Il programma triennale di riassetto di finanza pubblica delineato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti pone l’accento, tra l’altro, sull’apporto di privati al finanziamento d’opere pubbliche al fine sia d’alleggerire l’onere complessivo sull’erario sia di progettare e realizzare con maggiore efficienza ed efficacia. In Italia esiste una normativa apposita da circa dieci anni. Un’Unità tecnica di finanza di progetto (Utfp) è adesso collocata in Presidenza del Consiglio (ma sito www.utfp.it si trovano dati soltanto sino al 2006). Un’analisi del Fondo monetario rivela che già negli Anni Novanta il 20% delle infrastrutture in Paesi in via di sviluppo è realizzato con l’apporto del project financing , o , nel nostro lessico, finanza di progetto.
L’Italia è stata uno dei precursori in materia, con il finanziamento della ferrovia Napoli-Portici prima ancora dell’Unità. Numerose “ferrovie in concessione” nel XIX e nel XX secolo sono state realizzate con strumenti che oggi verrebbero chiamati finanza di progetto. La cultura, quindi, non dovrebbe mancare ma essere radicata. Decenni d’intervento pubblico hanno probabilmente fatto dimenticare il ruolo che il nostro Paese ha avuto in questo campo. La lettura delle relazioni annuali dell’Utpf dovrebbe frenare gli entusiasmi di Giulio Tremonti: trattano più d’iniziative promozionali e di tentativi che di realizzazioni effettive. Nonostante il lavoro dell’Utfp sia affiancato da programmi di formazioni curati dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) e dal Formez , i risultati sono (sino ad ora modesti): le stazioni appaltanti sono quasi sempre i comuni (l’85,5% del totale), specialmente quelli di piccole e medie dimensioni, e le priorità riflettono quindi quelle di infrastruttura comunale (specialmente, parcheggi, cimiteri, impianti sportivi e riqualificazione urbana). Quindi, progetti di piccole dimensioni (l’importo medio è sceso dagli 8 ai 5,5 milioni d’euro, mentre analisi internazionali affermano che l’efficienza e l’efficacia si ha per progetti il cui costo supera i 20 milioni d’euro). Si prediligono, quindi, i settori semplici e meno rischiosi.
E le grandi opere? Appena due anni fa un interessante volume dell’Istat (con un’accurata analisi a livello provinciale) ci ha ricordato che siamo in ritardo rispetto a gran parte degli altri Paesi europei di grandi e medie dimensioni; gli aggiornamenti periodici (e studi della Confindustria ed altri) indicano che da allora la situazione non è migliorata, ma peggiorata. E’ una delle componenti della scarsa produttività multifattoriale ed uno dei freni a fare “rialzare l’Italia”. Una ricerca ancora in corso condotta sotto l’egida della Fondazione Iri sottolinea, in base in gran misura dell’esperienza della Gran Bretagna e della Francia, come ci sia molto spazio e come lo strumento della finanza di progetto non sia utilizzato al pieno della sua potenzialità. L’esperienza britannica non consente di nutrire eccessive illusioni sul volume di capitale privato (che potrà essere veicolato verso opere pubbliche) ma fornisce indicazioni concrete di come la partnership pubblico-privato è un metodo efficace per migliorare l’efficienza. Secondo gli organi di controllo del Regno Unito, il 76% delle operazione attuate facendo ricorso alla finanza di progetto viene completato nei tempi previsti nei rispettivi programmi lavoro (rispetto al 30% dei progetti finanziati unicamente con risorse pubbliche); appena il 22% delle operazioni di finanza di progetto sono rinegoziate (per aumenti dei costi) rispetto al 73% dei progetti a carico interamente di Pantalone. Ciò suggerisce che lo strumento meriterebbe di essere utilizzato con maggiore frequenza (e per progetti di maggiore consistenza) anche se l’apporto di risorse finanziarie fosse modesto e i benefici riguardassero quali esclusivamente l’efficienza della realizzazione delle opere pubbliche interessate.
Ci sono verosimilmente aspetti normativi che vanno corretti. Occorre anche operare sulla qualità del lavoro delle stazioni appaltanti (perciò la formazione). Nel 2006 l’Italia è stata il Paese Ue che ha bandito più gare per finanza di progetto (41) ma solamente una è andata in porto. A titolo di raffronto, la Spagna ha bandito 26 gare; l’esisto è stato buono con 16 progetti già in fase di realizzazione. Non mancano proposte per cambiare questa situazione (una “blueprint” interessante è stata presentata dall’Abi). Vanno valutate con attenzione. Non si può eludere il problema.
QUANDO CONOSCEREMO L’ANALISI DI RISCHIO SUL PONTE DI MESSINA?
Gran parte del dibattito sulla finanza di progetto in corso in Italia riguarda la ripartizione del rischio tra partner pubblico e partners privati. Tale dibattito, a mio avviso, è poco utile se non è preceduto da un’intesa sulle metodiche d’analisi di rischio attinenti al progetto (preliminare a dibattiti sulla sua ripartizione). Nel 1968 da 26enne neo assunto in Banca mondiale sono stato iniziato alla finanza di progetto lavorato su un complicato progetto multi-scopo (idroelettrico ma anche di irrigazione, riforma agraria e viabilià) : El Chocon in Argentina . Le analisi di rischio, innovative per l’epoca, sono state pubblicate nel Technical Paper n. 325 della Banca Mondiale ed in saggio apparso, nel 1975, nel periodico “Management Science” n. 12 dell’Università di Harvard). I partners privati erano molteplici e la Banca Mondiale entrava non solo con un prestito ma anche con partecipazione al capitale. Allora, 40 anni fa, l’analisi di rischio è stata effettuata con la tecnica statistica chiamata “Simulazioni di Montecarlo”, ancora impiegata (ovviamente aggiornata) dai maggiori organismi internazionali. La tecnica fu molto utile nella ripartizione del rischio tra i finanziatori. Quanto è utilizzata in Italia? Con quale frequenza? Quando saranno rese pubbliche, ad esempio, le “Simulazioni di Montecarlo” per il Ponte sullo Stretto?
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