Alla fine lo ha dovuto ammettere il notoriamente ottimista Ben Bernanke, Presidente del Federal Reserve Board ( in gergo giornalistico italiano la Fed), l’autorità monetaria americana. Nella conferenza stampa via satellite con giornalisti dei quattro angoli del mondo, martedì 13 maggio ha affermato che la situazione dei mercati finanziari è ancora “molto lontana dal normale”. La Fed – occorre ammetterlo – ce la ha messa tutta: non solamente ha abbassato i tassi d’interesse (oggi il tasso direttore Usa è appena il 2% l’anno) ma ha anche fatto interventi diretti (peraltro discutibili) a favore di banche commerciali e per garantire con titoli di stato la liquidità e la solvibilità di gestori in difficoltà. Tutto ciò ha accelerato la perdita di valore internazionale del dollaro, il cui saggio di cambio ponderato è diminuito del 7% ( e ben del 13% rispetto all’euro) dall’inizio d’agosto. Ha accentuato l’aumento dei corsi delle materie prime: la teoria delle opzioni reali insegna che quando i tassi d’interesse diminuiscono, i produttori di prodotti di base non hanno alcun interesse a vendere e preferiscono tenere il petrolio sotto terra e le granaglie nei silos. Non ha, però, avuto alcun effetto apprezzabile sul mercato americano dei mutui; inoltre, secondo un’indagine dell’Office of Federal Housing Enterprise Oversight, l’agenzia di vigilanza sugli andamenti dell’edilizia residenziale Usa, i prezzi medi delle case saranno ancora per diversi mesi in caduta libera. Con ripercussioni negative sull’economia reale.
Sul mercato dell’area dell’euro, la Banca centrale europea (Bce) non ha seguito la Fed sulla strada del ribasso dei tassi (il tasso d’interesse direttore è rimasto al 4% l’anno) a motivo delle pressioni inflazionistiche, provenienti, in certa misura, dai corsi delle materie prime (a loro volta in parte indotte dalla politica monetaria Usa). Un’indagine condotta in Aprile dalla Bce tra i principali istituti di credito europei ha indicato che, da un lato, le condizioni poste dalle banche stanno diventando più restrittive e, dall’altro, che la domanda di finanziamenti (specialmente da parte delle imprese) sta diminuendo. Dato che in Europa, il credito bancario rappresenta l’85% del finanziamento delle imprese (in aggiunta al ricorso a risorse proprie), ciò rappresenta una minaccia: il rischio che le restrizioni creditizie aggiungendosi ad un rallentamento del ciclo scatenino una prolungata crescita zero od anche una recessione. Le stime econometriche dei 20 maggiori istituti privati internazionali, elaborate due settimane fa, prevedono che il tasso di crescita nell’area dell’euro resti, nel 2009, all’1,6 stimato per il 2008e che quello dell’Italia aumenti leggermente dallo 0,8% previsto per l’anno in corso ad un debole 1,1%. Tuttavia questo quadro pare oggi ottimista. Un’analisi di Barclays Capital di Londra indica che di norma c’è un differenziale temporale di un anno e mezzo perché gli operativi d’istituti di credito assorbano, e smaltiscono, l’aumento dell’avversione al rischio; ciò vuol dire una contrazione dei finanziamenti (e la virtuale essiccazione di fonti come il private equity e le titolaralizzazioni) ancora per diversi mesi. Con conseguenze pesanti per le economie reali.
Charles Goodhart della London School of Economics lo ha illustrato alcune settimane fa in un saggio (CESifo Working Paper Series No. 2257) in cui individua un miglioramento della regolamentazione europea (e nazionale) sui mercati finanziari come risposta ad una crisi che si presenta prolungata. Il saggio (si può richiedere all’autore caegoodhart@aol.com) presenta anche indicazioni dettagliate su cosa fare. Anche se non sembra che mercoledì sera, nella riunione dei Ministri Economici e Finanziari dell’Eurogruppo, il nodo sia stato specificatamente affrontato, è verosimile che il protrarsi del difficile quadro internazionale porti ad un’accelerazione di quel riassetto delle authority (non solo in campo finanziario) per il quale sono stati preparati, negli ultimi cinque anni, schemi di provvedimenti restati ancora lettera morta. Un quadro ancora più fosco, anche se riferito principalmente agli Stati Uniti, è presentato da Atif Mian e Amir Sufi dell’Università di Chicago nelNBER Working Paper No. W13936, diramato a metà maggio.
Questo quadro internazionale non può non avere implicazioni sull’azione di governo dell’Esecutivo appena entrato in carica in Italia. La strategia sarà indicata nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef), ancora in fase di redazione. Il percorso per rialzare l’Italia tramite sette missioni specifiche si presenta, però, più arduo di quanto non sembrava lo scorso gennaio quando è iniziata la crisi che ha portato alle elezioni. Allora , i 20 maggiori istituti econometrici prevedevano, per l’Italia, una crescita dell’1,5% per il 2009; oggi è verosimile che in una delle prossime tornate mensile , la stima vada al di sotto dell’1%, con un aggravio, dei conti pubblici, e serie difficoltà a non avere cadute nei livelli occupazionali. E’importante tenere presente che la cinghia di trasmissione tra le difficoltà finanziarie internazionali e l’economia reale italiana è la caduta di fiducia tra banche ed intermediari finanziari in genere. In questo senso, la risposta proposta da Goodhart potrebbe avere un effetto positivo: tirare fuori dai cassetti una buona riforma delle authority (eliminando duplicazioni e sovrapposizione) potrebbe fornire un’iniezione di fiducia di cui c’è urgente esigenza. Non basterebbe da sola a dare lo sprint necessario. Ma potrebbe essenziale. Anche se non sufficiente.
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