sabato 30 aprile 2011

Quartett con freddezza svela la miseria umana Milano Finanza 30 aprile

InScena
Quartett con freddezza svela la miseria umana Giuseppe Pennisi
di Giuseppe Pennisi


Con Quartett di Luca Francesconi, in scena a Milano fino al 7 maggio, La Scala si pone di nuovo al centro della grande innovazione europea. Il teatro e la città hanno commissionato un progetto che si pone come ponte tra la dodecafonia di Darmstad e l'elettroacustica dell'Ircam, il centro creato e animato da Pierre Boulez.
Il lavoro (un atto unico di 80 minuti) è stato accolto, la sera della prima, con sole tre chiamate dal pubblico del Piermarini e questo è segno della scarsa dimestichezza degli ascoltatori italiani con la musica contemporanea, nonostante Quartett non manchi di momenti melodici quali arie e duetti e di richiami alle convenzioni operistiche tradizionali. Il libretto in inglese, tratto da un noto dramma degli anni Ottanta di Heiner Müller e basato a sua volta sul romanzo epistolare settecentesco Les liaisons dangereuses di Chaderlos de Laclos, è ispirato a un nichilismo lugubre (dove anche il sesso è privo di eros e prepara alla putrefazione finale) che rispecchia il 1982 forse più di questo primo scorcio di XXI secolo. In un salotto-bunker dopo un'ipotetica Terza guerra mondiale, i due protagonisti si autodistruggono in un'escalation di seduzioni e di sadismo intriso dei loro ricordi di gioventù. Sul palcoscenico sono ottimi sia Allison Cook sia Robin Adams. La musica si dispiega tra due orchestre (una in buca, dirige Susanna Mälkki, e una in scena, guidata da Jean-Michel Lavoie) e un impianto elettroacustico che avvolgono il pubblico verso un finale senza illusioni o speranze per l'umanità.(riproduzione riservata)

Il vaso scoperchiato dall'Opa di Lactalis in Fare Italia .it

Il vaso scoperchiato
dall'Opa di Lactalis
di Giuseppe Pennisi


L’annuncio dell’Opa di Lactalis nei confronti di Parmalat non poteva non creare dibattiti e polemiche. Sono temi su cui un economista ha molto poco da dire in quanto non si sa quasi nulla dei suoi contenuti e dei suoi aspetti principali, in particolare se l’offerta è totalitaria o riguarda unicamente il controllo della maggioranza o poco di più e chi si accollerà e come verrà accollato l’indebitamento dell’azienda di Collecchio.
Il dibattito e le polemiche, quindi, riguardano temi troppo vaghi – gli scarsi investimenti esteri in Italia, la necessità di “giganti “ europei in grado di tenere testa a quelli americani, russi e asiatici, la perdita (vera o presunta) di “italianità” di una parte importante del nostro manifatturiero – perché ne possa formulare un giudizio chi è uso a lavorare con cifre e non con prese di posizione di principio. Tali dibattiti e polemiche lasciano il tempo che trovano. È fin troppo ovvio, ad esempio, che l’italianità si tutela non con la proprietà ma con l’efficienza, la produttività, l’innovazione di processo e di prodotto oppure con l’essere global player nel mercato globale. Ed essere parte di un global player ed averne voce in capitolo nelle strategia può non essere affatto una cattiva soluzione.
In attesa di disporre delle cifre e di analizzarle, occorre comunque dire che, per l’Italia, diventare un boccone prelibato per una delle maggiori multinazionali dell’agro-alimentare con casa madre in Francia, è stata un’amara sconfitta. Alla sconfitta, si aggiunge la beffa dell’annuncio dell’Opa proprio nel giorno in cui si verificava il vertice bilaterale inter-governativo Italia Francia, ospitato a Roma. Non solo. Avviene anche nel giorno in cui, su pressione franco-statunitense il governo annuncia bombardamenti in Libia e si scatena una polemica all’interno della maggioranza.
I “retroscenisti di professione” sussurrano che si tratta di un accordo sottobanco per facilitare l’ascesa di un italiano al vertice della Banca centrale europea (Bce). Se ciò fosse, sarebbe un segno di scarsa conoscenza e delle organizzazioni internazionali e dell’uomo di cui si parla. Come richiesto dagli statuti Bce, l’uomo si spoglierebbe della sua “italianità” e indosserebbe panni europei.
Responsabilità di un governo dilaniato da fazioni nonostante una maggioranza che sembra robusta? Sarebbe puerile affermarlo. Il nodo è nell’industria italiana che negli ultimi trent’anni, spinta anche da varie normative, si è disarticolata in piccole aziende e ha perso produttività. Come ho sottolineato in altra sede, particolarmente importante la ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen in Germania e quello Peugeot in Francia possono essere presi come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Francia e Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.

giovedì 28 aprile 2011

La passione greca e le relazioni pericolose Il Foglio 29 aprile

La passione greca e le relazioni pericolose
Una "prima" italiana e una mondiale vanno in scena a Palermo e a Milano
Secondo una tradizione centenaria, tra Pasqua e Pentecoste i teatri tedeschi mettono in scena “Parsifal”, sacra rappresentazione scenica in tre atti. Così la definì il suo autore, Richard Wagner, il quale, in omaggio al contenuto religioso del lavoro, chiese che venisse rappresentata unicamente nella sala da lui concepita a Bayreuth. In Italia, l’usanza di abbinare al periodo tra Pasqua e Pentecoste teatro in musica a carattere religioso (per esempio il “Mosè in Egitto” di Gioacchino Rossini) si è gradualmente spenta durante l’Ottocento. Il Risorgimento e la “questione romana” hanno dimenticato definitivamente questa prassi. Si organizzano “Festival di Pasqua” grandi e piccoli ma ciò non influisce sui programmi dei teatri.

Nel periodo pasqual pentacostale, agli antipodi della penisola (a Milano e a Palermo), vanno in scena una “prima” mondiale e una “prima” italiana di due lavori diametralmente opposti. La “prima” mondiale, commissionata dalla Scala in coproduzione con il Festival di Vienna, l’English National Theatre di Londra e l’Opera di Amsterdam, è “Quartett” di Luca Francesconi, tratta da un dramma di Heiner Müller, basato a sua volta su un capolavoro della letteratura libertina, “Les Liasons Dangereuses” di Chaderlos de Laclos. La “prima” italiana è “The Greek Passion” di Bohuslav Martinů, tratta dal romanzo di Nikos Kazantzakis “Cristo nuovamente crocefisso”. Entrambi i testi hanno avuto una trasposizione cinematografica di successo che ha reso noti i loro contenuti al grande pubblico. A Chaderlos si sono ispirati Vadim, Frears, Forman e Kumble; la riduzione drammatica di Müller è l’unica versione scenica (risale al 1982) che abbia lasciato un segno. Non ne hanno lasciato alcuno due opere liriche recenti, quella dell’americano Conrad Susa e del belga Piet Swets.

Prima di diventare un’opera, il romanzo di Kazantzakis ha ispirato uno dei più noti film di Jules Dassin (premiato a Cannes e uscito in Italia con il titolo Colui che Deve Morire). Con un cast di livello ( Melina Mercouri, Maurice Ronet, Jean Servais, Roger Hanin, Pierre Vaneck, René Lefevre), torna ancora in televisione.

Nelle loro trasposizioni nel teatro in musica, i due lavori non potrebbero essere più differenti. Mentre, come molta letteratura libertina, “Les Liasons Dangereuses” (adorato da Maria Antonietta) ha un contenuto libertario ma etico (la punizione dei due amorali protagonisti), “Quartet” è un’ora e venti minuti (13 scene) di un’avvilupparsi erotico dei protagonisti sino alla reciproca distruzione. Richiede due sole voci (e quattro attori), ma ben due orchestre e un complesso impianto elettro acustico e informatico. Non siamo nella dodecafonia alla Darmstad ma nella contemporaneità dell’Ircam (il centro di ricerca di musica elettronica creato da Pierre Boulez). Per mera coincidenza, da aprile a giugno si svolge in 40 città italiana la quarta edizione del Festival “Suona Francese”, 160 concerti in gran misura di matrice Ircam.

Tutt’altra musica quella del cèco, naturalizzato americano, Bohuslav Martinů (1890-1959). “The Greek Passion” (il cui libretto in inglese è dello stesso compositore) è un’opera in quattro atti di una durata complessiva di circa due ore ed un quarto. La trama si sviluppa linearmente. Una Sacra Rappresentazione della Passione si svolge, ogni anno, a Likovrissi, tra i monti dell'Anatolia occupata dai turchi. La maturazione interiore di un pastore, Manolios, chiamato a interpretare Gesù nella Rappresentazione, poco a poco lo trascina a cambiare vita sino a morire sacrificandosi per gli altri. E’ lavoro fortemente religioso anche se critico nei confronti delle gerarchie e per questo appassionò un non credente come Jules Dassin. La scrittura orchestrale e vocale (il coro ha un ruolo importante) è tonale, orecchiabile e caratterizzata da un forte contrappunto di stampo neobarocco e di richiami sia alla musica nazionale greca che all’impressionismo francese.

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

mercoledì 27 aprile 2011

Dopo la "sconfitta" su Parmalat a che serve un fondo strategico?

Economia e Finanza
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ITALIA-FRANCIA/ Dopo la "sconfitta" su Parmalat a che serve un fondo strategico?
Giuseppe Pennisi
giovedì 28 aprile 2011
Foto Ansa
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Le più vaste polemiche politiche ed economiche dei giorni scorsi hanno fatto sì che la creazione di un “fondo strategico” per le imprese sia stata dibattuta unicamente tra pochi specialisti. Si tratta, invece, di un tema importante, dei cui precedenti molti tra coloro scesi in campo sembrano essersi dimenticati. Dai precedenti del “fondo”, e dalle sue potenzialità, si deduce che esso prescinde dal suo eventuale impiego nella questione immediata di politica industriale nell’agroalimentare relativa al futuro della Parmalat. Anzi, ove si fosse pensato di utilizzare il fondo strategico per l’operazione Parmalat, essa avrebbe dovuto avere forti caratteristiche innovative di organizzazione e processo, risultanti in un aumento della produttività.
Verosimilmente pensando alla vicenda Parmalat-Lactalis, l’economista, ed ex Commissario Consob, Salvatore Bragantini è andato lancia in resta contro il progetto, affermando che si tratta di una mera misura protezionista per impedire l’ennesima scalata francese nei confronti di aziende italiane (quella che ha come protagoniste Parmalat e Lactalis); a suo parere, il fondo rischia di «essere peggiore del male che vuole curare», in quanto scoraggerebbe gli investimenti italiani, rischiando di dar vita a una pericolosa commistione tra politica e imprese.
Non è chiaro quale è il punto di vista di Confindustria. Oppure se ne ha uno. Nel contempo, lo scorso 12 aprile è stato modificato lo statuto della Cassa depositi e prestiti, Cdp (che è una società per azioni controllata al 70% dal ministero dell’Economia, mentre il restante 30% è in mano a 66 fondazioni bancarie). Ora l’istituto può acquisire partecipazioni rilevanti in società di interesse nazionale, in applicazione al decreto anti-scalate, approvato a fine marzo dal Consiglio dei Ministri.
Il fondo italiano è simile al Fonds stratégique d’investissement francese, nonostante ci siano alcune differenze di rilievo: mentre nello statuto della Cdp si parla di generiche “società di interesse nazionale”, nell’analogo ente francese sono definiti con molta chiarezza i settori economici considerati strategici; inoltre, in quello francese si precisa che deve trattarsi di partecipazioni “minoritarie”, mentre in quello italiano si parla di “partecipazioni rilevanti”.
Sono differenze meno importanti di quel che possa sembrare a una lettura superficiale: l’individuazione dei comparti “strategici” è, nella formulazione italiana, rinviata a deliberazioni successive; “partecipazione rilevante” non vuole necessariamente dire “maggioritaria” e, d’altro canto, spesso partecipazioni “minoritarie” non solo “rilevanti”, ma “determinanti” - veri e propri azionisti-chiave di riferimento.
Per comprendere la logica del Fonds stratégique d’Oltralpe occorre fare un passo indietro. Nel dicembre 2004, la Francia ha proposto formalmente in sede Ue la creazione di un’Agenzia europea per l’innovazione industriale, in partnership tra pubblico e privato, in seguito al “Rapport Beffa", dal nome del Presidente della St. Gobain, Jean-Louis Beffa, a cui il Presidente Chirac aveva affidato l’incarico di proporre nuove linee di politica industriale. Ricordiamoci che allora l’Ue era alle prese con una “strategia di Lisbona” per diventare l’area economica più dinamica della comunità internazionale entro il 2010; c’era già grande consapevolezza che la strategia arrancava, anche se nessuno prevedeva la crisi che si sarebbe scatenata a metà 2007.
Accanto ad alcuni spunti dirigistici (il “colbertismo” presente nella cultura economica francese sin dai tempi di Luigi XIV), il Rapport Beffa conteneva molte buone idee - principalmente la partnership pubblico-privato attorno a un limitato numero di grandi progetti di trasformazione tecnologica (pure per le piccole e medie imprese). È importante anche sottolineare che, all’epoca, tanto il ministro delle Attività Produttive, Antonio Marzano, quanto, e ancora di più, il viceministro, Adolfo Urso, spezzarono una lancia in favore di un approccio analogo, mentre il ministero dell’Economia accolse l’idea con notevole freddezza.
Che non si trattasse di aria fritta lo mostra una pubblicazione della Bononia University Press sul partenariato pubblico privato curato da un giurista di rango come Mario Pilade Chiti. Non solo, ma quasi in parallelo con il Rapport Beffa, Susan Stern curava per la Alfred Herrhausen society for international dialogue la pubblicazione di una raccolta internazionale di saggi orientati nella stessa direzione (“The partnership principle-New forms of governance in the 21st century”, Archetype Publication, Londra). Su linee analoghe si stava muovendo la Gran Bretagna.
Allora, l’idea di un fondo “strategico” europeo per l’innovazione venne bloccata non tanto da questo o quel Paese (la Germania non accolse l’idea con calore in quanto già dispone di strumenti analoghi), ma - paradossalmente - perché ostacolata dalla Commissione europea (allora guidata da Romano Prodi). L’Esecutivo Ue avrebbe dovuto applaudire a questo veicolo di integrazione in materia di politica e strategia industriale, ma contrappose un proprio documento, la lettura del cui testo integrale non solamente scoraggiava i più avvezzi al linguaggio burocratico, ma deludeva per la mancanza di contenuti. Il documento proponeva quelle che chiamava, con una certa pomposità, 14 nuove “iniziative” - sette “intersettoriali”(in materia di diritti di proprietà intellettuale e contraffazione, concorrenza, semplificazione legislativa, promozione delle competenze settoriali, gestione dei cambiamenti strutturali, approccio integrato alla ricerca e all’innovazione) e sette settoriali o specifiche (un foro farmaceutico, lo sviluppo di strategie in tema di biotecnologie, chimica, difesa, aerospaziale, tecnologie dell’informazione e della comunicazione e “studi sulla concorrenzialità”).
Leggendo con attenzione il testo, appariva evidente che si trattava, in gran misura, dell’istituzione o trasformazione di gruppi di lavoro e di comitati già esistenti, che hanno prodotto poco o nulla e che, tra un anno o giù di lì, cambieranno nome e, in certi casi, composizione. Inoltre, sono spalmati su tutto l’arco del manifatturiero senza una definizione né di priorità, né di criteri per individuarle. Ossia poco più del solito contentino degli eurocrati al vero e proprio esercito di lobbisti con cui usano andare a innaffiare lauti pasti a base di crostacei e vini bianchi di classe nei mille ristoranti eleganti di Bruxelles.
Dalla lettura del documento si traeva l’impressione che la Commissione europea pensasse che si potesse formulare e attuare una politica industriale (“nuova” o “vecchia” che sia) e che si potessero creare le condizioni adatte a fare prosperare l’industria manifatturiera senza tenere conto del sistema finanziario del continente. Naturalmente non c’era neanche un cenno alla proposta Agenzia per l’innovazione concentrata su pochi grandi progetti e co-finanziata dal settore pubblico e da quello privato.
Dopo nove mesi di lavoro, la montagna aveva partorito un topolino che, per di più, era nato con le fattezze grinzose di un vecchietto. Il testo era anche denso di trappole specialmente nei confronti di Paesi (e l’Italia ne è uno) la cui industria manifatturiera accusa ritardo tecnologico e organizzativo ed è in gran misura composta di piccole e medie aziende, costrette a raggrupparsi e consorziarsi a fronte dell’accresciuta concorrenza internazionale. In effetti, il testo annunciava un rigore maggiore del passato in materia di aiuti di Stato o di interventi pubblici per ridurre la perdita di posti di lavoro in seguito a ristrutturazioni aziendali.
Di fronte a questo atteggiamento della Commissione europea, il Rapport Beffa non poteva non restare nel limbo delle buone intenzioni non realizzate. La Francia si organizzò per conto suo con il Fonds stratégique. Perché ricordare ora questa vicenda? Ridurre il “fondo strategico” a un mero marchingegno anti-Opa vuol dire non comprendere le “nuove” politiche industriali che si stanno sviluppando in varie parti del mondo e di cui il Rapport Beffa era un frutto significativo.
Senza dubbio, piccoli “fondi” nazionali possono fare poco in un contesto di forte integrazione economica internazionale. Non dobbiamo dimenticare che la Cassa depositi e prestiti è alleata con la francese Caisse de depôts et consignations e istituti analoghi nel Long term investors club (Ltic), il quale può essere il grimaldello per il fondo europeo che non venne creato nel 2005.
Anche la Commissione europea è cambiata e diventata più lungimirante. Il “fondo strategico”, quindi, è una scommessa che merita essere fatta.


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IL PREZZO DELLE MANCATE RIFORME , UN MACIGNO SULLA CRESCITA ITALIANA Avvenire 26 aprile

IL PREZZO DELLE MANCATE RIFORME , UN MACIGNO SULLA CRESCITA ITALIANA
Giuseppe Pennisi

Negli ultimi quindici anni, dal 1995 al 2010, i prezzi di beni e servizi in Italia si sono rivalutati – o meglio: "apprezzati" – del 50% rispetto alla Germania. Nello stesso periodo, però, Berlino ha fatto registrare un deprezzamento del 21% nei confronti della media degli altri Stati dell’eurozona. Il dato mostra un’evidenza: sul nostro Paese grava una palla di piombo che frena qualsiasi programma di crescita e che non può essere alleggerita da semplici misure per agevolare l’edilizia, il turismo, la ricerca e solo alcuni settori di punta del manifatturiero.
Come è stato possibile tutto questo se nell’eurozona abbiamo la stessa moneta come unità di conto, di transazione e di riserva, e se le regole della Banca centrale europea (Bce) comportano interventi ogni volta che il tasso d’inflazione tocca il 2% annuo?
Dal punto di vista statistico, ciò è possibile perché l’indice armonizzato dei prezzi al consumo, registrato ogni mese nel Bollettino della Bce, ogni anno ha avuto un andamento leggermente più basso in Germania rispetto al resto dell’area euro, e in particolare rispetto all’Italia e agli altri Stati ad alto debito. In ogni caso, questo è solo uno dei molti modi di misurare l’inflazione. Altri indici sono più indicativi rispetto a quello dei prezzi delle merci e dei servizi della "famiglia tipo" europea. L’indicatore forse più chiaro è utilizzato per computare a prezzi costanti, invece che a prezzi correnti, la contabilità economica nazionale (nel lessico degli statistici, il "deflattore" del Pil o del reddito nazionale). Un altro indice rivelatore è poi quello dei prezzi alla produzione, che scatta la fotografia dei listini prima che su questi intervenga la catena distributiva.
Bene, utilizzando questi due indici ci si accorge che, nell’arco di 15 anni, in Italia un paniere di beni e servizi alla produzione ha registrato un aumento doppio di quello riscontrato, per il medesimo paniere, in Germania, dove nello stesso periodo si è invece registrato un deprezzamento del 21% rispetto al resto dell’area dell’euro. Questa "rivalutazione" strisciante del made in Italy inteso in senso lato fa sì che, mentre la Germania cresce al traino delle esportazioni, da noi l’economia ristagni. In buona parte ciò è stato possibile perché, in seguito alla riunificazione tedesca prima, e all’unione monetaria poi, Berlino è stata capace di ristrutturare in modo strutturale e profondo la propria economia, cambiando drasticamente, ad esempio, le regole in materia di lavoro e di incentivi alle imprese, al fine di potenziare i comparti a più alta produttività. Un programma realizzato non dai conservatori, bensì dai socialdemocratici e dalla "grande coalizione". E ora sono i cristiano-democratici e i liberali a coglierne, politicamente, i frutti, mentre i tedeschi guardano con maggiore fiducia all’avvenire.
Si può fare qualcosa del genere anche in Italia? La risposta è sì. Tuttavia, la decisione di puntare sull’edilizia, sul turismo, sugli sgravi tributari alla ricerca o sulla promozione delle esportazioni rischia di servire a poco o nulla, se tutti questi interventi non sono parte di un programma rivolto a massimizzare la produttività del sistema. Ciò non vuole però dire che si debbano contenere i salari (come ha fatto la Germania), perché in Italia il netto in busta paga è in media tra i più bassi nell’eurozona e i consumi sono praticamente rasoterra. Occorre invece rendere più produttivi i comparti non aperti alla concorrenza internazionale, liberalizzando nella speranza che la maggiore dinamicità nei mercati protetti porti miglioramenti. È necessario, soprattutto, potenziare i due grandi fattori di aumento della produttività che l’Italia ha trascurato per decenni: il capitale umano e il capitale sociale. Solo così si potrà dare all’economia quella "scossa" di cui si parla da tempo.

il Quartett "freddo" di Francesconi non scalda La Scala Il Velino 27 aprile

CLT - Opera, il Quartett "freddo" di Francesconi non scalda La Scala
Al debutto tiepida reazione del pubblico milanese. Il lavoro, già prenotato all’estero, tuttavia si farà strada grazie al suo mix intelligente di stili differenti


Milano, 27 apr (Il Velino) - “Quartett” di Luca Francesconi è senza dubbio l’evento più importante del Festival “Suona Francese” in corso sino a fine giugno in 40 città italiane. Il lavoro, che ha debuttato ieri alla Scala di Milano, dov’è in cartellone sino al 7 maggio, è stato commissionato dal teatro milanese in coproduzione con Vienna Festwochen, l’English national Opera e l’Amsterdam Opera ed è già stato prenotato da altri teatri d’opera europei e americani. “‘Quartett’ di Heiner Müller è uno dei testi più famosi del teatro moderno - spiega Francesconi -. È specchio di una società che ha abolito il senso dell’umanità. Lo scontro fra la Marchesa di Merteuil e il Visconte di Valmont è una lotta spietata di potere. È la denuncia del mondo occidentale che pretende di risolvere tutto con un apparente controllo assoluto sulle cose. I due personaggi sono ‘polifonici’ e impegnati in un gioco di maschere che moltiplica le identità. E sono costretti a un patto, lo stesso delle ‘Liaisons dangereuses’: abolire l’amore”. Oltre che della musica, Francesconi è autore del libretto in inglese. Attenzione: “cantare inglese” , come ben sapeva Benjamin Britten, richiede un lavoro molto attento e pervicace ; non sempre il testo di Francesconi sia adatta alla musica come un guanto e ogni parola e inflessione non è perfettamente comprensibile a quella parte del pubblico che non accende, sul retro-poltrona, i sottotitoli in italiano.

Al nuovo testo corrisponde un allestimento altamente tecnologico: “Müller è un autore shakespeariano - ha detto Francesconi in un’intervista - e lo spettacolo della Fura ne esalta lo spettro corrosivo con squarci comici. La drammaturgia è legata a tre spazi. Uno claustrofobico interno con un’orchestra da camera in buca - conclude Francesconi -, un livello intermedio, infine ci sono un’orchestra e un coro in eco, una forza primigenia che ‘filtra’ dai muri e dissolve il gioco di travestimenti”. Ci sono stati vari adattamenti cinematografici di “Les liaisons dangereuses”: da quello di Roger Vadim nel 1959 a quello di Stephen Frears nel 1988, fino a quelli più recenti di Milos Forman nel 1989 e Roger Kumble nel 1999. Sono state tratte dal lavoro anche due opere liriche, rispettivamente negli Stati Uniti ed in Belgio. Quartett di Heiner Müller, che ha debuttato nel 1982, è l’adattamento teatrale che ha conosciuta maggiore fortuna (in allestimenti firmati anche dall’autore stesso, Robert Wilson e Michael Haneke). Molto più che un adattamento, Quartett è una riscrittura e reinterpretazione scenica del romanzo di Laclos, cui l’autore si è peraltro ispirato in modo molto generico.

Müller riduce le serrate ma plurime geometrie del romanzo a una claustrofobica partita a due tra i protagonisti, la marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont. Una partita resa ancor più opprimente dal fatto di svolgersi in una dimensione che è puramente cerebrale. In scena restano a fronteggiarsi i protagonisti in una guerra dei sessi dal respiro quasi metafisico per la spietatezza e la tensione dello scontro che riduce l’amore - e il sesso stesso - a mera corporeità. Uno sconcertante e sadico gioco teatrale, capace di indagare fino in fondo, con crudo cinismo filosofico, l’anatomia delle passioni umane. Il gusto compiaciuto per la perversione e la brutalità soffocano così la vita, annichiliscono qualsiasi relazione ed emozione sino alla totale distruzione di sé e dell’altro. In questo vortice senza ritorno, dove la dimensione teatrale è decisiva (“Recitare? Che altro si può fare?” si chiede la marchesa di Merteuil), i protagonisti a un certo punto, in un mirabolante gioco delle parti, non soltanto si scambiano i ruoli ma danno voce anche ai personaggi - immaginari o, meglio, della memoria - della signora di Tourvel e di Cécile de Volanges (mentre scompare, rispetto al romanzo, il cavalier Danceny). Da qui, appunto, il titolo Quartett.

Già autore di diversi lavori per il teatro, tra cui “Ballata” (2002) e “Gesualdo considered as a murderer” (2004), Luca Francesconi mettere in rilievo numerosi aspetti di interesse e attualità di Quartett: in particolare, l’identità che si perde “in una moltiplicazione infinita di specchi dove nulla ha valore, in un delirio nichilistico e tragico” può valere come “metafora della intera civiltà occidentale” e immagine del “destino che sembra ripercuotersi anche sul ruolo dell’arte oggi”. Da un lato il testo è ridotto con un dialogo più serrato. Dall’altro, con una seconda orchestra e un coro in eco, gli spazi fisici generano una teatralità dell’ascolto. Il libretto, dello stesso compositore, è in inglese e la natura autenticamente operistica della reinterpretazione si ravvisa su più piani. La sceneggiatura distribuisce anzitutto la vicenda in scene, all’interno delle quali sono enucleati passaggi riferibili agli archetipi dell’arioso, dell’aria o del duetto. Di natura propriamente operistica, poi, sono le voci dei due personaggi, la marchesa di Merteuil (soprano) e il visconte di Valmont (baritono) e l’apporto del coro con le sue funzioni di amplificazione o proiezione sonora del canto e delle azioni dei personaggi stessi. Il trattamento virtuosistico delle voci ricorre a un ampio spettro di stili, tecniche, registri, inflessioni e timbri.

Ci sono due orchestre che svolgono compiti drammaturgici tendenzialmente diversi: se la prima registra le pulsioni private dei protagonisti nei loro spazi claustrofobici, la seconda è una specie di riflesso della sfera sociale e collettiva, quasi un’eco lontana del mondo, sia come forza naturale e senza tempo, sia come rumore di una massa minacciosa e in avvicinamento. Alla cassa di risonanza di quanto accade in scena contribuisce infine, oltre al coro e alle due orchestre, l’elaborazione elettronica di suoni e spazi, mirata a coinvolgere il pubblico in un’esperienza multidimensionale. Gli inglesi affermano che la prova di quanto sia buono il dessert si ha solo quando lo si mangia. Ieri alla prima il pubblico della Scala è rimasto piuttosto freddo: buca e Jean-Michel Lavoire nel retro-palcoscenico, ai due straordinari interpreti (Alison Cook e Robin Adams) e all’efficace impianto scenico e registico del gruppo catalano La Fura del Baus (il migliore e il più adatto allo spartito). In gran misura, il pubblico non pare avere gradito un sesso (masturbazione del soprano nella “cavatina” o aria di entrata; fellatio e sodomia in due duetti) privo di eros ed essenzialmente lugubre. Un viaggio verso la morte in un contesto dove imperversa la morte nucleare. “Quartett” è tuttavia un’opera che farà strada proprio in quanto coniuga in un mix intelligente due stili molto differenti e li innesca su una struttura per molto aspetti convenzionale. È lavoro di grande impatto che onora La Scala riportandola all’epoca quando era una fucina dell’innovazione mondiale: non fu “Falstaff” l’opera di un ottuagenario che apri la strada ad uno dei percorsi del Novecento?

(Hans Sachs) 27 apr 2011 14:39

"Quartett" di Luca Francesconi, senza Dio la morte nucleare.Il Sussidiario 26 aprile

LA SCALA/ "Quartett" di Luca Francesconi, senza Dio la morte nucleare...
Giuseppe Pennisi
martedì 26 aprile 2011
Quartett di Luca Francesconi alla Scala di Milano
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LA SCALA/ "Death in Venice", l'addio alla vita di Benjamin Britten
LA SCALA/ Fischi a Pagliacci, ma Cavalleria commuove
Il 26 aprile, "prima" mondiale di "Quartett" di Luca Francesconi, su libretto proprio tratto da un dramma (di grande successo) di Heiner Müller, basato a sua volta su un capolavoro della letteratura libertina, “Les Liasons Dangereuses” di Chaderlos de Laclos.


A Chaderlos si sono ispirati, tra gli altri, Vadim, Frears, Forman e Kumble per trasposizioni cinematografiche. La riduzione drammatica di Müller è l’unica versione scenica (risale al 1982) che abbia lasciato un segno. Non ne hanno lasciato alcuno due opere liriche recenti, una dell’americano Conrad Susa e una del belga Piet Swets. Quindi, abbiamo il testo - si dice - più amato da Maria Antonietta, filtrato attraverso Müller e filtrato di nuovo tramite Francesconi. È una "prima" specialmente importante perché tra qualche settimana l’opera (un atto unico di un’ora e venti minuti) sarà a Vienna e subito dopo a Londra e ad Amsterdam; è probabile che la prossima stagione approdi negli Stati Uniti e in Germania.

Il Teatro alla Scala ha preparato un programma di sala specialmente ricco di saggi ed informazioni. Non è intenzione del vostro "chroniqueur" sostituirsi al programma e ai suoi autori, ma aggiungere alcune dimensioni nuove che possono portare a una correzione di tiro.


Partiamo - com'è d’uopo - da “Les Liasons Dangereuses”. Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos. Scrittore, nato da una famiglia di estrazione borghese, suo padre era un ufficiale governativo di servizio e appartenente alla cosidetta "nobiltà di toga", non ereditaria, ma meritata sul campo entrò nella École royale d'artillerie de La Fère, antesignana della École polytechnique. Il suo romanzo epistolare è un classico conosciuto per la sua esplorazione della seduzione, vendetta e malizia umana, nonostante l'autore lo avesse concepito soprattutto per far riflettere, tramite i personaggi principali, sul biasimevole stato dell'istruzione femminile e sulle sue conseguenze sulla morale nella Francia del Settecento.
È inoltre un racconto moralistico sulla corruzione e lo squallore della nobiltà della Francia dei Borbone, scritto da un fervente ufficiale di Napoleone (che dei Borboni aveva una pessima opinione). Non per nulla la trasposizione cinematografica più efficace è a mio avviso quella, in un impeccabile bianco e nero, di Roger Vadim che portava la vicenda nella Francia degli Anni Cinquanta e aveva un finale chiaramente moralistico. Choderlos era credente? Difficile dirlo. Quando morì, di dissenteria e malaria, a Taranto (dove comandava l’esercito napoleonico) rifiutò i sacramenti. È verosimile che appartenesse a quella “massoneria cattolica” perfettamente descritta da Lidia Bramani in Mozart Massone e Rivoluzionario (Bruno Mondadori, 2006) che si estendeva dalla Francia alla Baviera, all’Austria ed ad alcuni cantoni svizzeri e che coniugava illuminismo con una visione anti-clericale. Ciò spiegherebbe l’afflato moralistico del romanzo con il rifiuto dei sacramenti (considerati un mero orpello).


Non era certo credente Heiner Müller (Eppendorf, 9 gennaio 1929 - Berlino, 30 dicembre 1995), marxista della Germania orientale (nonostante questo ebbe difficoltà con il regime) e considerato uno dei drammaturghi del Novecento che più hanno inciso sul teatro di prosa. Il suo “Quartett” è stato più volte messo in scena in Italia. L’azione è ridotta a due personaggi che si mascherano in vari ruoli. Si volge in un luogo che è, al tempo stesso, un salotto del Settecento e un bunker dopo un’eventuale terza guerra mondiale. È, a suo modo, moralista: il nichilismo assoluto e la frenesia sessuale portano alla distruzione di tutti e di tutto in uno spettacolo il cui testo è di appena una ventina di pagine, ma richiede una messa in scena di circa due ore
.

Luca Francesconi (Milano, 1956) è uno dei compositori contemporanei italiani più noti e versatili. Ha scritto, in inglese, il libretto di “Quartett” integrando, in modo intelligente, la drammaturgia di Müller. Siamo però alle prese con un’opera non con dramma didascalico con inevitabili reminiscenze brechtiana. Ai due personaggi, la marchesa di Merteuil (soprano) e il visconte di Valmont (baritono) si chiede virtuosismo e un ampio spettro di stili, tecniche, registri, inflessioni e timbri. Il coro, amplificazione del canto e delle azioni dei personaggi stessi. Le due orchestre svolgono compiti drammaturgici tendenzialmente diversi: se la prima registra le pulsioni private dei protagonisti nei loro spazi claustrofobici, la seconda è una specie di riflesso della sfera sociale e collettiva, quasi un’eco lontana del mondo, sia come forza naturale e senza tempo, sia come rumore di una massa minacciosa e in avvicinamento.
Alla cassa di risonanza di quanto accade in scena - e alla sua percezione - contribuisce infine, oltre al coro e alle due orchestre, l’elaborazione elettronica di suoni e spazi, mirata a coinvolgere il pubblico in un’esperienza multidimensionale. L’aspetto più interessante è che Francesconi (al pari di Ligeti, Xenakis e Sani) si pone a metà strada tra le due scuole che più hanno influenzato la seconda metà del Novecento: la dodecafonia seriale di Darmstad e l’elettroacustica dell’Ircam, respingendo le tentazioni all’improvvisazione alla Cage
.

Il suo filtro di Müller ci riporta in qualche modo a Choderlos? A questa domanda possono rispondere i singoli spettatori e ascoltatori. Per alcuni, l’opera è uno sconcertante e sadico gioco teatrale, capace di indagare fino in fondo, con crudo cinismo filosofico, l’anatomia delle passioni umane. Per altri, saranno invece gli accordi del tragico finale a restituire il moralismo di Choderlos. Come nel film di Vadim in cui il gioco crudele veniva affidato a Gérard Philippe e Jeanne Moreau.


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/ Per uscire dal "pasticcio" Atac meglio liberalizzare o privatizzare? Il Sussidiario 26 aprile

TRASPORTI/ Per uscire dal "pasticcio" Atac meglio liberalizzare o privatizzare?
Giuseppe Pennisi
martedì 26 aprile 2011
Il sindaco Alemanno ha promesso una nuova dirigenza per l'Atac (Imagoeconomica)
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FINANZA/ 2. Quel "dizionario" che serve a leggere l’Italia reale
TEATRO REGIO DI PARMA/ Il "Barbiere di Siviglia" nelle mani esperte del giovanissimo Battistoni
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A una lettura superficiale, le vicende dell’Atac - Francesco Rutelli ha parlato di vero e proprio “circo” - sembrano a metà tra la tragicommedia e il vaudeville. Come spesso avviene in Roma capitale e dintorni. Dopo lo scandalo, vero o presunto di una vera e propria “parentopoli”, le dimissioni di Presidente ed Amministratore Delegato - e quindi la decadenza del Consiglio di Amministrazione - e la notizia che i conti dell’azienda sarebbero tali da imporre di portare i libri in tribunale e iniziare una procedura di fallimento.

Il timore che Roma possa restare senza trasporti pubblici e che i 13.000 dipendenti (tutti necessari?) possano trovarsi senza lavoro e senza stipendio. Sino all’annuncio del Sindaco, Venerdì Santo, che un nuovo management verrà scelto subito dopo la Pasqua son metodo che, se non proprio “bipartisan”, darà voce anche all’opposizione. Ancora non è chiaro come verrà risolto il problema di mancanza di liquidità e se tale nodo non cela una più profonda crisi di liquidità. Il nuovo management (sempre che si trovino persone capaci pronte a prendersi questa mina esplosiva) avrà l’esigenze di un forte supporto da parte di un Comune che, dal canto suo, è al verde.


Sono vicende che devono indurre a riflettere sull’intero settore di quello che è bene chiamare “il capitalismo municipale”. Il comparto ha un ruolo crescente nell’economia del Paese. Il servizio studi della Banca d’Italia ha condotto e diramato un paio di anni fa una serie di interessanti monografie (in italiano e inglese) relative sia a tematiche generali (la regolamentazione attuale e quella che si profila in prospettiva, la creazione di un “capitalismo municipale” costituito non più da piccole aziende, ma da grandi imprese, l’impiego della finanza di progetto e le sue implicazioni) sia a comparti specifici (trasporto pubblico locale, rifiuti urbani, distribuzione di gas naturale, il servizio idrico, taxi e autonoleggio, e via discorrendo).

Le analisi - pubblicate nella collana “Questioni di Economia e Finanza” e disponibili anche su supporto elettronico al sito dell’istituto - rappresentano un contributo importante, anche per chi - come il vostro “chroniqueur” - segue da anni il tema redigendo il capitolo pertinente degli annuari sul “Processo di Liberalizzazione della Società Italiana” pubblicati da Franco Angeli per conto di Società Libera e ha pubblicato un breve saggio nel periodico “Amministrazione Civile”. Senza dubbio il lavoro più aggiornato e più recente esce in questi giorni per i tipi dell’editore Maggioli: un volume curato da Claudio De Vincenti e Adriana Vigneri e intitolato I Servizi pubblici locali tra riforma e referendum, Il volume contiene due ampi saggi di Claudio De Vincenti e Adriana Vigneri, uno scritto introduttivo di Franco Bassanini e un resoconto di un seminario organizzato da Astrid il 15 settembre 2010.


Non solamente si tratti di studi basati su dati aggiornati ma gettano nuova luce (pur se non tolgono tutti gli interrogativi) sulla questione di fondo: nel Paese in cui Giovanni Montemartini inventò, in età giolittiana, le municipalizzate - gli abbiamo dedicato un museo a Via Ostiense, ma i suoi libri sono introvabili in Italia pur se in traduzione in inglese fanno ancora testo nelle università americane - è più urgente, in questo primo scorcio di XXI secolo, liberalizzare o privatizzare al fine di migliorare il servizio e rendere il settore competitivo su scala europea e internazionale?


Il settore è, in primo luogo, molto vasto. Comprende circa 370 imprese, con 200.000 addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea): risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province e in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti - una delle monografie analizza dieci tra i principali casi aziendali e individua i percorsi “virtuosi” (spesso associati ad un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del Pil nazionale, ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco


Il “capitalismo municipale”, inoltre, è internazionalizzato; sappiamo del ruolo che ha avuto un socio francese nell’Acea, meno noto che l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli aeroporti campani è una multinazionale d’origine britannica. Le società miste pubblico-privato, e in particolare quelle con soci stranieri (quindi parte di multinazionali oppure ad esse collegate) presentano indici di redditività superiore di quelle unicamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. Un’analisi di dieci “Big” del settore delinea, però, vincoli che frenano anche i “grandi” e che impediscono la crescita dei “piccoli”: da un canto, il disegno regolamentare è inadeguato (specialmente nel comparto dei servizi pubblici locali non energetici, e soprattutto nei trasporti) poiché le tariffe non coprono i costi e sono comunque state fissate (anche a ragione della metodologia prevista per legge) a livelli eccessivamente bassi (scoraggiando partner privati, soprattutto quelli stranieri); da un altro, la separazione tra proprietà/controllo (quasi sempre pubblica) e gestione non è sempre sufficientemente netta quanto sarebbe auspicabile.

Lo studio suggerisce “una separazione dei ruoli - di rappresentanza delle esigenze dei consumatori da quella della politica locale e dall’interesse ai risultati economici - attraverso forme di privatizzazione dei gestori con una diluizione delle partecipazioni degli enti locali”, concludendo che ciò “rappresenta un passaggio essenziale per favorire i necessari ulteriori processi di crescita”. A indicazioni analoghe - vale la pena ricordarlo - è giunto tempo fa uno studio del Dipartimento di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”: “una scelta radicale” - “una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” .
Non è, però, un percorso semplice, come suggerisce la vasta letteratura internazionale disponibile in materia e come conferma la vicenda Atac. Una scuola di pensiero, molto presente in studi Ocse oltre che nelle monografie della Banca d’Italia è che la liberalizzazione non solo deve precedere la privatizzazion, ma ne è un’efficace alternativa. Lo sostiene anche una rassegna commissionata dalla Fondazione Bertelsmann.

Un tema innovativo affrontato, a questo riguardo, nei lavori della Banca d’Italia è il ruolo della finanza di progetto, uno strumento relativamente nuovo nell’esperienza italiana (nonostante che all’inizio del XIX secolo ebbe i propri primordi proprio nel nostro territorio - la ferrovia Napoli-Portici nel Regno delle Due Sicilie), ma che negli ultimi anni ha avuto una diffusione molto rapida proprio nel campo dei servizi pubblici locali. L’analisi del servizio studi della Banca d’Italia sottolinea che “la gran parte delle opere - realizzate con questo strumento - ha riguardato iniziative locali per opere poco complesse con contenute interazioni tra costruzione dell’opera e successiva gestione della stessa”.


Inoltre, i promotori sono prevalentemente società di costruzione non gestori di servizi e il finanziamento è fornito principalmente da canali bancari (anche allo scopo di evitare un diretto impegno da parte della pubblica amministrazione). “È uno strumento con molte potenzialità che può anche diventare un grimaldello per una privatizzazione graduale coniugata con liberalizzazioni a tappe, secondo un percorso ben definito".


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*Chi ha paura dell’opa cattiva? Il Velino 27 aprile

ECO - *Chi ha paura dell’opa cattiva?

Roma, 27 apr (Il Velino) - L’annuncio dell’Opa di Laclatis nei confronti di Parmalat ha suscitato polemiche, più per il modo in cui è lanciata (alla vigilia del vertice bilaterale tra Parigi e Roma) che per i suoi contenuti ed aspetti. Questi, peraltro, non sono ancora noti. In particolare, mancano elementi importanti per formulare un giudizio, segnatamente se l’offerta è totalitaria o riguarda unicamente il controllo della maggioranza o poco di più e chi si accollerà e come verrà accollato l’indebitamento dell’azienda di Collecchio. Indubbiamente a molti non può non causare irritamento il fatto che un conglomerato di imprese, sostanzialmente al fallimento, risanato con drastici cambiamenti della normativa italiana (La Legge Marzano) ed in parte a carico dei contribuenti, diventi un boccone prelibato per una delle maggiori multinazionali di agro-alimentare con casa madre in Francia. Da un lato – come fanno molti commentatori – occorre riflettere su come l’apertura dell’economia italiana è sempre stata grimaldello di progresso e che siamo ogni anno pronti a cantare in coro geremiadi quanto i rapporti dell’agenzia specializzata dell’Onu ci rammenta che siamo tra gli ultimi in classifica in termini di investimenti diretti dall’estero
.
Da un altro ancora, è doveroso lamentare che la suddivisione dei compiti tra Stato centrale e Regioni in seguito alla revisione del Titolo V della Costituzione introdotta nel 2001 ha la conseguenza di impedire chiari lineamenti di politica industriale per la Nazione e di favorire la riduzione delle dimensioni aziendali, proprio mentre l’integrazione economica internazionale dovrebbe indurre al loro ampliamento. Da un terzo, però, ci sono differenze marcate da come le industrie di Francia, ed ancora di più di Germania, hanno risposto all’integrazione europea ed internazionale.

Particolarmente importante la ristrutturazione della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen in Germania e quello Peugeot in Francia possono essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna ed altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Francia ed Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente ed ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali. Tema su cui dovrebbe riflettere anche e soprattutto Confindustria.

(Giuseppe Pennisi) 27 apr 2011 20:

venerdì 22 aprile 2011

Il Barbiere prende forza dal giovane direttore Milano Finanza 23 aprile

Il Barbiere prende forza dal giovane direttore di Giuseppe Pennisi


Il Barbiere di Siviglia in scena a Parma vanta un allestimento curato dal regista Stefano Vizioli, lo scenografo Francesco Calcagnini e il costumista Annemarie Heinrich. Lo spettacolo non è nuovo in Italia e, nonostante sia elegante, è forse troppo tradizionale. Nonostante ciò l'allestimento è valido prima di tutto grazie alla concertazione di Andrea Battistoni.

Il direttore ha 24 anni (come Rossini quando compose l'opera) e non viene dalla nidiata degli allievi di Muti oggi ascoltabili in tutti i teatri d'Italia. Il maestro concertatore ha studiato con Zoltan Szabò e Mickael Flancksman, dirige già in grandi teatri europei e sarà alla Scala per Nozze di Figaro. Il suo Barbiere è integrale (dura oltre tre ore), fresco e sensuale (come è d'obbligo per un ventenne). La sua bacchetta dilata alcuni tempi e l'orchestra (anche se di pochi elementi) non è soltanto di supporto all'azione e alle voci ma è vera protagonista di una vera commedia psicologica di amori giovanili e non la solita farsa moraleggiante. Inoltre, si ha modo di ascoltare la difficilissima aria Cessa di più resistere (reintrodotta, dopo due secoli, da Rockwell Blake e ora affrontata da pochissimi tenori). L'atletico Dmitry Korchak se la cava bene con una sfilza di «Do» che precedono un rondò. Di gran livello la giovane Ketevan Kemoklidze, la cui dizione italiana è migliorata non poco da quando cantò lo stesso ruolo (ma in un'edizione più innovativa) a Palermo lo scorso settembre. Gli altri, ossia Salsi, Furlanetto e Roman, sono veterani.

giovedì 21 aprile 2011

Potrà l’eurozona vivere felice (dopo le vicende dell’ultimo anno)? Il Velinio 21 aprile

ECO - Potrà l’eurozona vivere felice (dopo le vicende dell’ultimo anno)?
di Giuseppe Pennisi
Roma, 21 apr (Il Velino) - A questa domanda l’economista Marcello Messori risponde con un “ma” e con un “se” in un Policy Brief diramato dal CEPS (Center for European Policy Studies); a suo avviso, il meccanismo di stabilizzazione finanziaria in corso di messa a punto potrebbe evitare che l’unione monetaria europea faccia la fine di gran parte di quelle istituite nel dopoguerra e regga l’urto dei mercati internazionali. Quasi simultaneamente lo stesso CEPS ha diramato, ai propri abbonati, un Policy Brief di Christian Robert Kopf, direttore del servizio analisi economica di Spinnaker Capital Limited, dal titolo “Restoring European Financial Stability” in cui sostiene che la stabilità finanziaria nell’area può tornare unicamente se si accettano insolvenze programmate e concordate degli Stati con un alto debito estero (e con la difficoltà di rifinanziarlo) anche ove ciò comportasse perdite serie a banche di altri Stati dell’eurozona che hanno fatto loro credito. Due visioni, quindi, differenti ma ambedue con più di una punta di scetticismo sul futuro dell’euro come lo conosciamo oggi. È difficile sapere se il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, abbia avuto accesso a queste analisi quando ha parlato della necessità di rimettere profondamente mano ai trattati istitutivi dell’unione monetaria (l’ultimo dei tanti aggiornamenti è stato appena firmato ed è in fase di ratifica).

Cerchiamo di rispondere alla risposta di Messori e di fare il punto su come dare un assetto più promettente all’eurozona. In primo luogo, i nostri 17 non vivranno felici e contenti dopo gli ultimi ritocchi: l’eurozona è nata male (lo ho documentato in una rubrica quotidiana su “Il Foglio” nel 1996-1998 e in un saggio su “La Rivista di Politica Economica” del 1999) ed è stata rappezzata peggio. Decisa per ragioni puramente politiche (impedire che l’unificazione tedesca comportasse costi elevati agli altri Stati dell’Unione Europea), si è basata su un percorso programmato a tappe che riguardava la convergenza di finanza pubblica e di alcuni aspetti dei mercati finanziari (i tassi d’inflazione) senza tenere conto che il nodo erano le differenze nelle strutture di produzione, nei comportamenti dei soggetti economici, negli andamenti della produttività e nella mobilità effettiva (non solo legale) dei fattori di produzione.

Sostituite le monete nazionali con l’euro, poco o nulla è stato fatto perché Eurolandia diventasse un’area valutaria ottimale. Inoltre, l’euro non è stato il grimaldello per far sì che le politiche economiche e i comportamenti dei soggetti economici fossero in linea con la nuova occupazione. Ha invece prevalso l’opportunismo più smaccato di cui l’indebitamento sino al collo grazie a bassi tassi d’interesse è unicamente uno degli aspetti. Un altro (che riguarda l’Italia) è la mancata liberalizzazione da lacci e laccioli e la lilliputtizzazione delle imprese anche a ragione di una normativa sul lavoro che comporta una selezione avversa (per non superare i 15 dipendenti).

Cosa fare? Uscire dall’eurozona comporta perdite stimabili in quattro punti percentuali del Pil (e un balzo spaventoso della disoccupazione). Credo ci siamo percorsi meno costosi come indicato dalla graduale “dedollarizzazione” (unioni monetarie unilaterali) del Perù e dell’Ecuador e, di converso, dalla repentina (e costosissima) “dedollarizzazione” dell’Argentina. Non si tratterebbe di tornare bruscamente a lira, franco, dracma e via discorrendo, ma di definire un percorso a tappe per formalizzare ciò che è già nei fatti: un sistema in cui valute che - pur chiamandosi tutte “euro” - hanno valori internazionali differenti.
(Giuseppe Pennisi) 21 apr 2011 10:49
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lunedì 18 aprile 2011

Lirica, a Parma in scena un “Barbiere” intelligente e di qualità Il Velino 18 aprile

Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.
CLT - Lirica, a Parma in scena un “Barbiere” intelligente e di qualità
Parma, 18 apr (Il Velino) - Lo scorso autunno il Teatro Massimo di Palermo ha presentato un “Barbiere di Siviglia” con una lettura giovane e nuova sotto molti punti di vista e un’intelligente chiave interpretativa: Figaro visto come un precario in una Siviglia in cui tutti hanno un ruolo ben definito: Almaviva quello del ricco spasimante, Rosina quello dell’innamorata avvinghiata da lacci e lacciuoli relativi alla propria condizione sociale, Bartolo quello del burbero a caccia di fanciulle e doti, Basilio quello dell’Azzeccagarbugli pronto a farsi convincere con una manciata di denaro. Ricordiamo brevemente la trama della pièce di Beaumarchais: Bartolo, medico di una certa età, vuole impalmare la giovane, bella e ricca Rosina di cui è tutore ossia, rifacendoci al clima dell’epoca, protettore-amante da qualche tempo. Il desiderio di convolare a nozze non è tanto di carpirne una cospicua eredità (non se ne parla mai) ma perché vede giovanotti di bella presenza, e pure con il portafoglio pieno, ronzare attorno alla ragazza con l’intenzione di portargliela via. In effetti, la fanciulla ha messo gli occhi su un attraente studente (si dichiara tale, ma è un contino donnaiolo di chiara fama). Con l’aiuto di un barbiere tuttofare (Figaro), specialmente se c’è denaro in vista, il giovanotto assume varie vesti (i panni di militare e di prete insegnante di musica) per entrare nella barricatissima abitazione di Bartolo, corteggiare la ragazza e sposarla, per poi tentare di tradirla con la cameriera (come si vede nella seconda puntata della trilogia). Ma finendo per essere beffato dalle due donne.

A fine Settecento, la pièce di Beaumarchais aveva una certa carica rivoluzionaria: il “Terzo stato” (Figaro) metteva ordine nei pasticci di clero, aristocrazia decadente e borghesia emergente. Messa in musica dall’anziano Giovanni Paisiello, diventò un’elegante e delicata commedia sentimentale. Pochi anni più tardi, al giovane Gioacchino Rossini venne chiesto di musicarla nell’arco di una settimana. Nelle mani di Rossini, “teocon” davvero reazionario ma bonvivant e pieno di amanti già a 24 anni, diventò frizzante come il lambrusco e brillante come la cucina romagnola, dove il Cigno di Pesaro trascorse la sua infanzia girovaga. Riconosciuta come una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento, “Il Barbiere” continuò ad avere strepitoso successo anche quando imperversava il melodramma verdiano e quasi tutti i lavori rossiniani erano finiti nel dimenticatoio. Tanto da essere ancora oggi una delle opere del pesarese più frequentemente rappresentate.

Nello spettacolo in scena al Regio di Parma, Figaro è un ancora una volta “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (il giovane Conte d’Almaviva e, soprattutto, la pepata Rosina). Cerca, come tutti i “precari”, un posto fisso. E lo otterrà. Al servizio di Almaviva che, come sapremo dal prosieguo della vicenda, tenterà di portare nel proprio letto la sua fidanzata, restandone però scornato di fronte all’universo mondo. Nell’allestimento di Parma non c’è tuttavia la vis polemica presente in quello palermitano. È una produzione di Stefano Vizioli (regia) con scene di Francesco Calcagnini e costumi di Annemarie Heirnich inizialmente concepita per Ferrara Musica, che negli ultimi dieci anni ha girato per teatri grandi e piccoli, affinata di volta in volta dal regista e dai suoi collaboratori. È quindi uno spettacolo molto rodato che, anche per questa ragione, il 26 aprile verrà presentato in diretta e alta definizione in 400 cinema in tutta Europa. Sotto il profilo scenico e drammaturgico, è un lavoro elegante che intende soprattutto divertire. Intelligente la scena fissa: una Siviglia dai palazzi bianchi che si apre negli interni della casa di Bartolo dalle pareti rosa, con un cielo blu sgargiante. Belli i costumi, studiati perché lo spettacolo sia caratterizzato da una policromia raffinata. Vizioli, lo ripetiamo, non vuole trasmettere un messaggio ma divertire, mentre nella regia di Francesco Micheli a Palermo si strizzava l’occhio a Almodovar.
(Hans Sachs) 18 apr 2011 12:46

Il "Barbiere di Siviglia" nelle mani esperte del giovanissimo Battistoni Il Sussidiario 18 aprile

Musica e concerti
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TEATRO REGIO DI PARMA/ Il "Barbiere di Siviglia" nelle mani esperte del giovanissimo Battistoni
Giuseppe Pennisi
lunedì 18 aprile 2011
Andrea Battistoni, classe 1987
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TEATRO/ "Piccola Lirica", quella Scala low cost nel cuore di Roma
MUSICA/ Due libri per salvare il pubblico dell'Opera e della Musica Sinfonica
Perché recarsi a Parma in quel grande e bel santuario verdiano che è il Teatro Regio per andare a vedere e ascoltare il rossiniano “Barbiere di Siviglia”? In allestimento, per di più, di oltre dieci anni fa, curato dal buon Stefano Viezzoli (sempre puntuale ed elegante, ma anche rigorosamente tradizionale)? La messa in scena nata a Ferrara, ha già girato per mezza Italia (e non solo) - migliorando, è vero, di edizione in edizione. E ancora due dei ruoli principali - quelli di Almaviva (Dmitry Korchak) e di Rosina (Ketevan Kemoklidze) - sono affidati agli stessi cantanti che in settembre hanno svettato in un brillante, e modernissimo, allestimento low cost messo in scena al Teatro Massimo di Palermo?


La ragione c’è. Ed è una sola: la direzione musicale del 24enne Andrea Battistoni. Battistoni non è uno dei tanti allievi di Claudio Abbado e soprattutto di Riccardo Muti che sembrano monopolizzare i golfi mistici dei teatri d’opera italiani. Sarebbe errato dire che è un autodidatta il quale si è fatto da solo. Ha avuto maestri di tutto rispetto come Zoltan Szabò e Mickael Flancksmann. E’ già noto ed apprezzato all’estero e ha un carnet di impegni in vari Paesi europei e in Giappone nei prossimi mesi. Viene, però, fuori dai circuiti abituali. Non sarebbe stato notato in Italia se lo scorso ottobre, il Festival Verdi non avesse scommesso su di lui affidandogli, ad appena 23 anni, una delle partiture più complesse del cigno di Busseto: “Attila”. Acclamato dal pubblico e dalla critica, è stato scritturato da La Scala per la direzione musicale, nel prossimo marzo, de “Le Nozze di Figaro” , una delle più complesse, e più sensuali, opere di Mozart.


Chi vuole saperne di più, guardi su Internet le recensioni apparse nell’ultimo anno e mezzo sulle maggiori testate straniere e italiane. Non è questa la sede per tessere le lodi di Battistoni, anche perché gli entusiasmi non sempre sono forieri di successi di lungo periodo. Il compito del vostro “chroniqueur” è di recensire un Barbiere di Siviglia che, visto e ascoltato il 15 aprile, la sera del 26 aprile andrà, in diretta da Parma, in alta definizione, su alcuni di principali canali televisivi dedicati alla musica classica e in 400 sale cinematografiche italiane e straniere.

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TEATRO REGIO DI PARMA/ Il "Barbiere di Siviglia" nelle mani esperte del giovanissimo Battistoni
Giuseppe Pennisi
lunedì 18 aprile 2011
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Andrea Battistoni, classe 1987
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TEATRO/ "Piccola Lirica", quella Scala low cost nel cuore di Roma
MUSICA/ Due libri per salvare il pubblico dell'Opera e della Musica Sinfonica

La direzione musicale di Battistoni sfata una leggenda: quella secondo cui sino a La Donna del Lago nel 1819 , Rossini avesse dato poca importanza all’orchestrazione - lui sì era semi-autodidatta! - e considerato l’orchestra principalmente un supporto all’azione e alle voci. Rossini aveva 24 anni quando, in pochi giorni, compose Il Barbiere - la stessa età di Battistoni che, visto da vicino, sembra un diciottenne. Rossini era un giovanotto con una vita amorosa complicata. L’orchestrazione del Barbiere diretto da Battistoni lo mette in luce sin dalla sinfonia, condotta dilatando i tempi per farvi percepire non solo le mille bolle scoppiettanti ma anche una forte carica erotico-sentimentale. Non per nulla la stessa partitura era stata utilizzata dal pesarese per due opere molto “serie”, Aureliano in Palmira ed Elisabetta Regina d’Inghilterra.


La raffinatezza dell’orchestrazione (pur se con pochi strumenti, come era nelle disponibilità dei teatri romani nel 1816) si avverte non solo nel noto interludio del secondo atto (la tempesta) ma nella deliziosa scena tra Bartolo (Bruno Praticò) e Rosina nel primo atto, nel concertato alla fine del primo atto e - immaginate - nell’aria considerata “maledetta” per il tenore alla fine dell’opera - quella “Cessa di più resistere” che creata da Rossina una dozzina d’anni dopo il debutto del lavoro è scomparsa sino alla metà degli Anni Settanta quando Rockwell Blake insistette per “riaprirla”. Ora unicamente Florèz, Pirgu e pochi altri la cantano: dopo una terrificante serie di “Do” acuti, l’aria si tramuta in un rondò. In settembre a Palermo, l’atletico (anche vocalmente) Dmitry Korchak, non l'ha affrontata. A Parma, Battistoni (che presenta un Barbiere senza tagli, di una durata di tre ore ed un quarto, intervallo compreso) gliela fa cantare: il risultato è più che buono.


Altre notazioni di rilievo: nell’arco di pochi mesi è migliorata alla grande la dizione di Ketevan Kemoklidze, un contralto di coloratura da seguire nei prossimi anni. Di buon livello, Luca Salsi (Figaro), Giovanni Furlanetto (Basilio) e Natalian Roman (Berta). Dell’allestimento si è detto: divertente ma tradizionale. In effetti, dei tanti tentativi di “svecchiare” il capolavoro rossiniano visti e ascoltati negli ultimi anni, quello del Teatro Massimo di Palermo nel settembre 2010 è stato uno dei più riusciti: imperniato su, Figaro come un lavoratore “precario” dai mille mestieri in un primo Ottocento come lo vedrebbe Mirò (scene essenziali e facilmente trasferibili in altri teatri, importantissimo il gioco di luci) ma come lo metterebbe in scena Almodovàr (quindi, piccante e pieno di sotto-intesi). Il Teatro Regio di Parma avrebbe dovuto farci un pensierino.


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PERCHE' E' INUTILE FASCIARSI LA TESTA PER GLI "SQUILIBRI GLOBALI" La Gazzetta finanziaria 18 aprile

AND THE PAPER IS...
PERCHE' E' INUTILE FASCIARSI LA TESTA PER GLI "SQUILIBRI GLOBALI"
Dobbiamo smettere di fasciarci la testa sugli squilibri mondiali dell'economia e organizzare novene perché il Cielo li riduca (gli uomini infatti, come dimostra il G20 di questo fine settimana, si stanno agitando a questo riguardo ma senza grande esito). E' questo, in sintesi, l'ammonimento di Manoj Pradhan di Morgan Stanley e Alan M. Taylor della University of California nel saggio "Current Accounts and Global Adjustment: The Long and the Short of it", contenuto nell'ultimo fascicolo del "Journal of Applied Corporate Finance".
Lo studio analizza gli "squilibri" delle bilance dei pagamenti negli ultimi 150 anni, soffermandosi in particolare sulla fase di globalizzazione tra il 1870 e il 1914, quando furono molto più forti di quelli degli ultimi trent'anni (in rapporto al pil mondiale). Allora tali squilibri sono stati la leva principale dello sviluppo di tutti quei paesi nei quali venne convogliato il risparmio europeo in eccedenza. Oggi gli stessi promuovono lo sviluppo dell'Asia e dell'America Latina. Non solo: secondo Pradhan e Taylor, gli squilibri si stanno gradualmente risolvendo. Un avvertimento ai colbertiani di tutto il mondo: cercare di incidere sui flussi di capitale con controlli fa male, specialmente a chi i controlli li mette. (Giuseppe Pennisi)

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domenica 17 aprile 2011

"Piccola Lirica", quella Scala low cost nel cuore di Roma Il Sussidiario 15 aprile

TEATRO/ "Piccola Lirica", quella Scala low cost nel cuore di Roma
Giuseppe Pennisi
venerdì 15 aprile 2011
Lirica low cost e high tech al teatro Flaiano
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MUSICA/ Due libri per salvare il pubblico dell'Opera e della Musica Sinfonica
MUSICA/ "Strumenti di Pace", i giovani compositori in concorso
Un suggerimento al nuovo Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, Giancarlo Galan. Arrivando al Collegio Romano, non si faccia illusioni: in materia di fondazioni lirico-sinfoniche è stato soltanto messo un tampone. Se non si fanno riforme vere, tra un anno saremo da capo a dodici nonostante l’aumento delle accise sulla benzine. Le riforme vere comportano “croce e delizie”, come si canta nella verdiana “Traviata”: riduzione del numero delle fondazioni (tramite, ad esempio, accorpamenti), regole in materia di coproduzioni, modifiche radicali nella contrattazione collettiva ed uno smaltimento del personale in esubero. Tuttavia, prima di ascoltare troppo consiglieri interessati, faccia una passeggiata a pochi passi del dicastero per arrivare a Via Santo Stefano del Cacco e vedere come alta tecnologia può produrre opera low cost.
Tre ragazze (non proprio liceali) da circa quindici anni si sono messe in testa di salvare questa italianissima forma di spettacolo . Non hanno mai avuto un euro da Pantalone. La stampa italiana si è occupata poco e raramente della loro avventura. La vicenda ha, però, interessato il “New York Times”, “The Indipedent” ed alcuni dei maggiori quotidiani giapponesi (oltre ad alcune riviste specializzate), nonché il mensile canadese “La Scena Musicale” e siti internazionali di pregio come “Opera Today” e “Music and Vision”. Per alcuni anni dal sito www.operabase.com (il più consultato dai melomani di tutto il mondo , specialmente da quelli che viaggiano da teatro in teatro) è sparito il link al Teatro dell’Opera di Roma ma si accede a quello del loro teatrino (www.piccolalirica.com) . Appena 150 posti, in una stradina nel cuore della Roma turistica . La sala e la galleria (restaurate e diventate un elegante salotto) sono sempre piene; due terzi del pubblico è straniero – acquista i biglietti (a prezzi contenuti) via Internet- numerosi soprattutto i giapponesi e gli americani.
Il Piccolo Teatro Lirico romano non si pone in competizione con la Scala, il San Carlo, il Teatro dell’Opera di Roma. Ha alcune caratteristiche particolari messe a punto in anni di sperimentazione dalle tre ragazze: Rosanna Siclari, impresario e regista, Gianna Volpi, scenografa, e Elisabetta Del Buono, direttore musicale e maestro concertatore. In primo luogo, lo spettacolo deve essere, per utilizzare il linguaggio dell’informatica, “user’s friendly” – amico nei confronti dello spettatore. Inizio alle 20 in punto e termine alle 21,30 per dare modo di andare a cena nei ristoranti e trattorie sparpagliati nella vecchia Roma. Al Festival di Bregenz (ai confini tra Austria e Svizzera) si usano le forbici perché lo spettacolo (quale che sia l’opera) sia trasformato in un atto unico di due ore

In secondo luogo, l’opera (anche se ridotta) viene presentata con tutti i suoi elementi essenziali ma adattati ad una sala piccola. I cantanti sono giovani e sanno recitare (i protagonisti della prima messa in scena , una “Traviata” del 1999, salgono da un lustro sui maggiori palcoscenici). Le scenografie sono di lusso ma virtuali grazie a proiezioni computerizzate ed integrazioni con filmati. In “Tosca” (ha avuto oltre 550 400 repliche in quel di Via Santo Stefano del Cacco) siamo portati a Sant’Andrea della Valle, a Palazzo Farnese ed a Castel Santangelo da riproduzioni al tempo stesso fedeli ai luoghi e visionarie, assistiamo alla fuga in carrozza di Tosca dopo avere accoltellato Scarpia e, mentre suonano le note dell’introduzione, all’entrata furtiva di Angelotti in Chiesa. In “Madama Butterfly” le scene portano il segno della storia della pittura giapponese da Tawara Sotatsu all’avanguardia delle ultime Biennali d’Arte contemporanea. E l’orchestra? Benjamin Britten, consapevole delle difficoltà sempre più severe di un comparto destinato a perdere competitività rispetto ad altre forme di spettacolo dal vivo, riscrisse i propri capolavori per grande organico orchestrale (ad esempio, “Billy Budd”) in edizioni per due pianoforte (tagliando alcune scene e qualche personaggio).
Elisabetta Del Buon dirige un orchestra di cinque professori di piano ciascuno alla tastiera di un sintetizzatore elettronico giapponese (la Japan Electronic Keyboard Society patrocina l’operazione) ; grazie alla tecnologia digitale audio ed ai sistemi informatici MIDI, la Synth Lyric Orchestra (è questo il nome della formazione) simula un organico di 60-70 elementi.
Molta critica italiana ha trattato con sufficienza questa ormai consolidata esperienza. Non solo Britten ma anche Giancarlo Menotti vedeva che l’opera sarebbe sopravvissuta unicamente facendo una cura dimagrante e “riscoprendo l’intimità dei piccoli teatri”. La testata americana “Opera Today”, forse la più letta al mondo (nel settore), ha dedicato un lungo servizio al “ritorno alle origini” , all’”opera da camera”, al fine di sopravvivere. Coniugare “live electronics” con voci e scenografie virtuali è probabilmente ciò che avrebbe fatto lo stesso Wagner per evitare che ad ogni messa in scena del suo “Anello del Nibelungo” il teatro che se ne prendeva carico finisse in dissesto. Infine il pubblico; assaporare la versione ridotta con “live electronics” è spesso la strada per andare (quando si è grado di pagare i cari biglietti) un giorno alla Scala.

giovedì 14 aprile 2011

SORPRESA: LA GLOBALIZZAZIONE RIDUCE LE DIFFERENNZE DI REDDITO, Avvenire 14 aprile

SORPRESA: LA GLOBALIZZAZIONE RIDUCE LE DIFFERENNZE DI REDDITO
Giuseppe Pennisi
L’integrazione economica internazionale è una leva non solo per uscire dalla povertà assoluta (la Banca mondiale ed il Fmi affermano che negli ultimi 15 anni ha tirato fuori dalla miseria 500 milioni di persone, principalmente in Asia ed in America Latina) ma anche per ridurre le differenze all’interno dei singoli Paesi. Questa è la conclusione di un’analisi empirica su 60 Paesi (per i quali esistono dati dettagliati sulla distribuzione dei redditi) condotta da quattro economisti , Lei Zhou (, MacroSys, LLC) , Basudeb Biswas, Utah State University, Tyler Bowles, (Utah State University) e Peter J. Saunders, (Central Washington University) e pubblicata nell’ultimo fascicolo del Global Economy Journal . Lo studio rappresenta una pietra miliare su un tema che ha diviso economisti per decenni. I quattro autori ricordano, in premessa che, sotto il profilo teorico, si può sostenere con argomentazioni parimenti cogenti che la globalizzazione aumenta sia la convergenza sia la divergenza tanto tra Paesi quanto all’interno dei singoli Paesi. Due Premi Nobel dell’Economia, Gunnard Myrdal e Paul Krugman hanno sposato la seconda tesi sulla base di teoremi ineccepibili sotto il profilo della logica matematica.
Studi precedenti , quali quelli effettuati dalle Nazioni Unite nell’ambito del rapporto annuale sullo sviluppo umano e quelli di A.T. Kerney tra il 2000 ed il 2004, venivano criticati in quanto non sufficientemente “robusti” sotto il profilo tecnico-statistico: gli indici di globalizzazione e di distribuzione del reddito erano piuttosto grezzi, il campione di Paesi limitato, l’arco di tempo contenuto. Il lavoro di Zhou, Biswas, Bowles e Saunders ha il pregio di coprire Paesi, sia ad alto reddito sia emergenti sia poveri, per un arco di 50 anni e di utilizzare sia un “indice di globalizzazione” molto ricco sia un “indice di distribuzione del reddito” (il “coefficiente di Gini”, dal nome dello statistico italiano Corrado Gini) applicato in tutto il mondo. Il saggio è stato scritto per lettori provetti in statistica applicata . Scorrendo le tabelle è interessante vedere come man mano che dagli Anni Cinquanta l’indice di globalizzazione applicato all’Italia aumenta, diminuiscono le differenze di reddito tra le varie fasce di famiglie . Lo stesso fenomeno si osserva per tutti gli altri Paesi censiti dall’Argentina al Pakistan. Ciò vuol dire che le tendenze protezionistiche in atto possono fare danno in materia non soltanto di crescita ma anche di equità.
L’analisi riguarda differenze di reddito tra famiglie non tra territori. Uno studio dell’UE a 15 alla fine degli Anni Novanta dimostrava che l’integrazione europea aveva sino ad allora trainato verso la convergenza di maggior benessere tutte le aree in ritardo con l’eccezione del nostro Sud e della Sicilia. Da allora la situazione non pare cambiata. La spiegazione risiede nelle migrazioni dal Mezzogiorno e nei trasferimenti alle famiglie sotto forma principalmente di pensioni e di rimesse da congiunti che lavorano altrove. Quindi sarebbe un errore stare con le braccia conserte in attesa che l’integrazione economica traini il Sud e la Sicilia.
Da queste analisi emerge un dubbio a cui danno voce economisti giovani e molto differenti – dall’australiano Steven Keen della University of Western Sidney al russo Vladimir Popov, preside di economia aziendale alla Nuova Scuola Economica di Mosca: se la globalizzazione conviene sotto il profilo della crescita e dell’equità, perché accanirsi tanto nei confronti di uno dei suoi risultati (gli squilibri finanziari mondiali, specialmente tra Usa e Asia) che più ha fatto da motore a tirare mezzo miliardi persone fuori dalla povertà ed a ridurre le differenze dei redditi?

mercoledì 13 aprile 2011

L'Italia "appalta" all'estero il Piano delle riforme Il Sussidiario 14 aprile

L'Italia "appalta" all'estero il Piano delle riforme
Giuseppe Pennisi
giovedì 14 aprile 2011
Giulio Tremonti insieme a Roberto Calderoli e Maurizio Sacconi nella conferenza stampa seguita al Consiglio dei ministri di ieri (Ansa)
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FIAT/ Fatto 30, per Marchionne è ora della “campagna d’Oriente”, di A. Giuricin
QUALCOSA DI SINISTRA/ Caso Parmalat: le incognite di un decreto "bomba"
vai al dossier Crisi o ripresa?
È naturalmente difficile commentare il Programma nazionale di riforma (Pnr) se, al momento in cui iniziamo a scrivere questa nota (alle 19:00 del 13 aprile 2011), il testo ufficiale completo non è stato ancora diramato (neanche per via elettronica) e il comunicato del Consiglio dei ministri tenuto nel primo pomeriggio per esaminare il Pnr è molto scarno. Dal sito del Governo si apprende che il Pnr è stato “approvato”. Da alcuni giornali sappiamo che il documento consta di circa 100 pagine e delinea una strategia macroeconomica quale quella già anticipata su queste pagine lunedì 11 aprile.
In breve, l’aumento del tasso di crescita dall’1% nel 2011 all’1,5% nel 2013 (non certo spettacolare) dipenderebbe quasi interamente dall’aumento del tasso d’investimento, pilotato, ove non trainato, da quello in opere pubbliche. Se il testo integrale del documento lo conferma, ci si è basati su un modello econometrico aggregato del tipo Harrod-Domar - molto in uso negli Anni Cinquanta e Sessanta, ma già nel 1968 severamente criticato in un saggio breve, ma magistrale, dell’allora giovane Paul Streeten.
Naturalmente, la modellistica del Dipartimento del Tesoro non è così rozza. Il modello Harrod-Domar viene integrato con elementi della modellistica alla Klein in cui la variabile esogena più importante è l’andamento del commercio internazionale; infatti, a “tirare” il tasso di crescita dell’1% all’1,5% sarebbero non solo l’aumento dell’investimento, ma anche quello delle esportazioni (al traino di una crescita del commercio internazionale e di un miglioramento della competitività del “made in Italy”).

Perché iniziare una nota sul Pnr parlando di econometria? Sinora le informazioni disponibili (anche una copia “ufficiosa” ricevuta alle 19:20) riguardano unicamente o principalmente l’aspetto macroeconomico e trattano solo sporadicamente, ove non marginalmente, di riforme. I tre documenti pubblicati intorno alle 20:00 sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze confermano questa impressione: descrivono, infatti, con dovizia di elementi il quadro macroeconomico (e includono un dettagliato allegato tecnico sulle metodologie di previsioni), illustrano con altrettanta dovizia di dati le riforme già fatte (da quella previdenziale, a quella universitaria, al federalismo demaniale e via discorrendo) e le riforme in fase di attuazione. Sono, però, molto vaghi su quelle future, quelle che avrebbero dovuto dare la frustata per accelerare la crescita e portarla al 3-4% l’anno.
Le variabili del programma sono essenzialmente: a) un maggiore tasso d’investimento rispetto al passato recente; b) un miglioramento della performance sui mercati internazionali. Questa seconda variabile - è vero- è agganciata, a sua volta, a misure per allineare i salari alla produttività, far crescere quast'ultima, aumentare il tasso di attività di donne, giovane e anziani. Non viene, però, specificato (almeno per il momento) come raggiungere questi obiettivi, ciascuno dei quali richiede riforme profonde e nella regolazione del mercato del lavoro e nei comportamenti delle imprese.
Non mancano auspici ad aprire ulteriormente il mercato dei servizi e delle industrie a rete e a migliorare il contesto imprenditoriale attraverso una più marcata efficienza amministrativa, a incrementare la spesa privata in ricerca e sviluppo e ad alzare la qualità del capitale umano. Ancora una volta, le informazioni disponibili non danno alcuna specifica di quali riforme si intendono fare, né di come si pensa di farle.
Ancora più nebulosa, la situazione della prima variabile: l’aumento dell’investimento pubblico. Solo meno di due settimane fa si è tentato di fare una rassegna del parco progetti disponibile: mentre è molto vasto quello dei progetti chiamati “definitivi”,molti di essi non sono “esecutivi” e tra gli “esecutivi” soltanto una frazione è dotata dei computi metrici essenziali per aprire un cantiere. Se questo nodo non viene sciolto - fornendo, ad esempio, informazioni sull’impiego del fondo per la progettazione creato nel 1999 presso il Cipe - , si ha l’impressione di essere alle prese con una mera esercitazione econometrica Harrod-Domar/Klein.
C’è un campo - tuttavia - in cui si avverte odor di riforma: il fisco. Gli strumenti sarebbero il taglio delle agevolazioni (seguendo le proposte di una Commissione istituita all’uopo) e l’applicazione della “fiscalità di vantaggio” per le aree in ritardo di sviluppo. Il primo implica riscrivere il codice tributario italiano: obiettivo importante, ma i cui frutti non saranno immediati. Il secondo dipende dall’esito di un non facile negoziato con i nostri partner Ue. Se ne sente molto meno in materia di liberalizzazioni e privatizzazioni. E, pour cause, dati gli orientamenti che paiono guadagnare terreno in campo di politica industriale.



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lunedì 11 aprile 2011

Musica, dall’Amazzonia a Palazzo Pamphilj Il Velino11 aprile

CLT - Musica, dall’Amazzonia a Palazzo Pamphilj il melting pot degli Uakti
Il gruppo brasiliano fonde classica e musica tradizionale brasiliana, utilizzando strumenti costruiti con pentole materiali della foresta tropicale
Roma, 11 apr (Il Velino) - È quanto meno curioso vedere uno dei più noti complessi di musica latino americana, lo Uakti, esibirsi nel salone di uno dei più bei palazzi della Roma barocca: Palazzo Pamphilij, sede dell’Ambasciata del Brasile. Eppure con un loro concerto e una cena nella Galleria Pietro da Cortona, con affaccio su Piazza Navona, è stato inaugurato un programma di cultura brasiliana che durerà diversi mesi e spazierà dalla letteratura alle arti figurative. Lo Uakti è un gruppo musicale e strumentale composto da Marco Antônio Guimarães, Artur Andrés Ribeiro, Paulo Sérgio Santos, e Décio Ramos . Il nome viene da una leggenda secondo cui Uakti era una figura mitologica che viveva sulle sponde del Rio Negro con un corpo pieno di buchi attraverso i quali il vento passava producendo suoni che seducevano le donne della tribù. Ucciso dagli uomini perché rubava le loro donne, sulla sua tomba fiorirono arbusti da cui nacquero i flauti. Il gruppo è composto da seri professionisti che hanno lavorato nelle migliori orchestre sinfoniche brasiliane. Loro l’idea di fondere musica classica con musica tradizionale utilizzando strumenti costruiti con materiali della foresta tropicale nonché con pentole, marimbas, tamburi unitamente a strumenti usuali come il pianoforte e la viola da gamba. Hanno composto e eseguito le colonne sonore di vari film ed i loro dischi sono tra i più venduti in brasile. Rare tuttavia le loro presenze in Europa per concerti dal vivo.

Philip Glass si è interessato al loro modo di adattare e suonare e ha composto specificatamente per loro tre suite sui grandi fiumi del Brasile nonché un balletto. Un altro minimalista americano, Steve Reich, ha composto brani appositamente per il gruppo. Le tre suite, unitamente a musica tradizionale brasiliana, adattamenti da Bach e da Mozart e brevi partiture recenti di Heitor Villa Lobos, sono state il piatto forte del concerto. Sonorità interessanti, visto che quando si pensa alla musica brasiliana si corre quasi istintivamente con la mente alla samba e alle danze del carnevale. Tanto più che non solamente mostrano il mondo poco noto del minimalismo quasi calligrafico brasiliano, ma anche i nessi tra la musica brasiliana contemporanea e il primitivismo ancestrale con le radici lusitane del fado. Con un velo di malinconia - presentissimo, come c’è da aspettarsi nelle suite di Glass dedicate ai fiumi - presente anche nell’esplosione finale, quasi pirotecnica, del concerto: “Folia de Reis Magos” di Marco Antônio Guimarães, leader e animatore del complesso.
(Hans Sachs) 11 apr 2011 13:55
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LA VIA DELLE SVALUTAZIONI INTERNE PER SALVARE L'EURO Il Foglio Gazzetta 11 aprile

AND THE PAPER IS...
LA VIA DELLE SVALUTAZIONI INTERNE PER SALVARE L'EURO
Il nuovo Patto per l'euro” è stato esaminato da due economisti noti per la loro impostazione liberale e in ruolo presso due roccaforti liberiste: Andrew Hugh Hallett della George Mason University e Svend Erik Hougaard Jensen della Università di Copenhagen. Nel loro lavoro "Is there a need for a new framework for the euro area?" (GMU School of Public Policy Research Paper No. 2011-09) sostengono la necessità di un nuovo approccio alle politiche di bilancio: obiettivi specifici a lungo termine in materia di spesa pubblica - in comparti come l'istruzione, la sanità, la previdenza - devono essere accompagnati da obiettivi puntuali a breve termine di politica monetaria. Ciò consentirebbe d’'individuare le aree più stabili, che dovrebbe fare da ancora all'Eurozona e dare a essa credibilità e ridurre il premio di rischio sull'indebitamento. Tuttavia nelle conclusioni del lavoro si constata che dopo le vicende degli ultimi anni occorre dare nuova verginità all'euro e avere un meccanismo affinché se la monete unica dovesse perderla di nuovo ciò possa avvenire in modo meno traumatico: quindi un sistema di svalutazioni coordinate e decise collegialmente. Come nel regime di Bretton Woods e negli accordi europei in stile Sme. (Giuseppe Pennisi)

domenica 10 aprile 2011

Il "giallo" del piano di riforma scomparso svela le crepe del governo... Il Sussidiario 11 aprile

. Il "giallo" del piano di riforma scomparso svela le crepe del governo...
Giuseppe Pennisi
lunedì 11 aprile 2011
Foto Imagoeconomica
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FINANZA/ Tra tortillas e pop corn sui mercati si "cucina" un’altra crisi, di M. Bottarelli
SCENARIO/ Forte: perché certi media e magistrati ci vogliono più poveri?
Che fine ha fatto il Piano nazionale di riforma (Pnr) la cui approvazione era attesa da parte del Consiglio dei ministri dell’8 aprile? Il 24 marzo, i 70 deputati dell’intergruppo “Europa 2020” hanno varato un documento, predisposto dall’Oseco (Osservatorio europeo sulla crescita e l’occupazione), di auspici sui contenuti che dovrebbe avere il Pnr. Un’assemblea straordinaria del Cnel era stata messa in cantiere per il 13 aprile, nell’ipotesi che le Camere avessero ricevuto il documento la sera dell’8 aprile.
Invece, proprio venerdì, la Presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, ha scritto a Renato Schifani per chiedere “di adottare tutte le iniziative necessarie affinché, in qualità di Presidente del Senato, chieda ufficialmente al Governo che il Piano nazionale di riforma sia presentato e discusso in Senato prima della sua trasmissione nelle sedi istituzionali dell'Unione europea (Ue)”. Il documento sarebbe dovuto arrivare a Bruxelles entro e non oltre il 20 aprile (dopo essere stato dibattuto dal Parlamento e, quindi, dalle parti sociali - quindi dall’assembla del Cnel). Nel 2005, il Pico - Programma di innovazione, competitività e occupazione -, curato dal Dipartimento politiche comunitarie (allora guidato da Paolo Savona), arrivò a Bruxelles due settimane prima della scadenza.
Il Pnr - vale la pena ricordarlo - è uno dei tre documenti fondamentali previsti dalla nuova sessione europea di bilancio; gli altri due sono l’analisi della crescita (inviato dalla Commissione europea agli Stati membri a metà gennaio) e il Programma di stabilità finanziaria (Psf) che ciascuno Stato deve inviare a Bruxelles entro fine aprile. Rispetto alle versioni preliminari del Pnr, inviate dagli Stati Ue lo scorso novembre, la Commissione ha chiesto agli esecutivi nazionali di stimare l'impatto in termini di Pil (Prodotto interno lordo) delle riforme approvate, in cantiere oppure pianificate.
Da Palazzo Chigi giungono dichiarazioni ufficiose, off-the-record, che vorrebbero essere rassicuranti, ma che inquietano ancora di più. Secondo queste voci, il Governo starebbe per varare il Pnr da un’ora all’altra - non si escludeva la possibilità di un Consiglio dei ministri nel fine settimana 9-10 aprile.

Il Tesoro, dopo aver sentito i tecnici dei principali Ministeri coinvolti, avrebbe tenuto conto delle osservazioni della Commissione. E, secondo il modello econometrico del Dipartimento del Tesoro, l'insieme di tutte le misure prese in considerazione determinerebbe nel quadriennio 2011-2014 un impatto positivo sul tasso di variazione del Pil pari in media a 0,4 punti percentuali all'anno. Inoltre, l'effetto sul tasso di variazione dei consumi, degli investimenti e dell'occupazione sarebbe pari in media a 0,3 punti percentuali l’anno. Nel triennio successivo (2015-2017) ci sarebbe un impatto medio annuo sul tasso di variazione del Pil di 0,3 punti percentuali. Nel 2018-2020 gli investimenti registrerebbero un forte incremento del loro tasso di variazione (0,7 punti percentuali in media annua), mentre l'effetto sul tasso di variazione del Pil sarebbe di 0,2 punti percentuali l'anno.
Dato che i risultati macroeconomici delle riforme e il loro grado di efficacia potrebbero risentire della tempistica con cui saranno realizzate e della congiuntura, se espansiva o recessiva, sarebbe stato elaborato anche uno scenario “prudenziale”, dove l'entità degli shock simulati attraverso i modelli è stata ridotta del 50%. Attenzione, anche nello scenario ottimista si passerebbe da un tasso di crescita dell’1% nel 2011 a uno del 2,3% nel 2014 - ben lontani del 3-4% che solo qualche settimana alcuni stimavano che sarebbe risultato dalla “frustata” che sarebbe stata data dal Governo all’economia. Nello scenario “prudenziale” si arriverebbe all’1,5% (sempre nel 2014). Ossia cambierebbe poco o nulla.
In questo contesto macro-economico, il Pnr considererebbe completata la riforma delle pensioni, punterebbe ad ampliare la contrattazione decentrata senza impatto per il bilancio dello Stato e a migliorare l'efficienza amministrativa, nonché a un “Piano nazionale per le reti di nuova generazione”, per il quale sarebbero state predisposte operazioni di partenariato pubblico-privato in cui sarebbe coinvolta la Cassa depositi e prestiti, “senza impatto per i saldi di finanza pubblica”. Attenzione: contrariamente alle anticipazioni di due-tre settimane fa, non si preconizzerebbe nulla di sostanziale in materia di privatizzazioni e liberalizzazioni. Al contrario, ci potrebbero essere interventi della mano pubblica in politica industriale.
Se tutto è pronto, perché il documento non è stato varato? Ci sono ragioni di forma e di sostanza. Le prime riguardano la normativa ancora in vigore: il Pnr dovrebbe essere vagliato dal Ciace (Comitato interministeriale per le attività della Comunità europea) presieduto da un ministro. Ma questi non c’è da quando Andrea Ronchi ha dato le dimissioni. Implicitamente, il Presidente del Consiglio ne ha l’interim. Non tutti i ministri coinvolti, però, sono convinti che il ministro dell’Economia e delle Finanze possa avere la primogenitura del Pnr sulla base di una delega che pare essere stata implicita piuttosto che esplicita (ossia tramite un Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri discusso, e approvato, dal Consiglio dei ministri).
Qui la forma e la sostanza diventano tutt’uno. Le previsioni econometriche fatte dal Mef non sono condivise dal resto della squadra, soprattutto dopo la strategia di rialzo dei tassi d’interesse iniziata il 7 aprile dalla Bce. Tale strategia solo nel 2011 comporterebbe un aumento del fabbisogno di ricorso al mercato di 20 miliardi di euro - una somma equivalente a un’intera manovra di finanza pubblica. Inoltre, non si terrebbe conto dello sforzo finanziario aggiuntivo derivante dallo tsunami migratorio. E c’è chi dubita che la contrattazione decentrata e le misure per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni siano sufficienti a far crescere il Pil più dell’1% l’anno, considerato dal servizio studi della Bce come il “saggio potenziale” di sviluppo dell’Italia. In materia di politica industriale, poi, Mef e e Mise sarebbero ai ferri corti.
Nel Palazzo si fa strada anche l’ipotesi che il Pnr venga inviato a Bruxelles a fine mese unitamente al Psf: un pacchetto in carta argentata ben infiocchettato sarebbe più bello e verremmo scusati del ritardo.

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venerdì 8 aprile 2011

Tosca snellita si adatta al Piccolo Lirico di Roma in Aprile 9 agosto

InScena
Tosca snellita si adatta al Piccolo Lirico di Roma
di Giuseppe Pennisi


L'allestimento di Tosca in scena al Piccolo Lirico di Roma fino al 12 giugno per la regia di Rossana Siclari ha superato le 550 repliche e viene aggiornato ogni anno. Ha un pubblico fidelizzato di italiani e stranieri. L'opera è in bilico fra tradizione e sperimentazione: sono state eliminate alcune scene di massa, l'orchestra (guidata da Elisabetta Del Buono) è composta da quattro tastiere elettroniche che simulano 60 strumenti, i cantanti sono giovani (hanno debuttato nello spettacolo Amarilli Nizza, nonché le sorelle Giorgia e Raffaella Milanesi).
Nelle ultime 400 repliche Cavaradossi è stato Alberto Profeta, che tra breve si esibirà al Massimo di Palermo in un ruolo importante in occasione della prima italiana di Greek Passion di Bohuslav Martinù. Lo affiancano l'americana Gwndolyn Alù (la cui dizione non è perfetta) e Francesco Marzi (uno Scarpia dal buon timbro). D'impatto le scenografie virtuali di Gianna Volpi che riproducono la Roma del primo Ottocento immortalata da Bartolomeo Pinelli, con interventi cinematografici come l'ingresso di Angelotti in Sant'Andrea della Valle, un Te Deum da colossal hollywoodiano, la corsa in carrozza di Tosca da Palazzo Farnese a Castel Sant'Angelo. In fin dei conti, non c' da stupirsi troppo, nel Seicento e nel Settecento le opere venivano riadattate a seconda delle disponibilità dei teatri, mentre nel secondo dopoguerra Benjamin Britten ridusse in due atti il suo grand-opéra Billy Budd tagliando l'orchestra da 60 elementi a due pianisti. (riproduzione riservata)


Amarilli Nizza
Alberto Profeta
Benjamin Britten
Lirico
Bartolomeo Pinelli
Tosca

DA OGGI TUTTO PIU’ CARO (E DIFFICILE) PER LA VISIONE CORTA BCE in Avvenire 8 aprila

DA OGGI TUTTO PIU’ CARO (E DIFFICILE)
PER LA VISIONE CORTA BCE

Giuseppe Pennisi
Da oggi, in Italia tutti hanno un grattacapo in più. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze deve collocare sul mercato nel corso del 2011 non 240 miliardi di euro (cifra già da far paura) ma almeno 260 miliardi; per comprare titoli, banche e risparmiatori chiederanno un prezzo più alto di quello che avrebbero chiesto questa mattina. Le imprese , che hanno crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni pari al 6% del Pil, avranno maggiori difficoltà a finanziare i loro programmi di espansione od anche solo per reggere in un mercato interno che dal 2007 ad oggi si è contratto di circa sei punti percentuali; sarà anche più arduo operare all’estero a ragione del rialzo del cambio dell’euro sul dollaro. Le famiglie il cui debito medio si aggira sui 24.000 euro, dovranno fare fronte a rate più alte (se hanno preso in prestito a tassi flessibili). Coloro che cercano di vendere casa faranno fatica a trovare acquirenti a ragione del rialzo del costo dei mutui. Il commercio in generale che, dopo saldi tiepidi, dovrà prepararsi ad un nuovo grande freddo. Tutto ciò potrebbe dire smorzare i flebili segnali di ripresa e tornare ad un andamento del Pil rasoterra ove non negativo. Con conseguenze gravi per l’occupazione.
Preparato da una strategia di comunicazione molto efficace, il Consiglio della Bce ha aumentato della 0,25 % il proprio tasso “direttore”, quello che incide su tutti gli altri tassi d’interesse sino a quelli che vanno nelle tasche di imprenditori e consumatori. E’ una mossa eloquente : il cambiamento di rotta, da una politica monetaria “accomodante” a una “restrittiva”effettuato non solo per una ragione “formale” - il tasso d’aumento dei prezzi nell’eurozona supera quel 2% l’anno definito, negli statuti dell’istituto, come il livello di soglia oltre il quale occorre intervenire- ma anche e soprattutto in quanto alcuni Stati dell’eurozona temono gli effetti inflazionistici del quadro internazionale . All’Eurotower di Francoforte si auspica che a Constitution Avenue N.W. a Washington (dove ha sede la Federal Reserve) si prenda esempio dall’Europa.Tuttavia,a differenza di quelli della Bce, gli statuti delle autorità monetarie federali Usa pongono come obiettivo della politica della moneta non solo la stabilità dei prezzi, ma anche l’occupazione dei fattori produttivi.- oggi negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione viaggia verso il 10% della forza lavoro. Inoltre, proprio dall’altra parte dell’Atlantico , si sono levate voci autorevoli contro l’aumento appena deliberato dalla Bce. Ad esempio, in un saggio della settimana scorsa, Bradford Delong, ex-Vice Segretario al Tesoro Usa e ora professore di economia all’Università della California a Berkeley, si è chiesto “perché gli europei vogliono farsi male da soli”. Il dollaro, quindi, si deprezzerà ulteriormente rispetto all’euro.
I rappresentanti dell’Italia in seno alla Bce o sono d’accordo con i loro colleghi o non hanno saputo fare udire la loro voce. Dopo un “patto per l’euro” che si presenta molto pesante per Paesi come l’Italia, e proprio mentre il Portogallo rischia di affogare, occorrerebbe preoccuparsi non di tattica su come frenare un aumento dei prezzi che di poco supera il 2% (siamo al 2,3) ma di strategia.. Occorre , chiedersi se un “tasso d’interesse di base per tutti” è sensato. Un economista tedesco, noto per il rigore, Rainer Willi Maurer ha di recente dimostrato che la crisi del debito sovrano nell’eurozona è il risultato d’ un errore di fondo nella costruzione dell’unione monetaria: le divergenze tra tassi effettivi comportano una spirale del debito sovrano nei Paesi più deboli. Ci vorrebbero “strategie monetarie specifiche” per ciascun Paese. Ma ciò vuol dire un’unione monetaria differente da quella che si è cercato di costruire a Maastricht.

giovedì 7 aprile 2011

I tassi sull'euro che scotta in Il Velino 7 aprile

ECO - I tassi sull'euro che scotta
Roma, 7 apr (Il Velino) - La Banca centrale europea (Bce) ha alzato i tassi dello 0,25%. La stretta monetaria, che porta l'asticella dei tassi dall'attuale 1% al'1,25%, è la prima dal luglio 2009 e riporta i saggi ad un valore che non vedeva da oltre 2 anni. Tornando indietro nel tempo, era infatti il 4 febbraio 2009 quando la Bce portò all'1,25% il costo del finanziamento. E’ una mossa da tempo messa in conto dai mercati, grazie all’abile ed efficace campagna di comunicazione condotta in queste ultime settimane dalla Bce. Quindi non ci si devono attendere fibrillazioni immediate sui mercati derivanti direttamente da questa decisioni; ce ne potranno essere perché giunge al momento della richiesta di aiuto del Portogallo all’Unione Europea (UE), dopo un ulteriore abbassamento del rating dei titoli di Stato lusitani sulle piazze mondiali.

Tuttavia, la decisione è di rilievo poiché indica che per il Consiglio Bce, vincolato dagli statuti che si è dato, lo stimolo all'espansione economica passa in secondo piano rispetto ai timori inflattivi. L’aumento è, poi, il segnale di una strategia a più lungo termine che postula ulteriori graduali aumenti dei tassi ove i timori ed i tremori inflazionistici della Bce non ottengano ampie assicurazioni. Ha, quindi, avuto riflessi immediati sul cambio euro-dollaro. Ne avrà di pesanti sul ricorso al mercato che l’Italia dovrà fare nell’anno in corso per fare fronte alle scadenze sul proprio debito pubblico, un ricorso stimato sino a ieri in 240 miliardi di euro e che oggi si pone oltre i 250 miliardi di euro.

Al di là del merito della decisione odierna della Bce (su cui si può o non si può essere d’accordo), occorre chiedersi – come fa in un lavoro in corso di pubblicazione Rainer Willi Maurer della Pforheim Universitat, uno dei maggiori esperti tedeschi in materia di politica monetaria internazionale - se un “tasso d’interesse per tutti” (ovviamente un tasso di base rispetto al quale si diverge o converge tramite lo “spread”) sia sensato. Il lavoro di Maurer prende l’avvio dalla crisi del debito sovrano nell’eurozona; la considera non l’esito di un’insufficiente disciplina di bilancio ma di un errore di fondo nella costruzione dell’unione monetaria: dato che l’area monetaria europea non è “ottimale” (in termini di struttura di produzione e mobilità effettiva, non solo legale, dei fattori di produzione e dei prodotti e servizi), le divergenze tra tassi effettivi comportano una spirale del debito sovrano in alcuni Stati a ragione dell’ampio comparto di beni e servizi non commerciali a livello internazionale e di fattori di produzione che restano sostanzialmente poco mobili. Maurer presenta un’interessante analisi quantitativa a supporto della sua ipotesi e suggerisce che la Bce metta in atto “strategie monetarie specifiche” per ciascun Paese. Ciò, però, vorrebbe dire un’unione monetaria molto differente da quella che si è cercato di costruire a Maastricht e con analogie a quelle del regime di Bretton Woods.
(Giuseppe Pennisi) 7 apr 2011 15:05

martedì 5 aprile 2011

Lirica, come ascoltare la doppia maratona di Mahler in corso a Roma Il Velino 5 aprile

CLT - Lirica, come ascoltare la doppia maratona di Mahler in corso a Roma
Un libro di Gastón Fournier-Facio per apprezzare meglio il ciclo di sinfonie all’Auditorium di via della Conciliazione e al Parco della musica


Roma, 5 apr (Il Velino) - In occasione della doppia ricorrenza che riguarda Gustav Mahler (150 anni dalla nascita, nel 1860, e 100 dalla morte, nel 1911), due grandi orchestre sinfoniche si confrontano a Roma eseguendo l’integrale delle sinfonie del compositore nell’arco di poco più di un anno: una antica e celeberrima, l’Orchestra sinfonica dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, e una nata una decina di anni fa, l’Orchestra Sinfonica di Roma (Osr) della Fondazione Roma. Una doppia maratona unica in Italia e una delle rare in Europa, un evento davvero eccezionale che sta interessando la stampa musicale di tutto il mondo. A "scontrarsi" sono due complessi differenti non solo per anzianità anagrafica (oltre tutto l’Orchestra Sinfonica di Roma ha musicisti mediamente sui 33 anni), ma anche per dotazione finanziaria: il budget di Santa Cecilia (che accanto alla sinfonica ha una programma di cameristica, una scuola d’opera, una videoteca e un museo di strumenti musicali) è circa dieci volte quello dell’Osr, uno dei rarissimi complessi musicali che non riceve alcun sussidio pubblico ed è finanziato unicamente da una fondazione culturale-sociale e da un’associazione di abbonati.

Anche i prezzi sono differenti: quelli per i concerti della Sinfonica romana sono meno della metà di quelli di Santa Cecilia. Quindi, il pubblico dell’Osr è spesso composto di giovani e pensionati. Una curiosità: la Sinfonica romana suona nell’Auditorium di via della Conciliazione, dove sino a un paio di lustri fa (ossia prima della creazione del Parco della Musica) suonava la Sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. A differenza dell’integrale Mahler offerta (nell’arco di otto anni) da Santa Cecilia a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo (quando si avvicendarono numerosi direttori d’orchestra, spesso replicando le stesse sinfonie), si tratta di due maratone compatte: nella Sala Santa Cecilia, cinque sinfonie sono affidate a Antonio Pappano, due a Valery Gergiev e la altre a Mikko Franck e Andris Nelsons, tutti direttori di grande fama internazionale; all’auditorium di via della Conciliazione, Francesco La Vecchia si prenderà carico invece dell’intero ciclo. Nel corso dell’anno, La Vecchia offrirà l’integrale di Mahler anche a Budapest e a Seul.

La doppia maratona è giunta a metà percorso . Più che un primo bilancio (filologico lo stile di La Vecchia, drammatico quello di Pappano, a forti tinte Gergiev, dolce Franck, aristocratico Nelsons) sembra utile offrire una guida per seguire il resto dei concerti. Mahler, che all’inizio del secolo scorso diresse anche alcuni concerti in quello che era allora l’auditorium dell’Augusteo, fu molto apprezzato come direttore d’orchestra e (dagli innovatori) come modernizzatori dell’allora polverosa e stantia Opera di Vienna, ma venne considerato un compositore di livello principalmente in Olanda, non in Austria né in Germania. Mahler disse: “Il mio tempo verrà”. Una frase ripresa nel titolo da un libro indispensabile di Gastón Fournier-Facio, ora coordinatore artistico della Scala ma a lungo coordinatore dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Il volume (edito da Il Saggiatore) è sottotitolato: “La sua musica raccontata da critici, scrittori e interpreti 1901-2010). È un’antologia di oltre 800 pagine (in appendice, per la prima volta in Italia, viene pubblicato l’album fotografico delle famiglia Mahler, curato dalla moglie), di testi di personalità di rilievo che frequentarono il compositore (spesso per la prima volta in traduzione italiana), grandi protagonisti dell’epoca che con lui ebbero stretti rapporti personali, interpreti che hanno conquistato una profonda conoscenza del compositore, musicologici dei cinque contenti che hanno studiato il “fenomeno Mahler”. Non è un volume da leggersi tutto d’un fiato ma da centellinarsi poco a poco, per meglio apprezzare la doppia maratona in corso a Roma.

(Hans Sachs) 5 apr 2011 15:06