Il 14 maggio il CdA della Rai ha approvato il consuntivo per il 2007. Tanto la capogruppo Raspa quanto il gruppo chiudono l’esercizio “con un sostanziale pareggio”: un disavanzo di 4,9 milioni d’euro a fronte di un preventivo che prevedeva una perdita di 47 milioni d’euro; il margine operativo lordo è di 832 milioni d’euro. Sul versante dei costi, sta dando risultati positivi il programma di contenimento: non sono aumentati rispetto al 2006. Su quello dei ricavi, hanno dato un contributo importante e l’aumento della platea degli abbonati (ormai circa 16 milioni) e l’incremento del canone da 99,6 a 104 euro.
Un quadro, quindi, rassicurante (di cui abbiamo fornito i dettagli il 15 maggio). Molto differente da quello a cui “Il Corriere della Sera” ha dedicato due pagine il 12 maggio – alla vigilia quasi della riunione del CdA. Leggendo con attenzione le due pagine ci si accorge che, a torto od a ragione, esse facevano da cassa di risonanza ad uno studio dello Slc-Cgil (Sindacato lavori comunicazione della Cgil) le cui conclusioni sono che l’azienda è destinata al declino, anzi ad un futuro analogo a quello di Alitalia: “non ad un tracollo violento” (simile a quello di Az) ma ad “un cedimento lento, inesorabile”. Secondo l’analisi Slc-Cgil, che sembra condivisa da “Il Corriere della Sera”, la determinante principale di tale triste destino sarebbero la forte componente di “outsourcing” ad aziende esterne specializzate in produzione e fornitura di contenuti , tra cui aziende controllate dal principale concorrente (privato) di quello che si fregia essere “servizio pubblico”. Vite parallele (o quasi), quindi, per Rai ed Alitalia. La cura consisterebbe nell’aumentare la proporzione di produzione interna, grazie agli 11.500 dipendenti e 43.000 collaboratori di vario ordine e grado a cui fornisce lavoro Mamma Rai.
Chi ha ragione? Chi ha torto? Occorre chiederselo perché il canone è salato, il CdA Rai in scadenza, il progresso tecnologico nel settore molto rapido e nessuno desidera un’agonia lenta come quella di Alitalia, paventata nel lavoro Slc-Cgil e rimbalzata, con un pregevole “blow up” (ingrandimento), dal “Corriere della Sera”.
Nel breve periodo, i dati del consuntivo (e soprattutto la relazione che lo accompagna) sono incoraggianti, specialmente poiché i dettagli evidenziano che il programma di contenimento dei costi è stato attuato con rigore e con fermezza. Meno entusiasmante l’incidenza del canone sui ricavi totali. Negli ultimi quattro anni, il canone è stato complessivamente pari al 75% degli introiti pubblicitari; senza fare ricorso è quella che, secondo quanto si insegna nei corsi di base di scienza delle finanze, è “una tassa di scopo”, la Rai non starebbe in piedi. Dato che con la diffusione d’Internet e delle Tv locali, la giustificazione del canone (“fornire un servizio pubblico”) è sempre più debole , prima o poi la giurisprudenza italiana od europea (nel contesto del programma Ue “Televisione Senza Frontiere” o simili) ci costringerà ad abolirlo. Ed allora saranno guai seri.
La fragilità strutturale della Rai non è, però, la ripartizione delle entrate (tra “tassa di scopo” e mercato). C’è un aspetto più profondo, non toccato né nell’analisi Slc-Cgil né nell’ingrandimento fattone dal “Corriere della Sera”. Sotto il profilo aziendale in un’economia internazione sempre più integrata ed in un quadro di progresso tecnologico sempre più rapido, sulla Rai grava la stessa maledizione che minaccia il tracollo dell’Alitalia: con le sue schiere di dipendenti e collaboratori ed il 46% della produzione affidato all’esterno, la Rai è troppo grande per il mercato italiano (un mercato la cui popolazione si sta riducendo) e troppo piccola per competere sul mercato internazionale (tanto più che gran parte della produzione, sia esterna sia in outsourcing è cucita su misura per il pubblico italiano).
La prova di questa maledizione si tocca con mano con il digitale terrestre. In primo luogo, quando, grazie al digitale terrestre, ogni famiglia avrà accesso a 200-300 canali, come si potrà giustificare la “tassa di scopo” pro-Rai? L’unica giustificazione potrebbe darla “la legge di Baumol” (dal nome dell’economista che la ha formulata): fornire esclusivamente cultura e notiziari. A questo fine, un solo canale sarebbe più che sufficiente; gli addetti dovrebbero raggiungere le 500 unità ed i collaboratori un paio di centinaia. Un dimagrimento, quindi, molto più severo di quello che si prospetta per Alitalia. Si potrebbe naturalmente mantenere la “tassa di scopo” a favore di tutto il settore delle telecomunicazioni (per rendere il digitale terrestre sostenibile sotto il profilo finanziario) ma i proventi dovrebbero essere suddivisi sull’intera filiera nell’ambito di un quadro regolatorio ben preciso: lo suggerisce uno dei casi di studio analizzati in Bezzi e altri “Valutazione in azione” Franco Angeli 2006. E’ ipotizzabile che a ciò si debba, in ogni caso, arrivare (riducendo drasticamente il flusso del canone alla volta della Rai) a ragione della fragilità finanziaria (dimostrata nel libro citato) del digitale terrestre in Italia. Sempre che – ipotesi poco verosimile nel breve e medio termine - la Pubblica Amministrazione non supporti alla grande il settore rivoluzionando l’interazione tra uffici (specialmente dei comuni) ed i cittadini tramite servizi a pagamento da erogare con il digitale terrestre.
In secondo luogo – e su questo punto lo studio Slc-Cgil è condivisibile - i programmi Rai predisposti apposta per il digitale terrestre (specialmente “Rai Utile”) mostrano il ritardo tecnologico se raffrontati con quelli di altre aziende (più piccole e più flessibili) del comparto. “Rai Utile, ad esempio, è inguardabili; a quel che si sa, non li guarda nessuno.
E’ le possibilità di rendere la Rai davvero competitiva a livello internazionale? Il treno – temo – è passato da tanto tempo. E non ritorna indietro.
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