L'Europa e i rischi di una nuova crisi
di Giuseppe Pennisi Nella settimana appena iniziata il Global Financial Stability Report (che verrà presentato alla stampa a Washington il 20 aprile) e il World Economic Outlook (la cui presentazione avverrà il 21 aprile sempre nell’ambito delle riunioni primaverili degli organi di governo di Banca mondiale e Fondo monetario) tratteggeranno una ripresa lenta per l’Europa e il rischio di una nuova crisi che, questa volta, potrebbe esplodere in quel Vecchio Continente che – lo mostra a tutto tondo il bel film finanziario The World’s Next Supermodel di Ijsbrand van Veelen, ancora non distribuito in molti paesi europei – è riuscita a dare prova di resilience (resistenza) nel 2007-2009. I testi dei due documenti sono già in circolazione in quanto approvati dai consigli di amministrazione delle due istituzioni due settimane fa e, quindi, a disposizione delle diplomazie economiche internazionali. Giovedì 15 aprile, il Bollettino mensile della Banca centrale europea aveva già lanciato un avvertimento e dai suoi felpati uffici erano giunte voci sul rischio di insolvenza da parte dell’Irlanda, del Portogallo e della Spagna.
Dove si annida ora il rischio europeo? Sta venendo al pettine – lo documenta uno studio della università di Maastricht, che ha ricevuto molto attenzione a Washington (e non solo) – un nodo di cui pochi si sono accorti: un’analisi dettagliata della contabilità di un campione delle principali banche indica che alcuni paesi (Grecia ed Irlanda in primo luogo ma anche Spagna e Portogallo) hanno trasformato i mutui sub-prime (specialmente quelli nelle attività d’istituti a partecipazione statale) in debito sovrano. L’analisi conclude che c’è la minaccia di default della Grecia e dell’Irlanda tale «da non farci escludere un contagio nell’area dell’euro nel prossimo futuro». A conclusioni in parte analoghe giunge un lavoro interno (il paper n. 1001) della Banca centrale spagnola sull’andamento dei prezzi dell’edilizia residenziale nei maggiori paesi dell’area dell’euro. Più specificatamente guardando ad Atene ed alle sue politiche, una vera e propria squadra di economisti greci, nell’ultimo numero dell’International Journal of Economic Science and Applied Research, esamina l’andamento del doppio deficit (conti pubblici e conti con l’estero) della Repubblica ellenica negli ultimi 18 anni.
Il verdetto è amaro: dopo lustri di vita “allegra” al di sopra dei propri mezzi, la “sostenibilità – del doppio disavanzo - è debole”. In parallelo, dall’università di Tilburg in collaborazione con quella Princeton, è appena arrivato un nuovo modello da cui si evincono i rischi di contagio, mentre dalla serena Lovanio, il titolare della cattedra di diritto europeo, Damien Gerard, avverte, in un saggio la cui pubblicazione è programmata per maggio, che le paratie Ue – un misto di concorrenza e regolazioni – non sono in grado di evitare una trasmissione di una crisi valutaria da uno Stato membro all’altro.
Ce n'è, quindi, abbastanza per dare kirkegarderiani timori e tremori anche a chi, come il Cancelliere della Repubblica Federale, deve tenere gli occhi puntati sui sondaggi e suoi concittadini la cui età di pensionamento è stata portata a 67 e non gradiscono aiutare i greci che scioperano contro la proposta di innalzare la loro (attualmente a 60 anni). Accantonando i problemi interni della Germania, quali i rischi maggiori per i paesi dell’Ue (Italia inclusa) che fanno parte della ciambella (da lanciare – ricordiamolo – solo se Atene lo chiede in quanto sul punto di affogare)? A mio avviso, potrebbe ripetersi quanto avvenne nel caso della crisi argentina del 1999-2002.
Rimasti scottati con i tango bonds, saranno rari i risparmiatori italiani (ma non solo) che cederanno alle lusinghe di eventuali kàlamantianos bonds (dal nome della danza nazionale greca); le stesse banche centrali li terranno nelle loro casseforti senza metterli sul mercato del dettagli. Ne soffrirà comunque l’unione monetaria non soltanto perché si accentueranno le tensioni nel suo seno. Uno dei “padri” dell’economia tedesca, Joachin Starbatty, ora professore “emerito” all’università di Tubinga (e ascoltato a Berlino) ha pubblicato, su 120 quotidiani nazionali e internazionali, un appello affinché la Germania lasci l’attuale eurozona per costruirne un’altra “con gli Stati che ne sono all’altezza”. L’Italia, fa capire Starbatty, non è tra questi. Grazie al cielo, Starbatty è “emerito” e, come tale, ha autorevolezza ma non voce in capitolo. Un comitato di economisti tedeschi ha iniziato la raccolta di firme per un ricorso alla Corte Suprema della Repubblica Federale contro l’eventuale prestito alla Grecia (ed ad altri Stati iper-indebitati della zona euro).
Ove ciò non bastasse, giungono notizie preoccupanti dall’altra sponda dell’Atlantico: le accuse pesantissime dell’organo americano di controllo dei mercati azionari (la Security and Exchange Commission) nei confronti di Goldman Sachs uno dei cui programmi d’investimento avrebbe “frodato” i risparmiatori/investitori. In questo quadro si situa la politica economica dell’Italia: grazie ad un’abile manovra di bilancio , abbiamo dato prova di resilience nella crisi 2007-2009. Saremo in grado di dare una prova analoga e di rispondere al tempo stesso alle esigenze dei ceti e delle aree più deboli nella nuova tempesta di cui si vedono già nere nuvole piovose?
L’ultimo Bollettino della Banca d’Italia, diramato il 15 aprile, mostra un vero e proprio scatto del made in Italy, dimostrazione della capacità dei nostri esportatori e delle politiche in loro supporto. Al tempo stesso, però, la ripresa è lentissima ed i consumi frenano a ragione della modesta propensione delle famiglie (che temono una nuova crisi). Il problema è speculare a quello degli anni Ottanta quando si dovette, al tempo stesso, ridurre l’inflazione e sostenere la crescita (con particolare attenzione alle fasce ed ai territori più fragili).
Non basta contare sui sentiments degli italiani e ripetere che siamo stati bravi negli ultimi due anni e lo saremo ancora di più in quelli successivi, ove il peggio non fosse ancora passato. Da un lato, occorre dare corpo alla promessa in base alla quale da tre lustri gli italiani danno e confermano fiducia al centrodestra: ridurre l’oppressione tributaria. Da un altro, mantenere il rigore dei conti pubblici: molto si potrebbe fare riducendo drasticamente l’Himalaya dei residui passivi annidati in contabilità speciali. Da un altro, ancora, fare leva sulla grande opportunità di uniformità politica tra centro e Regioni per lanciare un vasto programma di sviluppo concentrando investimenti, liberalizzazioni e ri-regolazione su alcune aree specifiche. In questo quadro, infine, occorre inserire le grandi riforme.
Nessuna di queste linee è semplice. È essenziale un dibattito a differenti livelli - quello tecnico (tra economisti affini all’attuale maggioranza), quello politico (in seno al governo) e quello parlamentare.
Il magnate della siderurgia Andrew Carnegie volle, nel suo testamento, una lapide in cui ci fosse (oltre al nome e al cognome ed alle date di nascita e morte), un’unica frase: «Ebbe la fortuna di avere collaboratori sempre più brillanti di lui». Un elogio a quella collegialità ora quanto mai essenziale.
22 aprile 2010
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