Economia e Finanza
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ITALIA-FRANCIA/ Dopo la "sconfitta" su Parmalat a che serve un fondo strategico?
Giuseppe Pennisi
giovedì 28 aprile 2011
Foto Ansa
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Le più vaste polemiche politiche ed economiche dei giorni scorsi hanno fatto sì che la creazione di un “fondo strategico” per le imprese sia stata dibattuta unicamente tra pochi specialisti. Si tratta, invece, di un tema importante, dei cui precedenti molti tra coloro scesi in campo sembrano essersi dimenticati. Dai precedenti del “fondo”, e dalle sue potenzialità, si deduce che esso prescinde dal suo eventuale impiego nella questione immediata di politica industriale nell’agroalimentare relativa al futuro della Parmalat. Anzi, ove si fosse pensato di utilizzare il fondo strategico per l’operazione Parmalat, essa avrebbe dovuto avere forti caratteristiche innovative di organizzazione e processo, risultanti in un aumento della produttività.
Verosimilmente pensando alla vicenda Parmalat-Lactalis, l’economista, ed ex Commissario Consob, Salvatore Bragantini è andato lancia in resta contro il progetto, affermando che si tratta di una mera misura protezionista per impedire l’ennesima scalata francese nei confronti di aziende italiane (quella che ha come protagoniste Parmalat e Lactalis); a suo parere, il fondo rischia di «essere peggiore del male che vuole curare», in quanto scoraggerebbe gli investimenti italiani, rischiando di dar vita a una pericolosa commistione tra politica e imprese.
Non è chiaro quale è il punto di vista di Confindustria. Oppure se ne ha uno. Nel contempo, lo scorso 12 aprile è stato modificato lo statuto della Cassa depositi e prestiti, Cdp (che è una società per azioni controllata al 70% dal ministero dell’Economia, mentre il restante 30% è in mano a 66 fondazioni bancarie). Ora l’istituto può acquisire partecipazioni rilevanti in società di interesse nazionale, in applicazione al decreto anti-scalate, approvato a fine marzo dal Consiglio dei Ministri.
Il fondo italiano è simile al Fonds stratégique d’investissement francese, nonostante ci siano alcune differenze di rilievo: mentre nello statuto della Cdp si parla di generiche “società di interesse nazionale”, nell’analogo ente francese sono definiti con molta chiarezza i settori economici considerati strategici; inoltre, in quello francese si precisa che deve trattarsi di partecipazioni “minoritarie”, mentre in quello italiano si parla di “partecipazioni rilevanti”.
Sono differenze meno importanti di quel che possa sembrare a una lettura superficiale: l’individuazione dei comparti “strategici” è, nella formulazione italiana, rinviata a deliberazioni successive; “partecipazione rilevante” non vuole necessariamente dire “maggioritaria” e, d’altro canto, spesso partecipazioni “minoritarie” non solo “rilevanti”, ma “determinanti” - veri e propri azionisti-chiave di riferimento.
Per comprendere la logica del Fonds stratégique d’Oltralpe occorre fare un passo indietro. Nel dicembre 2004, la Francia ha proposto formalmente in sede Ue la creazione di un’Agenzia europea per l’innovazione industriale, in partnership tra pubblico e privato, in seguito al “Rapport Beffa", dal nome del Presidente della St. Gobain, Jean-Louis Beffa, a cui il Presidente Chirac aveva affidato l’incarico di proporre nuove linee di politica industriale. Ricordiamoci che allora l’Ue era alle prese con una “strategia di Lisbona” per diventare l’area economica più dinamica della comunità internazionale entro il 2010; c’era già grande consapevolezza che la strategia arrancava, anche se nessuno prevedeva la crisi che si sarebbe scatenata a metà 2007.
Accanto ad alcuni spunti dirigistici (il “colbertismo” presente nella cultura economica francese sin dai tempi di Luigi XIV), il Rapport Beffa conteneva molte buone idee - principalmente la partnership pubblico-privato attorno a un limitato numero di grandi progetti di trasformazione tecnologica (pure per le piccole e medie imprese). È importante anche sottolineare che, all’epoca, tanto il ministro delle Attività Produttive, Antonio Marzano, quanto, e ancora di più, il viceministro, Adolfo Urso, spezzarono una lancia in favore di un approccio analogo, mentre il ministero dell’Economia accolse l’idea con notevole freddezza.
Che non si trattasse di aria fritta lo mostra una pubblicazione della Bononia University Press sul partenariato pubblico privato curato da un giurista di rango come Mario Pilade Chiti. Non solo, ma quasi in parallelo con il Rapport Beffa, Susan Stern curava per la Alfred Herrhausen society for international dialogue la pubblicazione di una raccolta internazionale di saggi orientati nella stessa direzione (“The partnership principle-New forms of governance in the 21st century”, Archetype Publication, Londra). Su linee analoghe si stava muovendo la Gran Bretagna.
Allora, l’idea di un fondo “strategico” europeo per l’innovazione venne bloccata non tanto da questo o quel Paese (la Germania non accolse l’idea con calore in quanto già dispone di strumenti analoghi), ma - paradossalmente - perché ostacolata dalla Commissione europea (allora guidata da Romano Prodi). L’Esecutivo Ue avrebbe dovuto applaudire a questo veicolo di integrazione in materia di politica e strategia industriale, ma contrappose un proprio documento, la lettura del cui testo integrale non solamente scoraggiava i più avvezzi al linguaggio burocratico, ma deludeva per la mancanza di contenuti. Il documento proponeva quelle che chiamava, con una certa pomposità, 14 nuove “iniziative” - sette “intersettoriali”(in materia di diritti di proprietà intellettuale e contraffazione, concorrenza, semplificazione legislativa, promozione delle competenze settoriali, gestione dei cambiamenti strutturali, approccio integrato alla ricerca e all’innovazione) e sette settoriali o specifiche (un foro farmaceutico, lo sviluppo di strategie in tema di biotecnologie, chimica, difesa, aerospaziale, tecnologie dell’informazione e della comunicazione e “studi sulla concorrenzialità”).
Leggendo con attenzione il testo, appariva evidente che si trattava, in gran misura, dell’istituzione o trasformazione di gruppi di lavoro e di comitati già esistenti, che hanno prodotto poco o nulla e che, tra un anno o giù di lì, cambieranno nome e, in certi casi, composizione. Inoltre, sono spalmati su tutto l’arco del manifatturiero senza una definizione né di priorità, né di criteri per individuarle. Ossia poco più del solito contentino degli eurocrati al vero e proprio esercito di lobbisti con cui usano andare a innaffiare lauti pasti a base di crostacei e vini bianchi di classe nei mille ristoranti eleganti di Bruxelles.
Dalla lettura del documento si traeva l’impressione che la Commissione europea pensasse che si potesse formulare e attuare una politica industriale (“nuova” o “vecchia” che sia) e che si potessero creare le condizioni adatte a fare prosperare l’industria manifatturiera senza tenere conto del sistema finanziario del continente. Naturalmente non c’era neanche un cenno alla proposta Agenzia per l’innovazione concentrata su pochi grandi progetti e co-finanziata dal settore pubblico e da quello privato.
Dopo nove mesi di lavoro, la montagna aveva partorito un topolino che, per di più, era nato con le fattezze grinzose di un vecchietto. Il testo era anche denso di trappole specialmente nei confronti di Paesi (e l’Italia ne è uno) la cui industria manifatturiera accusa ritardo tecnologico e organizzativo ed è in gran misura composta di piccole e medie aziende, costrette a raggrupparsi e consorziarsi a fronte dell’accresciuta concorrenza internazionale. In effetti, il testo annunciava un rigore maggiore del passato in materia di aiuti di Stato o di interventi pubblici per ridurre la perdita di posti di lavoro in seguito a ristrutturazioni aziendali.
Di fronte a questo atteggiamento della Commissione europea, il Rapport Beffa non poteva non restare nel limbo delle buone intenzioni non realizzate. La Francia si organizzò per conto suo con il Fonds stratégique. Perché ricordare ora questa vicenda? Ridurre il “fondo strategico” a un mero marchingegno anti-Opa vuol dire non comprendere le “nuove” politiche industriali che si stanno sviluppando in varie parti del mondo e di cui il Rapport Beffa era un frutto significativo.
Senza dubbio, piccoli “fondi” nazionali possono fare poco in un contesto di forte integrazione economica internazionale. Non dobbiamo dimenticare che la Cassa depositi e prestiti è alleata con la francese Caisse de depôts et consignations e istituti analoghi nel Long term investors club (Ltic), il quale può essere il grimaldello per il fondo europeo che non venne creato nel 2005.
Anche la Commissione europea è cambiata e diventata più lungimirante. Il “fondo strategico”, quindi, è una scommessa che merita essere fatta.
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