martedì 27 aprile 2010

LE PRIVATIZZAZIONI NEL 2009: OPPORTUNITA’ NELLE STRATEGIE DI USCITA DALLA CRISI ECONOMICA, In PROCESSI DI LIBERALIZAZIONE IN ITALIA

27/04/2010

LE PRIVATIZZAZIONI NEL 2009: OPPORTUNITA’ NELLE STRATEGIE DI USCITA DALLA CRISI ECONOMICA
Giuseppe Pennisi
Premessa

Nei Paesi Ocse, il 2009 è stato caratterizzato non solamente da un freno alle privatizzazioni (a ragione della crisi economica internazionale) ma anche da una forte ascesa dell’intervento pubblico, mentre, nei Paesi in transizione dall’economia pianificata al mercato e nell’economie emergenti, il processo di denazionalizzazione è proseguito secondo il ritmo degli anni precedenti la crisi, ove non più rapido. In breve, il 2009 è stato l’anno delle privatizzazioni asimmetriche.
Il tradizionale rapporto annuale della Reason Foundation, uno dei principali osservatori internazionali sulle privatizzazioni nei Paesi Ocse, afferma che “l’interesse nelle privatizzazioni rimane altissimo” (nonostante la crisi finanziaria ed economica) e che “oggi come non mai i Governi devono riesaminare con attenzione le loro priorità e concentrarsi sulle loro funzioni a loro essenziali utilizzando al meglio le capacità del settore privato in materia di gestione “. Il rapporto, però, pone l’accento non tanto sul processo di privatizzazioni quanto sui progressi in materia di partnership tra il settore pubblico e quello privato e di gestione privata in settori come gli istituti di prevenzione e pena e l’istruzione , specialmente negli Usa, anche se tratta pure di privatizzazioni in servizi pubblici quali i trasporti, l’acqua e lo smaltimento dei rifiuti (Reason Foundation, 2009). Non mancano certo episodi significativi di politiche di privatizzazione messe in risalto dalla Reason Foundation; il documento cita, in particolare, l’esempio della città di Chicago.
In generale, però, è l’aumento dell’intervento pubblico a dominare la scena nei Paesi Ocse.Negli Usa , l’indebitamento della pubblica amministrazione federale è giunto, nel 2009, al 12% del Pil principalmente a ragione dei salvataggio bancari ed industriali; lo stock complessivo di debito (pubblico e privato) supera il 300% del Pil,. Mentre , all’epoca della Grande Depressione degli Anni ’30, era giunto al 150% del Pil. Nell’Unione Europa (UE) e nell’unione monetaria in generale, l’espansione del debito, dell’indebitamento e dell’intervento pubblico causa rischi alla tenuta stessa della moneta unica. I consuntivi 2009 indicano che lo stock di debito e l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, giunti al 135% ed al 13% del Pil per la Repubblica Ellenica, toccano il 96% ed il 14% per l’Irlanda, il 75% e l’11% per la Spagna e il 91% l’8% per il Portogallo. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro sfiora il 90%, principalmente, però, a ragione non delle intemperanze del “club Med” (Grecia, Portogallo, Spagna) e dell’Irlanda, ma della forte espansione dei disavanzi di bilancio di Germania e Francia sia per salvataggi bancari (ed industriali) sia per sostenere la domanda. Pure interpretando generosamente il “Protocollo” del marzo 2005 con il quale sono stati ammorbiditi i vincoli del “patto di crescita di stabilità” in caso di recessione prolungata, queste cifre sono molto lontane dei parametri definiti nei trattati (un tetto del 3% del Pil all’indebitamento netto ed un andamento tendenziale verso uno stock del debito pubblico non superiore al 60% del Pil). In questo quadro, l’Italia appare con la Germania e la Repubblica Ceca uno dei tre Paesi con il più basso “indice di malessere” nella nuova versione elaborata da Pierre Cailleteau – l’indice è, in questa versione, la sommatoria di tasso di disoccupazione e di indebitamento netto della pubblica amministrazione in percentuale del Pil (Riley, 2009). Un’indicazione che le politiche di freno alla spesa condotte dal Governo in carica stanno avendo risultati positivi. Ed anche una traccia della rotta da seguire per utilizzare al meglio gli “spiragli” delineati nel Rapporto di Società Libera dell’anno scorso.
Rispetto a questo quadro per i Paesi Ocse , il processo di privatizzazione continua con relativo successo nei Paesi in transizione. Nell’autunno 2009, il Journal of Economic Literature ha pubblicato una rassegna analitica di circa 300 studi (Estrin, Hanousel, Kočenda , Svejnar, 2009). Le privatizzazioni, adesso giunte alla “seconda generazione”, vengono esaminate in termini di efficienza, rendimenti and altri indicatori finanziari; i vari studi vengono anche distinti in base a specifiche metodologie econometriche al fine di valutarne la relativa affidabilità e focalizzare l’attenzione sui risultati più credibili. Viene anche tracciata una tassonomia tra effetti di breve e di medio – lungo periodo e sulla base delle pertinenti aree geografiche (Europa Centrale, Commonwealth degli Stati Indipendenti – ossia ex Unione Sovietica- e Cina). In generale , gli esiti finanziari ed economici sono positivi, specialmente se visti nel medio periodo e se la cessione avviene dallo Stato ad azionisti interni (spesso dubbi se avviene a stranieri). L’eccezione è la Cina dove i risultati sono molto diversificati; in generale positivi ma spesso insignificanti ed a volte negativi. Numerosi studi specifici possono essere consultati sulla biblioteca telematica Social Science Research Network.
E’ in questo contesto più generale che si devono soppesare i rischi e le opportunità di privatizzazioni in Italia come parte della exist strategy dalla recessione che ha colpito durante il Paese nel 2008-2009. Anche quest’anno il Rapporto si concentrerà su alcuni aspetti specifici, poiché solo entrando nello specifico tali rischi ed opportunità, possono essere colti e valutati: a) il sofferto avvio della privatizzazione di Alitalia; b) la denazionalizzazione del trasporto marittimo b) l’avvio della privatizzazione dei servizi pubblici locali. Nelle conclusioni, dato che questa serie ha ormai dieci anni, pare utile tracciare alcuni elementi di una teoria delle privatizzazioni elaborata anche sulla base del “caso Italia”.

Il Sofferto Avvio dell’Alitalia Privatizzata

Gli ultimi tre “Rapporti” di Società Libera hanno dedicato molto attenzione alla lenta, confusa e tardiva privatizzazione di Alitalia, una “delayed privatization” secondo la brillante definizione di un documento della Banca d’Italia (Bortolotti, Pinotti, 2008). Nei dieci anni precedenti la denazionalizzazione, tenere in vita il vettore “di bandiera” con alchimie finanziarie e sostegni pubblici è costato ai contribuenti 4 miliardi di euro; a questa cifra occorre aggiungere i 2,3 miliardi di euro per lo scorporo delle attività poste in liquidazione dal Commissario Straordinario da quelle cedute ai nuovi azionisti. Le analisi di Società Lbera terminavano con numerosi interrogativi sull’effettiva capacità della “nuova” azienda di essere in grado di reggersi sul mercato, in una fase, per di più, di recessione internazionale e di forte contrazione del traffico aereo. Venivano anche sollevati dubbi sulla compattezza dell’azionariato, pur vincolato a restare nella compagine per un cinque anni, e sul ruolo di AirFrance-Kml divenuto in effetti l’azionista più importante della nuova azienda. Veniva, poi, messo in rilievo come la parallela fusione tra la nuova Alitalia e AirOne riducesse drasticamente la concorrenza nel trasporto aereo, specialmente nelle tratte a maggiore redditività (come la Roma-Milano) e come , nonostante il forte intervento dei contribuenti, la nuova SpA tentasse di spiccare il volo con il peso di un forte indebitamento, e con il pericolo, quindi, di un volo da calabrone.
Pochi mesi dopo, l’avvio della nuova azienda, un economista particolarmente attento al settore (Giuricin, 2009a) preconizzava che prima o poi la “privatizzazione infinita” di Alitalia si sarebbe conclusa con una nuova nazionalizzazione, nel senso la compagnia sarebbe diventata una filiale di AirFrance-Klm, che è, di fatto, controllata dall’azionista pubblico. E’, comunque, indifferente se l’azionista di riferimento sia italiano o straniero – quel che conta è l’efficienza, l’efficacia, la competitività e la qualità del servizio. Non è, però, indifferente se esso sia emanazione di uno Stato (italiano o straniero) e considerazioni non economiche (e non inerenti a efficienza, efficacia, competitività e qualità del servizio) incidano nelle strategie aziendali e nella gestione dell’intrapresa.
La prima “relazione semestrale” del management al Consiglio d’Amministrazione della nuova Alitalia ha fatto pensare che i pronostici di Giuricin fossero corretti ed ha lasciato tutti insoddisfatti. Per l’analisi finanziaria, si rimanda a quella puntuale e dettagliata pubblicata su www.chicago-blog.it ; nessuna voce si è levata a mettere in discussione le cifre ed i calcoli ivi presentati (Giuricin, 2009 b). Occorre, sottolineare che la prima “semestrale” riguardava la fase di avvio: non si può chiedere ad un giovane che comincia a solcare un palcoscenico di essere ingaggiato dall’Old Vic per essere il protagonista dello shakespeariano “Amleto”. Inoltre , la “semestrale” si riferiva al periodo sino al 30 giugno non includeva i mesi tradizionalmente “pingui” : quelli estivi. L’aspetto più preoccupante risultante dal documento è che gli obiettivi posti dallo stesso management per la fase d’avvio non sono stati neanche sfiorati: rispetto agli obiettivi, i ricavi sono stati pari a poco più di un terzo, il prezzo medio effettivo del biglietto a meno del 15%, il “load factor” a meno del 20%. Differenze tra obiettivi e risultati di queste dimensioni e la probabilità di un peggioramento dell’Ebit (margine al lordo di tasse ed interessi) di 240 milioni di euro entro fine 2009 non possono non innervosire alcuni soci dell’impresa e suscitare perplessità sulla capacità del management di portarla all’approdo auspicato.
La svolta si sarebbe dovuta verificare in estate (con l’aumento stagionale del traffico passeggeri). E’ stata un’estate dura per tutte le compagnie aeree, tranne alcune low cost: lo documentano le analisi dell’Aita (Aita, 2009): a titolo indicativo nel 2009, negli aeroporti italiani il traffico passeggeri è diminuito del 3% ed il numero dei voli del 6%. Per Alitalia, però, l’estate è stata più dura che per altre aziende di trasporto aereo a ragione dei ritardi dei voli e del pasticciaccio brutto dei bagagli smarriti od inviati verso destinazioni differenti da quelle dei passeggeri; in luglio e soprattutto agosto, questi disservizi hanno riempito le pagine di giornali italiani e stranieri, dando l’impressione che tutte le responsabilità fossero di Alitalia (e non anche delle strutture aeroportuali). Come se ciò non bastasse, ci sono state nuove ondate di scioperi, proprio nei mesi estivi in cui il servizio sarebbe dovuto essere di più alta qualità. In autunno, sondaggi d’opinione stimavano un aumento della disaffezione della clientela (sia passeggeri sia cargo) nei confronti della compagnia.
Sempre in autunno , la stampa riportava il rischio di tensioni, anche gravi, tra i soci. Uno dei quali (AirFrance-Klm) avrebbe fatto sapere “off-the-record” essere in attesa di un miglioramento della congiuntura internazionale (e quindi dei propri conti) per acquistare l’intera azienda e di farla diventare una sua sussidiaria. Dal punto di vista del processo di liberalizzazione della società italiana, tale prospettiva è preoccupante unicamente perché equivarrebbe ad una nuova, almeno parziale, statalizzazione d’Alitalia. Potrebbe, però, portare ad una razionalizzazione del sistema aereo europeo (riducendo e rafforzando i gruppi in grado di affrontare le rotte intercontinentali), accentuando la concorrenza (se le regole del gioco sono stabilite, e monitorate, da un ‘autorità indipendente europea) e rendendo, di fatto, Alitalia il partner per le rotte mediterranee ed orientali di una grande multinazionale dell’aviazione civile.
Come avrebbe dovuto rispondere il management della compagnia alle cifre della prima “relazione semestrale” ed alle voci su tensioni all’interno della compagine azionarie (Pennisi, 2009)? Con un nuovo programma che avesse obiettivi tecnici e finanziari realistici e che fosse rivolto ai nodi strutturali: a) l’eterogeneità degli aerei (una delle cause primarie dei ritardi), b) l’integrazione con AirOne (e la situazione effettiva ereditata da AirOne); c) i tempi ed i modi per affermarsi come efficiente ed efficace compagnia nell’aerea europea e mediterranea, prima, ed avviare una rete intercontinentale, poi).
A fine 2009, risposte esaurienti a questi interrogativi non erano ancora giunte. Una serie di barlumi positivi, tuttavia, apparivano ad autunno inoltrato: in settembre, il 78% dei voli è arrivato in orario, grazie, soprattutto, però agli sforzi effettuati per aumentare la puntualità su due tratte specifiche: Roma –Milano e Palermo-Milano; il management stimava che la seconda semestrale 2009 avrebbe segnato un pareggio; il servizio relazioni esterne della compagnia sottolineava la riduzione della conflittualità. All’inizio di gennaio, il management preconizzava il pareggio di bilancio nel 2011.Altro segno positivo in dicembre: una serie di accordi code-sharing con Aeroflot (Bagnoli, 2009); da tempo, questa sembrava un’alleanza naturale poiché, dopo una drastica riorganizzazione, Aeroflot cercava un partner di qualità per una clientela di qualità (business e prima classe) nelle rotte internazionali (Pennisi, 2007)
Come valutare questi barlumi, ovviamente enfatizzati dai servizi relazioni pubbliche e stampa dell’azienda? Possono essere i segnali di una svolta e di un miglioramento complessivo unicamente se inseriti in una strategia diretta a rendere la compagnia effettivamente competitiva ed acquisire, quindi, una sempre maggiore quota del mercato internazionale (ora Alitalia ha una quota stimata tra il 4% ed il 2% del mercato mondiale- quindi, un’inezia in un’economia globalizzata). Ciò comporta – è vero –modifiche di contesto (ad esempio, la liberalizzazione dei voli intercontinentali) - che non rientrano nelle competenze dell’azienda, e che il Governo italiano può solo effettuare tramite accordi bilaterali. Altre modifiche di contesto (la privatizzazione degli aeroporti e l’attivazione di un mercato per gli slot) sono nell’ambito dell’azione d’indirizzo politico del Governo e di quella legislativa del Parlamento. Lo è, soprattutto, la semplificazione della regolamentazione e degli enti, autorità e commissioni (tra 8 a 10, a seconda del modo di calcolarli) che vigilano sul settore, spesso in modo contradditorio.
In questo campo, la nuova Alitalia è parsa fruire di privilegi più o meno indiretti, specialmente nelle interpretazioni normative dirette ad aumentare i costi e limitare l’attività delle low cost; alcune misure prese a fine 2009 hanno provocato una reazione molto vivace da parte dei social network come Facebook (Mingardi, 2010) e sembrano non essere in linea con la necessità di rafforzare la sicurezza aerea. Tali misure sono fortunatamente rientrate nella prima decade di gennaio 2010.
Quindi, il futuro della compagnia non dipende unicamente da strategie e da gestione aziendale ma anche da politiche pubbliche in cui si tenga conto che nel medio e lungo periodo protezionismi indeboliscono, invece di rafforzare. In armonia con il tema di questo capitolo, un’exist strategy (ossia una strategia per uscire dalla crisi finanziaria ed economica) richiede un miglioramento della competitività e deve scansare protezionismi diretti od indiretti quali quelli adombrati a fine 2009 .

Il Trasporto Ferroviario e Marittimo
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Sul mercato interno, dove la “vecchia” Alitalia ha avuto una posizione dominante (obiettivo ambito pure dalla “nuova”), il maggiore concorrente non sono (tranne che per il trasporto passeggeri verso e dalle isole) le low cost, ma la ferrovia. Competitore sempre più temibile man mano che l’Alta Velocità si estende e che la qualità del servizio ferroviario migliora. Le ferrovie non operano in condizione di posizione dominante ma, in gran parte del territorio, di vero e proprio monopolio: Trenitalia è un’impresa pubblica , controllata dalla SpA Ferrovie dello Stato di cui è azionista totalitario il Ministero dell’Economia e delle Finanze ; Ferrovie dello Stato,a sua volta, controlla il gestore della Rete, Rete Ferroviaria Italiana. Una privatizzazione delle ferrovie (non contemplata nei programmi di governo né nelle proposte dei partiti d’opposizione) è ostacolata sia da argomenti teorici sia da esperienze empiriche. Sotto il profilo teorico, uno studio recente di uno dei maggiori specialisti di storia del pensiero economico (Numa, 2009) dimostra che pure ai tempi dell’ortodossia liberale classica si confrontavano due scuole, nessuna della quale proponeva che il trasposto ferroviario venisse considerato un bene “puro” di mercato: Dupuit, il precursore dell’analisi costi benefici, lo riteneva un “monopolio di fatto” mentre Walras, uno dei padri del marginalismo, lo giudicava un servizio di pubblica utilità. Sotto il profilo dell’evidenza empirica, la denazionalizzazione delle ferrovie in Gran Bretagna è stato seguita da un raddoppio dei costi operativi e da aumenti molto forti dei sussidi pubblici ai gestori (che avevano minacciato la sospensione del servizio), oltre che da una riduzione della sicurezza e da un incremento dei sinistri, particolarmente di quelli più gravi (Shaoul, 2006). Viene, talvolta, proposto lo scorporo della rete da la SpA di cui Trenitalia è una sussidiaria; tale scorporo non solamente non compare nei programmi né del Governo né dell’opposizione ma , ove venisse realizzato, non comporterebbe un aumento della concorrenza se non si facessero avanti nuovi vettori. Flebili segni in tal senso sono spesso rientrati nel giro di pochi giorni. Una recente analisi comparata delle deregolamentazione delle ferrovie in Europa negli ultimi 20 anni fornisce utili indicazioni per la graduale e progressiva liberalizzazione del settore (Friebel, Ivaldi, Vibes, 2010).
Differente il caso del trasporto marittimo a cui si è accennato nel “Settimo Rapporto” di Società Libera. Dopo mesi di confronto sulle procedure per la privatizzazione di Tirrenia Navigazione SpA, a fine dicembre 2009 la Commissione Europea ha inviato all’Italia una lunga lettera nella quale le modalità dell'operazione previste dal Governo vengono ritenute "accettabili" e si sollecitano tempi rapidi per il riassetto, nonché si prospetta una procedura di infrazione che sarà, però, interrotta od archiviata "non appena" l'Italia si rimetterà in linea con il rispetto delle norme europee sul cabotaggio marittimo. Nella lettera si precisa, inoltre, che il servizio pubblico deve essere limitato alle linee per le quali la presenza ininterrotta durante tutto l'anno di altri operatori non è effettivamente assicurata. Inoltre, la durata dei contratti di servizio pubblico non deve andare oltre a quanto "strettamente necessario" per il successo della privatizzazione: non oltre otto anni, dunque, per Tirrenia Navigazione e fino a 12 anni per le società regionali. Ancora: l'Ue chiede procedure "trasparenti e non discriminatorie" nella gara per Tirrenia Navigazione; in particolare, il governo non dovrebbe imporre ai potenziali acquirenti condizioni di "natura pubblica", come il mantenimento dei livelli occupazionali, mentre le varie società dovranno essere vendute a condizioni di mercato e quindi a chi offre il prezzo più alto. La Commissione avvisa poi che, a riassetto avviato, valuterà se vi saranno "aiuti di stato" non compatibili con le norme Ue, mentre richiede che le risorse finanziarie per l'ammodernamento della flotta Tirrenia rientrino nell'ambito della compensazione del servizio pubblico. Inoltre, l'Ue chiede che eventuali ammortizzatori sociali siano applicati solo ai dipendenti licenziati in occasione della privatizzazione. Quanto alla privatizzazione delle società regionali, Bruxelles fa sapere che andranno "valutate caso per caso".
Il bando di gara è stato approvato. Secondo il Ministero delle Infrastrutture,la privatizzazione sarà completata entro il 2010. Non mancano nubi (quali la creazione di una “bad company” analoga a quanto fatto per Alitalia, scaricando sui contribuenti l’onere di debiti e di attività fuori mercato), ma nel complesso il processo pare avviato in maniera soddisfacente e tale da apportare un contributo positivo, ancorché limitato, all’exist strategy.
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La Liberalizzazione Infinita dei Servizi Pubblici Locali.

I temi della liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali sono stati trattati ampiamente nei tre Rapporti precedenti di Società Libera. Dopo anni di tentativi, nelle ultime settimane del 2009, la saga ha avuto una vera e propria svolta non nel senso previsto della “privatizzazione silenziosa” anticipata un anno fa (Società Libera, 2009) come conseguenza di un “grimaldello” incluso in una norma del 2008 sulla contrattualistica nel settore pubblico, ma in quanto risultato di un decreto legge per porre la normativa italiana in vari settori (non unicamente quello dei servizi pubblici locali) in linea con le direttive ed i regolamenti UE ed evitare, quindi, possibili “procedure d’infrazione”- come aveva enfatizzato già nella primavera l’allora Vice Presidente della Commissione Europea ed attuale Ministro degli Esteri, Franco Frattini (L’Occidentale, 2007). Il “decreto Ronchi salva-infrazioni” (il decreto legge così chiamato dal nome del Ministro per le Politiche Comunitarie), convertito in legge alla fine di novembre (Legge di conversione 166 del 20 novembre 2009). prevede che le gare ad evidenza pubblica diventano la regola per l'affidamento dei servizi (ad eccezione della distribuzione dell'energia elettrica, del trasporto ferroviario regionale e delle farmacie comunali e compresa l'acqua che, però, rimane un “bene pubblico” sotto il profilo giuridico) da parte delle amministrazioni pubbliche. Le gestioni dovute ad un affidamento “in house” cessano alla data del 31 dicembre 2010; tuttavia, le società partecipate potranno proseguire dopo il 2010 e potranno mantenere i contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40% del capitale. Per le società quotate; il termine slitta al 2013, a patto che abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30% al 2015. Inoltre, tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato “devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”.
La normativa , salita alla ribalta per quella che è stata definita “privatizzazione dell’acqua”, in effetti, riguarda “la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Non rappresenta neanche una liberalizzazione a vasto raggio poiché concerne unicamente un numero limitato di servizi pubblici locali: l’esclusione dalla sua sfera applicativa dell’energia, del trasporto ferroviario e della farmacia comunali ne limita i contenuti in maniera significativa. Nonostante questi limiti, anche autorevoli commentatori considerati contigui all’opposizione riconoscono che si tratta di una svolta significativa, tentata per anni da Governi di differente ispirazioni politica, ma per la prima volta riuscita (Giannini, 2009).
A fine dicembre, il rapporto Isae sulla finanza locale (Isae, 2009) sottolineava la probabilità che il processo di liberalizzazione (e miglioramento della gestione) parta proprio dal settore idrico nel Mezzogiorno: il 76% dei 1300 comuni in Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia affidano i servizi connessi agli acquedotti o a SpA interamente a capitale pubblico od a strutture dell’amministrazione comunale- due forme di gestione che vengono spazzate via dalla nuova normativa. Sempre secondo il documento, il fabbisogno d’investimenti nel settore idrico dimostra che il Sud è il terreno ideale per sperimentare la riforma (per quando incompleta) dei servizi pubblici locali: stime di Coviri (Comitato di Vigilanza sul settore delle acque) e della Confservizi (l’associazione delle aziende pubbliche a livello locale) quantizzano a € 60 miliardi (di cui 24 nel Mezzogiorno) gli investimenti necessari nei prossimi tre decenni nel settore dell’acqua.
Se ben attuata, la svolta potrà contribuire alla exist strategy dalla crisi non solamente nel medio e lungo periodo (tramite il miglioramento della gestione risultante dall’innescamento della concorrenza , pur contenuta, nel settore) ma anche a più breve termine , contribuendo ad alleggerire il fardello dell’indebitamento degli enti locali , stimato in € 110 miliardi a cui aggiungere € 10 miliardi di crediti difficilmente esigibili. E’ un percorso – occorre ammetterlo- ancora tutto in salita. E’ stato, però, tracciato ed iniziato.

Una Teoria Economica delle Privatizzazioni

La letteratura sulla teoria economica delle privatizzazioni è molto vasta (per una rassegna recente, si veda Volokh, 2008). In generale , si fonda sull’ipotesi che gli imprenditori privati riescono a cogliere i segnali del mercato meglio e più speditamente dell’operatore pubblico ed analizza l’efficienza finanziaria, economica, sociale e politica dell’assetto proprietario (se privato o se con una più o meno vasta partecipazione dello Stato e delle sue diramazioni). Anche le teorie “positive” elaborate negli ultimi anni (Avishur, 2000), pur spiegando e modellizzando le varie modalità di privitazzazioni, non forniscono una spiegazione rigorosa delle ragioni economiche per cui a “ondate” di nazionalizzazioni seguono “ondate” di privatizzazioni. In Europa, ed anche in Nord America, ci sono state “ondate” vaste e durature di nazionalizzazioni negli Anni Trenta e nel periodo immediatamente successivo la fine della seconda guerra mondiale. Ad esse ha fatto seguito un “ondata” di privatizzazioni iniziata in generale negli Anni Ottanta (ma, come si è visto nei Rapporti di Società Libera cominciata in Italia con una decina d’anni di ritardo rispetto al resto del continente. Dal 2007, è in atto una nuova “ondata” di nazionalizzazione in quasi tutti i maggiori Paesi Ocse (come delineato nella Premessa a questo capitolo). L’Italia è stata un’eccezione; l’”ondata” nel resto dei Paesi Ocse ha frenato il processo in atto ma lasciando spiragli per una nuova fase come parte integrante della exist strategy dalla crisi economica e finanziaria che ha caratterizzato la seconda metà della prima decade di questo secolo.
Sarebbe banale spiegare queste “ondate” unicamente rispetto all’andamento dei cicli economici in quanto le fasi “nazionalizzazioni” hanno spesso coinciso o con profonde e lunghe recessioni; tra l’altro la fase successiva alla seconda guerra mondiale richiedeva, sì, lo smaltimento del forte debito pubblico accumulato durante il conflitto ma ha coinciso in gran misura con i “miracoli economici”, in cui l’esperienza dell’economia di guerra aveva diffuso la convinzione che la programmazione economica da parte dello stato fosse la leva necessaria per meglio indirizzare energie dell’intera economia (Kindelberger,1967; Janossy 1973).
Un approccio interessante viene presentato in un lavoro ancora inedito (al momento della stesura di questo testo) di due political economists francesi Rosa e Pérard della parigina Sciences Po in cui si presenta un modello esplicativo dei cambiamenti di perimetri tra pubblico e privato e della loro scansione temporale. Il modello comporta la costruzione di un processo di asta competitiva per i diritti di proprietà su imprese; i contendenti sono gli investitori privati e lo Stato. Nel modello , gli investitori privati attribuiscono valore ai rendimenti per gli azionisti, lo Stato alla sopravvivenza politica ottenuta tramite il trasferimento di cash flow a vari clientes politici. Le fasi di nazionalizzazioni e di privatizzazioni dipendono da quale tipo di investitore (i privati o lo Stato) hanno il costo opportunità relativamente più basso nel partecipare all’asta vincendola. Una verifica econometrica dell’ipotesi, su un arco di 15 anni (1988-2002) su otto Stati europei (Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia) convalida il modello e le sue ipotesi. Inoltre, la teoria spiega come e perché un regime totalitario come quello nazista abbia avuto una fase intensa di privatizzazioni di grandi industrie e di banche commerciali.
Quali le implicazioni ai fini della nostra analisi? Nei paragrafi precedenti di questo Rapporto sono state indicate alcune opportunità che le privatizzazioni nei comparti del trasporto aereo e marittimo e dei servizi pubblici locali (soprattutto quelli idrici) contribuiscano ad una exit strategy dalla crisi. Non sono state prese in considerazioni ulteriori privatizzazioni di Eni, Enel, Rai, Poste e Finmeccanica a ragione della situazione ancora turbolenta dei mercati finanziari (sempre che non siano d’interesse a “fondi sovrani” che negli ultimi tempi si sono rivolti al settore delle public utilities, degli USA – Bernstein, Lerner, Shoar, 2009).
Tuttavia, come sottolineato nel Rapporto 2009 di Società Libera l’informazione e l’analisi sul costo opportunità delle risorse nel settore pubblico è molto frammentaria ed incerta. E’ possibile che, anche a ragione della forte iniezione di liquidità effettuata, nei Paesi Ocse, nel 2008 e nel 2009 e dell’alto tasso d’indebitamento delle pubbliche amministrazione, che, una volta stabilizzati i mercati finanziari, ci siano le condizioni perché l’asta delle privatizzazioni riprenda nei termini delineati da Rosa e Perard.



Riferimenti bibliografici

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