MEDIA NON PROFIT :UN’IDEA DAGLI USA : CRIS? LA STAMPA CAMBI COSI’!
Giuseppe Pennisi
Il Premio Pulitzer per il giornalismo è stato vinto di un quotidiano fruibile unicamente sul web (www.propubblica.org) per l’inchiesta su fatti e misfatti connessi all’uragano Katrina , in particolare su come il sistema ospedaliero ha risposto alla catastrofe naturale.
Il tempo - vale la pena dirlo- non è sempre galantuomo. Soprattutto non lo è per chi soffre di miopia e non sa guardare al di là delle stanghette dei propri occhiali . Quasi dieci anni fa , in un’isoletta non lontana da Manhattan, veniva celebrata, con una festa super-esclusiva (solo 1000 invitati- molti direttori di quotidiani e di periodici italiani fecero carte false per ottenere un biglietto d’invito) la nascita di quello che sarebbe dovuto essere il periodico del secolo, “The Talk”, frutto dell’iniziativa congiunta di due giganti dei media , la Hearst Corp. e Miramax. Lo avrebbe diretto Tina Brown , reduce di veri e propri trionfi di tiratura e di pubblicità con “The New Yorker” e “Vanity Fair”. Fu un “party” memorabile – affermano coloro che vi sono stati presente. Madison Avenue esultava. Un po’ come le ultime feste a Versailles, che tanto più erano lussuose quanto più nelle strade di Parigi erano già in corso i moti rivoluzionari.
Allora- nell’estate del 1999- sembrava che la carta stampata fosse il motore della pubblicità ed una macchina per macinare utili. Oggi numerosi quotidiani e periodici americani hanno ammainato bandiera bianca e chiuso i battenti: nel corso degli ultimi dieci anni, negli Stati Uniti, l’occupazione nella stampa su carta è passata da 415.000 a 300.000; sempre negli USA, i proventi pubblicitari hanno subito una contrazione del 16% tra il 2008 ed il 2009 (quando hanno toccato 38 miliardi di dollari) e , secondo le stime più recenti, scenderanno a 28 miliardi di dollari entro il 2013. Nel contempo, tra il 1999 ed il 2009 gli utili dell’informazione via Internet sono passati dal 4% al 22% del totale dei ricavi delle industrie “creative” americane (quelli dei giornali sono scesi dal 40% al 14% del totale del settore). In molti Paesi europei (unica eccezione la Germania), la situazione non è migliore di quella italiana; in Francia, ad esempio, nel 2009 , 2.900 giornalisti hanno perso il posto, lo stesso un tempo inossidabile quotidiano sportivo L’Ėquipe ha chiuso in passivo, la stampa “nazionale” con base a Parigi fa acqua (nonostante i considerevoli aiuti pubblici), mentre regge abbastanza bene quella locale fortemente radicata sul territorio e con molte pagine di pubblicità (in gran misura locale).
Non solamente un problema settoriale oppure, come scrivono molti commentatori in questi giorni, principalmente di media mix , ossia di trovare l’equilibrio appropriato tra informazione (ed analisi) su carta stampata, su televisione e su web – e della regolamentazione pubblica (specialmente della pubblicità) per meglio giungere a tale equilibrio. La chiusura di giornali, anche piccoli o “di tendenza” scalfisce ed incrina uno dei beni pubblici per eccellenza: la democrazia. Lo diceva Thomas Jefferson oltre 200 anni fa e lo dimostra oggi un’analisi empirica recente della Università di Princeton : la morte per inedia, a fine 2007, del piccolo Cincinnati Post (una circolazione di appena 27.000 copie) ha comportato una riduzione della partecipazione alle elezioni nei quartieri dove il quotidiano era più letto, nonché la sconfitta sistematica dei canditati a incarichi municipali residenti nei quartieri medesimi. Quasi in parallelo, uno studio comparato della University of Virginia, mostra che, in 115 Paesi (sull’arco di venti anni), c’è un forte nesso tra investimenti diretti dall’estero, progresso tecnologico e libertà di stampa.
Circa due anni fa, negli USA è stata lanciata un’idea interessante. La hanno formulata David Swensen, direttore della finanza alla Università di Yale, e Michael Schmidt, docente di finanza aziendale presso lo stesso ateneo. Dato che la carta stampata è essenziale alla democrazia , trasformiamo – hanno proposto - la natura economica dell’editoria in un comparto come le fondazioni non-profit (analogo alle università private) il cui stock di capitale sia una dotazione, fornita da filantropi (agevolati da esenzioni tributarie) e le cui finalità siano quelle di fornire informazioni ed analisi (se si vuole pure di tendenza) ma svincolate dalle esigenze di breve periodo di rispondere a questa od a quella lobby, od a questo o a quel partito politico, per pubblicità, per acquisti d’abbonamenti all’ingrosso e per altre facilitazioni. Si tratterebbe di fondazioni svincolate solo in parte dal mercato: così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per il mercato pubblicitario. Potrebbero avere sovvenzioni pubbliche dirette a combattere “il morbo di Baumol” . In giornali di proprietà di fondazioni non profit , i giornalisti guadagnerebbero in autonomia ed autorevolezza; come per le università, la pubblicità, i lettori e le sovvenzioni correrebbero verso chi è più autorevole
Ci sono numerose proposte di legge d’iniziativa parlamentare all’esame del Congresso Usa (dove per la prima volta si pensa un intervento pubblico nel settore, concetto che solo qualche anno fa avrebbe fatto gridare allo scandalo) mirate a rispondere alla crisi della stampa. Alcune prevedono imposte di scopo (ad esempio, sui bingo) per finanziare i giornali (in una variante, ciascun editore dovrebbe gestire sale bingo con i cui utili tamponare le perdite dei giornali – sic!). Sono state accantonate , ossia archiviate. Sta invece facendo strada il “Newspapers Revitalization Act” proposto dal Sen. Benjamin Cardin ma adesso sottoscritto da molti altri parlamentari in chiave “bipartisan”. Dà corpo all’idea di Swensen e Schmidt e riguarda, quindi, l’assetto aziendale: trasformare i giornali in fondazioni-onlus . In Italia, esistono già testate controllate da fondazioni onlus- c’è, quindi, un terreno da cui partire. Una strada che sembra aperta, ma non necessariamente sarà l’unica percorribile per fermare la crisi che sta stringendo, strangolando l’informazione di qualità in tutti i Paesi occidentali.
L’ECONOMIA CONDANNA IL SETTORE
Alla base della crisi c’è quello che viene chiamato “il morbo di Baumol” dal nome dell’economista americano che nel lontano 1962 lo ha teorizzato: settori a tecnologia fissa perdono inevitabilmente competitività in un mondo in cui il progresso tecnologico è la molla dello sviluppo. L’industria giornalistica è alle prese con due voci di costo a tecnologia fissa e difficilmente comprimibili - la carta e la distribuzione- che le fanno perdere terreno rispetto ad altri media. Lo stesso William Baumol scrisse che per curare il morbo è necessario l’intervento pubblico o con la sovvenzione o con la regolamentazione oppure con un abile mix di ambedue.
Purtroppo , molte proposte formulate in questi mesi ( sostanzialmente mirate ad aumenti dei contributi pubblici per la carta e per la distribuzione) non si fondano su una teoria economica solida del giornalismo. In politica economica, e nelle politiche pubbliche settoriali, le carte vincenti sono sempre basate su una teoria rigorosa. Un appello in tal senso viene dalla Vecchia Europa e dal Paese (la Repubblica Federale Tedesca), il cui maggiore editore di stampa scritta (Axel Springer) ha appena chiuso il consuntivo 2009 con il più utile netto segnato nei 62 anni in cui è in operatività . La lanciano, in uno degli ultimi numeri della rivista scientifica tedesca “Kyklos”, Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl . L’idea è di costruire una teoria economia del giornalismo, analoga alla teoria economica della democrazia, della politica, delle religioni, dell’arte e via discorrendo: mettendo gli strumenti più recenti della disciplina economica a servizio della professione, si possono curare una serie di malanni (quali l’influenza delle relazioni pubbliche sui media, la vera o presunta leggerezza- oppure l’eccesso- nel trattamento delle informazioni, il giornalismo “da rincorsa”, il giornalismo da “consigliere del principe”) che non hanno giovato al settore e sono causa di perdita di lettori e di pubblicità. Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl tratteggiano le basi di una teoria economica del giornalismo da cui scaturirebbero quelle prassi d’effettiva indipendenza, ed autorevolezza che , da un lato, farebbero riacquistare prestigio alla professione e, dall’altro, renderebbero finanziariamente, politicamente e socialmente fattibili soluzioni innovative.
LA RIVISTA MUSICALE DIVENTA “CHARITY”. ESPERIMENTO RIUSCIDO IN CANDA E NEL MONDO
Da alcuni mesi collaboro ad un mensile dalla testata in italiano (“La Voce Musicale”) ma pubblicato a Monréal in francese ed in inglese. L’editore è una “Charity”, ossia una Onlus a fini benefico-culturale. Non è distribuito in edicola (ciò riduce drasticamente i costi) ma ha 90.000 abbonati, oltre un’edizione web di aggiornamento quotidiano. Per $ 43 canadesi se in Canada, $ 73 se negli Usa, & 99 se nel resto del mondo, l’abbondato riceve 11 numeri l’anno su carta; per $ 25 si ha diritto alla rivista in pdf nonché a scaricare musica classica in mp3 da alcune case discografiche. Gli abbonamenti sono trattati, sotto il profilo tributario, come elargizioni ad un’attività culturale; un trattamento analogo ha la pubblicità. La “Charity” di cultura musicale riceve anche contributi dall’equivalente canadese del Fus. L’accesso all’edizione web è gratuito e si è rivelato una forte leva per ampliare la platea degli abbonati.
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