiere. Se questo nodo non viene sciolto - fornendo, ad esempio, informazioni sull’impiego del fondo per la progettazione creato nel 1999 presso il Cipe - , si ha l’impressione di essere alle prese con una mera esercitazione econometrica Harrod-Domar/Klein.
C’è un campo - tuttavia - in cui si avverte odor di riforma: il fisco. Gli strumenti sarebbero il taglio delle agevolazioni (seguendo le proposte di una Commissione istituita all’uopo) e l’applicazione della “fiscalità di vantaggio” per le aree in ritardo di sviluppo. Il primo implica riscrivere il codice tributario italiano: obiettivo importante, ma i cui frutti non saranno immediati. Il secondo dipende dall’esito di un non facile negoziato con i nostri partner Ue. Se ne sente molto meno in materia di liberalizzazioni e privatizzazioni. E, pour cause, dati gli orientamenti che paiono guadagnare terreno in campo di politica industriale.
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