Uno dei punti centrali del programma di governo – il federalismo fiscale- è compatibile o incompatibile con la crescita del Mezzogiorno se non accompagnato da un incremento dei trasferimenti pubblici complessivi (dal resto dell’Italia e dall’Ue, poiché quelli extra-europei sono insignificanti)? E’ utile ricordare che, secondo uno studio pubblicato da Alberto Quadro Curzio su “Il Mulino” nel 1990, venti anni fa i trasferimenti al Mezzogiorno erano pari al 70% del pil prodotto in loco, il 24% del pil prodotto in loco serviva a pagare stipendi del pubblico impiego. il 60% dei lavoratori dipendenti erano o nelle pubbliche amministrazioni, o nelle partecipazioni statali o in imprese private altamente sovvenzionate- in breve una situazione analoga a quella dell’Ucraina. Il percorso verso l’euro ha comportato drastici cambiamenti.
Dopo una fase in cui le regioni del Sud e le Isole sono cresciute a tassi leggermente superiori della media italiana, da un paio d’anni hanno ripreso ad accusare tassi d’aumento del pil mediamente inferiori del 30% a quello dell’intero Paese. A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Non è da escludere che il centralismo attuato dal Governo Prodi e la stangata tributaria del 2006 abbiano contribuito sia al rallentamento del Mezzogiorno sia al nuovo fenomeno d’emigrazione, specialmente di giovani laureati, verso il Centro ed il Nord – una perdita netta di capitale umano che minaccia di essere un’ipoteca a lungo termine sulla vasta area della Nazione.
Il mio cognome indica chiaramente che non provengo dalla Padania. Sono originario del catanese (Acireale) da dieci generazione; c’è un filo nordico, ma normanno, nel mio sangue poiché gli ascendenti di mia nonna s’insediarono a Palermo attorno all’Anno Mille. Sono, però, un convinto federalista fiscale. Oltre dieci anni fa, in un’altra sede, ne ho riportato la giustificazione economica più cogente – quella proposta da Yingyi Qian e Barry Weingast nel saggio “Federalism as commitment to preserving market incentives” (“Il federalismo visto come impegno a mantenere gli incentivi di mercato”) nel “Journal of Economic Perspectives” n. 4, 1997. Il vero federalismo costringe a mantenere gli incentivi di mercato anche a chi ciò non vuole. Lo dimostrano le analisi empiriche della storia economica degli Usa che hanno meritato il Premio Nobel per l’Economia a Robert Fogel e a Douglas North; il federalismo fiscale è stato la molla dello sviluppo degli States del Sud degli Stati Uniti, devastati dalla guerra di secessione della metà dell’Ottocento ed il cui reddito pro-capite (a livelli analoghi a quelli degli States del Nord prima del conflitto) aveva subito un crollo del 60% a ragione delle distruzioni durante gli scontri e nel periodo immediatamente successivo. Fogel, North, Qian, Weingast e più di recente Chancal Numar Sharma in un lavoro pubblicato dall’università di Monaco nel novembre 2007 (tutti distinti e distanti dalle nostre beghe) dimostrano che la potestà di avere sistemi fiscali (e lavoristici) differenti – per utilizzare il lessico nostrano una fiscalità di vantaggio ed una contrattazione decentrata-, ma mantenendo un’infrastruttura federale (per strade, ferrovie e trasporto aereo), hanno permesso al Sud degli Usa di raggiungere e superare il Nord; si è fatto leva sugli “spiriti animali” e sulla disciplina del mercato.
Per essere efficace, quale che sia il modello specifico, il federalismo deve essere, al tempo stesso, politico, economico e burocratico. Il federalismo politico richiede che le decisioni sono prese a livello locale in gran parte delle materie che toccano la vita dei cittadini. Non è necessario concentrare la funzione decisionale in solo livello; di solito ce ne sono numerosi (ad esempio, nel federalismo Usa, lo Stato dell’Unione, la Contea ed il Municipio). E’ essenziale, però, che ci sia chiarezza su quale livello è responsabile di cosa; senza tale chiarezza, non è possibile esercitare alcun controllo democratico. Il programma con il quale il Pdl, la Lega Nord e le forze politiche a loro collegate hanno vinto le elezioni presenta una versione moderata e limitata di federalismo politico: essenzialmente correttivi di quanto definito nel nuovo Titolo V della Costituzionen che si è rivelato, alla luce di sette anni d’esperienza, un pasticciaccio barocco che ingolfa i processi decisionali invece di semplificarli. Il programma non parla di federalismo o devoluzione della magistratura- un tassello necessario poiché ci dovranno, prima o poi, essere giudici specializzati nell’interpretare la normativa prodotta dalle Regioni. Lo sottolinea uno studio in cui si valutano i primi anni di “devoluzione” in Granb Bretagna. Lo hanno condotto da Mahmoud Ezzamel (Cardiff Business School), Noel Hyndham (Queen’s University di Belfast), Irvine Lapsey e Aage Johnsen (ambedue dell’Università di Edimburgo) e June Pallott (University of Canterbury) e pubblicato nel fascicolo di giugno 2004 di “Public Money & Management”; è disponibile sul web. Lo studio affronta un tema, a metà strada tra economia e politica: in che misura la “devoluzione” ha aumentato la “democratic accountability” (ossia la responsabilizzazione di politici e burocrati nei confronti degli elettori). La devoluzione – lo studio afferma - ha portato maggiore “apertura”, “trasparenza”, “consultazioni” e “verifica” specialmente per quanto riguarda fisco, finanza e politiche pubbliche; ha anche messo in moto un “information overload”, un “sovraccarico da informazioni”. Di conseguenza, chi fa politica dipende oggi più di ieri da “tecnici, consiglieri parlamentari e consulenti in generale che sappiano filtrare l’informazione”. Decide, però, in base ad analisi più ricche.
Il federalismo fiscale non vuole solamente dire come dividere le fonti di gettito tributario tra centro e periferie (Regioni, Province, Comuni) ma di definire il “nucleo duro” di competenze economiche essenziali da mantenere al centro e di “devolvere” il resto alle periferie. Non si può avere federalismo fiscale e pretendere “uniformità” di servizi ai cittadini su tutto il territorio nazionale. Tale “uniformità” impedirebbe le scelte delle periferie su priorità e livelli di tassazione; quindi, renderebbe o impossibile o finto il federalismo politico. Non raggiungerebbe, poi, lo scopo di favorire le aree più deboli. Non si mette a repentaglio l’unità nazionale differenziando i servizi in base alla disponibilità a pagare e favorendo la crescita accelerata delle aree più povere. Al contrario, la si rafforza.
Il federalismo burocratico è quello degli uffici: ci devono essere burocrazie che rispondano ai responsabili del federalismo politico ed economico ed agli elettori. Purtroppo in Italia, nell’ultimo scorcio della XIII legislatura, si è dato vita ad una riforma della Costituzione che contiene molto federalismo burocratico (peraltro incompiuto) e poco o nulla di federalismo politico ed economico. Anzi, è un vero e proprio monumento al federalismo burocratico. Nel 2004, Hongbin Cai e Daniel Treisman (ambedue dell’Università della California a Los Angeles) hanno pubblicato sul “Journal of Public Economics” un saggio che documenta, con analisi teoriche e riferimenti empirici, come il federalismo burocratico corroda istituzioni ed economia se non è nell’ambito di un ben articolato federalismo politico ed economico. Il federalismo burocratico è la trappola in cui dobbiamo evitare di cadere.
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