Il vaso scoperchiato
dall'Opa di Lactalis
di Giuseppe Pennisi
L’annuncio dell’Opa di Lactalis nei confronti di Parmalat non poteva non creare dibattiti e polemiche. Sono temi su cui un economista ha molto poco da dire in quanto non si sa quasi nulla dei suoi contenuti e dei suoi aspetti principali, in particolare se l’offerta è totalitaria o riguarda unicamente il controllo della maggioranza o poco di più e chi si accollerà e come verrà accollato l’indebitamento dell’azienda di Collecchio.
Il dibattito e le polemiche, quindi, riguardano temi troppo vaghi – gli scarsi investimenti esteri in Italia, la necessità di “giganti “ europei in grado di tenere testa a quelli americani, russi e asiatici, la perdita (vera o presunta) di “italianità” di una parte importante del nostro manifatturiero – perché ne possa formulare un giudizio chi è uso a lavorare con cifre e non con prese di posizione di principio. Tali dibattiti e polemiche lasciano il tempo che trovano. È fin troppo ovvio, ad esempio, che l’italianità si tutela non con la proprietà ma con l’efficienza, la produttività, l’innovazione di processo e di prodotto oppure con l’essere global player nel mercato globale. Ed essere parte di un global player ed averne voce in capitolo nelle strategia può non essere affatto una cattiva soluzione.
In attesa di disporre delle cifre e di analizzarle, occorre comunque dire che, per l’Italia, diventare un boccone prelibato per una delle maggiori multinazionali dell’agro-alimentare con casa madre in Francia, è stata un’amara sconfitta. Alla sconfitta, si aggiunge la beffa dell’annuncio dell’Opa proprio nel giorno in cui si verificava il vertice bilaterale inter-governativo Italia Francia, ospitato a Roma. Non solo. Avviene anche nel giorno in cui, su pressione franco-statunitense il governo annuncia bombardamenti in Libia e si scatena una polemica all’interno della maggioranza.
I “retroscenisti di professione” sussurrano che si tratta di un accordo sottobanco per facilitare l’ascesa di un italiano al vertice della Banca centrale europea (Bce). Se ciò fosse, sarebbe un segno di scarsa conoscenza e delle organizzazioni internazionali e dell’uomo di cui si parla. Come richiesto dagli statuti Bce, l’uomo si spoglierebbe della sua “italianità” e indosserebbe panni europei.
Responsabilità di un governo dilaniato da fazioni nonostante una maggioranza che sembra robusta? Sarebbe puerile affermarlo. Il nodo è nell’industria italiana che negli ultimi trent’anni, spinta anche da varie normative, si è disarticolata in piccole aziende e ha perso produttività. Come ho sottolineato in altra sede, particolarmente importante la ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen in Germania e quello Peugeot in Francia possono essere presi come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Francia e Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento