Il Governo Berlusconi versione 2008 ha due caratteristiche: è il solo Esecutivo della Repubblica che non ha richiesto un’accettazione dell’incarico “con riserva” prima della presentazione della lista dei Ministri; è un Governo interamente politico che fruisce di una forte maggioranza parlamentare, specchio, a sua volta, di un altissimo grado di consenso nel Paese. Questi due aspetti, che dovrebbero consentirgli un’azione rapida in tutti in campi (anche e soprattutto in quello della politica economica), si situano in un quadro internazionale ed interno all’insegna della fragilità ed incertezza. I due elementi sono collegati: la fragilità (e il ciclo economico ansimante) è in gran misura frutto dell’incertezza. In Italia, in particolare, l’incertezza è stata acuita dalle politiche contraddittorie degli ultimi due anni e dalle continue liti all’interno della risicata maggioranza parlamentare che sosteneva, per così dire, l’Esecutivo che Romano Prodi tentava, peraltro senza grande successo, di guidare.
Questa considerazione è utile per impostare un’analisi sulla strategia di medio periodo dirette rilanciare la crescita a lungo termine, una volta superate alcune emergenze (effettivo stato dei conti pubblici, rifiuti a Napoli (ed a Roma), sicurezza, Alitalia). Il nodo più importante, a mio avviso, riguarda il numero delle ore effettivamente lavorate dagli italiani. Dai tempi degli economisti classici, la disciplina vede un nesso tra ore effettivamente lavorate e crescita. Circa quattro anni fa c’è stato un dibattito accesso innescato da un lavoro molto documentato di Edward Prescott dell’University of Minnesota in cui sostiene che mediamente gli americani lavorano il 50% di più dei francesi, dei tedeschi e degli italiani con la conseguenza che gli incrementi di produttività oraria non bastano a compensare le poche ore di lavoro effettivo. Più o meno nello stesso periodo, due saggi di Robert J. Gordon (Northwestern University) producevano cifre e statistiche, su un lasso di tempo di ben due secoli, da cui si ricava che il problema è relativamente recente: le sue origini si collocano negli anni ’60 e si aggravano progressivamente. Nei giorni in cui si formava il Governo, Tine Dhont e Freddy Heylen pubblicavano, nel numero d’aprile di Economic Inquiry ( Vol. 46, Issue 2, pp. 197-207- si può richiedere su supporto magnetico a freddy.heylen@ugent.be) un interessante lavoro in cui, con una raffinata analisi statistica, si dimostra che il cambiamento è avvenuto non perché dagli anni ’70 gli europei si sono impigriti od hanno dato maggior peso al tempo libero ma a ragione dell’aumento della pressione fiscale-contributiva e parallelamente della spesa pubblica considerata improduttiva. La grande sfida per fare tornare gli italiani al lavoro consiste nel ridurre sia la prima sia la seconda. Le misure sulla tassazione della prima casa e degli straordinari sono un segnale eloquente, ma devono essere accompagnate da tagli alla spesa, mirati a quella considerata improduttiva.
E’ una strada stretta a ragione della legge di Wagner (un economista di fine Ottocento-inizio Novecento; nulla a che vedere con il musicista) in base alla quale la spesa pubblica tende ad aumentare più velocemente delle attività economiche: il CFS Working Paper No. 2008/13 diramato all’inizio di maggio contiene un’analisi relativa a 23 Paesi Ocse ( ne sono autori Andrea Zaghini e Serena Lamartina della Banca d’Italia) che conferma il fenomeno. Specialmente per l’Italia. In parallelo uno studio molto raffinato di Andrew Young riscontra lo stesso fenomeno anche in quegli Stati Uniti dove da decenni si cerca di ridurre l’estensione della mano pubblica.
E’, però, un percorso obbligato come indicato anche da coloro interessati meno all’economia del lavoro e delle risorse umane e più al nesso tra tecnologia (in particolare economia della conoscenza) e crescita. E’ di questi giorni un lavoro di Jan B.M Goossenaerte dell’Istituto di Tecnologia dell’Università d’Eindhoven che insiste su questo punto: un settore privato a forte tecnologia viene frenato dall’invadenza di alta tassazione e spesa pubblica improduttiva. Uno studio di Francesco Quatraro dell’Università di Torino riguarda specificatamente “il caso Italia”: l’Ict non riesce da sola a dare una spinta all’economia (specialmente in Paesi che la hanno adottata relativamente tardi come il nostro) se manca il quadro istituzionale-economico complessivo e se persiste alta tassazione, spesa improduttiva e lentocrazia.
Le priorità emergono chiare: c’è molto lavoro per Tremonti, Sacconi, Brunetta e Calderoli . E pure per gli altri.
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