mercoledì 7 aprile 2010

Bassa crescita e bassi salari: Ffwbmagazine 7 aprile

FOCUS


Luci e ombre di un'analisi sulla ripresa a cura di Barba Navaretti e Tabellini

di Giuseppe Pennisi Giorgio Barba Navaretti dell’Università Statale di Milano e Guido Tabellini dell’Universtà Bocconi hanno pubblicato un’analisi delle «cure urgenti dell’Italia che non sa crescere». La diagnosi è ineccepibile: tra il 2005 ed il 2008 il Pil italiano è cresciuto di otto punti meno della media dell’area dell’euro; nel 2009 è calato (-5% contro - 4,1%) più della media di Eurolandia; le previsioni per il 2010-2011 indicano «che la ripresa italiana non sarà più rapida» della media di quella dei paesi a moneta unica. A queste stime, è utile aggiungere (anche se Barba Navaretti e Tabellini non lo fanno) che nel 2006, alla vigilia della crisi economica internazionale, la Banca centrale europea (BCE) indicava nell’1,3% l’anno il potenziale massimo di crescita dell’economia italiana di lungo periodo - il più basso tra quelli quantizzati per l’area dell’euro. Per i prossimi due anni le previsioni dei 20 istituti econometrici del “consensus” diramate il 3 aprile pongono il tasso di aumento del Pil italiano allo 0,9% nel 2010 e all’1,2% nel 2011, rispetto allo 1,2% e 1,4% per la media dell’area della moneta unica.

La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini identifica la principale determinante della bassa crescita nell’ormai ventennale rallentamento del tasso di produttività dei fattori (non solo lavoro ma anche capitale). Lo studio Bce va più a fondo: nel senso che identifica nell’andamento demografico (denatalità, invecchiamento della popolazione) una delle cause del deceleramento della produttività. La diagnosi di Barba Navaretti e di Tabellini, tuttavia, è corretta nel puntare a una delle conseguenze: il rallentamento della produttività vuole dire in Italia salari più bassi che nel resto d’Europa (il divario con la Francia è il 15%, con la Germania il 30%, a parità di qualifica) e, quindi, bassi consumi e bassi investimenti, nonché bassa crescita, mentre solo con un aumento sostenuto del reddito nazionale possiamo smaltire, in un arco di lustri, l’Himalaya del debito pubblico.
Da questa analisi emergono i lineamenti per una terapia: in sostanza, porre la parola fine agli interventi a pioggia e allocare le risorse disponibili su attività altamente produttive. Indicazione ancora volta ineccepibile, ma incompleta.

Gli interventi a pioggia – occorre ricordarlo – non sono unicamente frutto di clientelismo e di incompetenza politica e amministrativa. Negli ultimi dieci anni, una delle determinanti è stata la normativa D’Alema-Amato (dai Governi che la hanno proposta) varata frettolosamente prima delle elezioni politiche del 2001 nella speranza di catturare elettori favorevoli al federalismo. L’esito non è stato il federalismo ma lo spolpamento di competenze tra amministrazioni centrali e Regioni (ho avuto modo di studiare in particolare quello del Ministero delle Attività produttive). Specialmente, in seguito alle elezioni regionali del 2005, ciò ha portato a una discrasia tra attività dello Stato e quelle delle Regioni in campi “concorrenti” come quelli delle politiche per l’industria, l’agricoltura, l’ambiente e il territorio , rendendole sempre meno coerenti e aggravando le altre determinanti che portavano comunque ad interventi a pioggia.

L’omogeneità di visione politica tra Stato e Regioni (che caratterizza gran parte dell’Italia e della sua popolazione) dovrebbe essere un antidoto a questa situazione. Deve essere, però, integrato da uniformità di parametri di valutazione e di criteri di selezione degli inventi – da definirsi nell’ambito della Conferenza Stato-Regione. Nel lungo termine, la cura non sarebbe adeguata se non sostenuta da interventi per la famiglia tali da alterare gli andamenti demografici – un obiettivo che può essere raggiunto solo gradualmente e con provvedimenti incrementali.

7 aprile 2010

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