venerdì 30 aprile 2010

La donna senz’ombra”, monito a un’Europa che invecchia Il Velino 30 aprile

CLT - Lirica/ “La donna senz’ombra”, monito a un’Europa che invecchia

Lirica/ “La donna senz’ombra”, monito a un’Europa che invecchia
Roma, 30 apr (Il Velino) - Cosa voleva significare negli anni della prima guerra mondiale “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hafmannsthal e Richard Strauss, con cui ieri sera è stato inaugurato il 73simo Maggio Musicale Fiorentino? E cosa vuole dire oggi, circa un secolo dopo la sua prima messa in scena a Vienna nel 1919? Strauss considerava quest’opera il suo capolavoro assoluto. Quando, durante la seconda guerra mondiale, veniva invitato a dirigere “Der Rosenkvalier” (“Il Cavaliere della Rosa”) si scherniva dicendo che era un lavoro troppo lungo e quindi troppo faticoso per un uomo che viaggiava verso gli 80 anni. Diceva agli amici: “Però, se mi chiedessero dirigere ‘Die Frau ohne Schatten’, forse risponderei di sì”. Eppure sotto il profilo orchestrale e vocale quest’ultima è più lunga e molto più complessa di “Der Rosenkvalier”. “La Donna Senz’Ombra” viene rappresentata molto raramente in Italia. Negli ultimi 30 anni c’è solo un’edizione alla Scala e una a Firenze (entrambe con una regia minimalista di Jean Pierre Ponnelle commissionata del Teatro dell’Opera di Colonia, da dove i due teatri italiani hanno noleggiato l’allestimento) e una alla Fenice di Venezia. Viene spesso detto che una delle ragioni per la scarsa presenza di quest’opera nel nostro Paese è da imputarsi al costo dell’operazione: cinque grandi protagonisti, una schiera di comprimari (un totale di circa 25 solisti), un doppio coro, un organico orchestrale smisurato, un allestimento scenico che prevede un impianto a due livelli, trasformazioni a scena aperta, una cascata e via discorrendo. Ma osservazioni analoghe si possono fare anche per la pucciniana “Turandot”. Viene anche detto che il libretto è troppo macchinoso e troppo denso di simboli per essere compreso.

In effetti, il nodo di fondo è che agli italiani non piacciono le favole. E “Die Frau ohne Schatten” è in primo luogo una favola, solo apparentemente complicata. Per comprenderla non è necessario leggere il denso epistolario tra Hofmannsthal e Strauss pubblicato in italiano dall’editore Adelphi circa 20 anni fa e forse neanche il recente mirabile saggio di Mario Bortolotto “La Serpe in Seno”. Non occorre addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). Il filo dell’apologo è lineare e ci conduce facilmente attraverso uno spettacolo che, intervalli compresi, dura oltre quattro ore: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli, i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro: restano un eterno presente senza significato (e senza storia) e in una nube di noia. La gioia si ha però unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di sofferenze. Le due coppie al centro della vicenda sono il giovane e bell’Imperatore con l’Imperatrice e un povero tintore con tre fratelli disabili con la sua donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra e quindi non è una donna completa. L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane per fare l’amore. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggerito dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, causando però a quest’ultima e al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente.

Ma il “furto” non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna e dal tentativo di aiutarla assieme a suo marito. È così La compassione dei Cieli trasforma il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale. Nel loro lavoro, Hofmannsthall e Strauss pensavano senza dubbio alle esigenze di rinascita nell’Europa distrutta dalla Grande guerra: non per nulla nella loro opera precedente, “Ariadne auf Naxos”, avevano cantato in pieno primo conflitto mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos. Un messaggio più che mai attuale oggi, in un Continente vecchio e che sta invecchiando sempre di più e in cui l’edonismo vacuo sembra avere la prevalenza su quella vera gioia per giungere alla quale occorre soffrire. Per dare questo messaggio, Strauss avvolge il bel testo di Hofmannsthal di una partitura sontuosa: un sinfonismo continuo in buca di impronta wagneriana corredato da sette intermezzi, tutti su variazioni dello stesso tema, un espressionismo vocale che arriva a scelte stilistiche difficilissime (e che pochi interpreti osano affrontare), l’impiego di scale cromatiche complesse (anche mascherate) per dare, unitamente a contrappunti timbrici, una tavolozza di tinte sgargianti ai vari momenti della favola-apologo.

Per il direttore d’orchestra le difficoltà sono enormi: l’orchestrazione è molto fitta ed è spesso difficile tenere un equilibrio con le voci (essenziale non solo sotto il profilo tecnico-musicale ma anche per fare comprendere il testo, peraltro di grande bellezza). Lo stesso Strauss ne era consapevole, tanto che negli ultimi della sua vita stava lavorando a un’orchestrazione semplificata. Inoltre la partitura ha una combinazione contrastante di cameristico e di sinfonico; a momenti di musica molto leggera (per pochissimi strumenti) fanno riscontro passaggi, come la conclusione del secondo atto, in cui è essenziale ridurre il volume del suono in buca. Non solo alcune parti vocali sono davvero impervie, ma ci sono momenti di estrema difficoltà: nel quartetto tra il messaggero, la nutrice, Barak e la donna, due personaggi cantano simultaneamente in scena e due sono fuori scena, con grande difficoltà per mantenere l’equilibrio tra le voci e tra esse e l’orchestra. Zubin Mehta e l’orchestra del Maggio sono abilissimi nel trovare i giusti equilibri e gli impasti appropriati. La regia di Yannis Kokkos, autore anche delle scene e dei costumi, è una lettura elegante ma tradizionale del testo. Siamo in un mondo fiabesco, vagamente persiano, grazie a pochi elementi costruiti, siparietti in tulle e proiezioni, specialmente per i cambiamenti di ambiente e le “trasformazioni” a scena aperta. La recitazione è perfetta, come per un dramma in prosa di qualità. L’opera è rappresenta senza alcun taglio, ma lo spettacolo scorre per circa quattro ore mezzo rapidamente.

Tra le cinque voci dei protagonisti, spicca Elena Pantrakova (“La donna”). Ignota al grande pubblico, era stata chiamata in un ruolo da comprimario ma ha sostituito il soprano wagneriano-straussiano Jeanne-Michelle Charbonnet (che aveva dato forfait) e affronta stupendamente l’impervio ruolo, con sontuosi acuti da soprano drammatico e un volume che riempie il grande teatro. Ottima anche la giovane e bella Adrianne Pieczonka (“L’impetratice”) , sublime nel fraseggio e nei “legato”. Lioba Braun (“La nutrice”) canta spesso in Italia e dà un’interpretazione di livello, anche se con qualche difficoltà nello scendere a tonalità gravi. Albert Dohnen (“Barak”) ha confermato di essere uno dei più duttili tenori wagneriani-straussiani su piazza, mentre Torsten Kerl è un tenore eroico di livello, ma il suo timbro non ha più la chiarezza di un tempo.

(Hans Sachs) 30 apr 2010 11:10

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