Colpire l’avversario all’improvviso è una tattica utilizzata sin dai tempi degli Ittiti e codificata nei manuali di guerra dei generali egiziani. Come ha scritto a tutto tondo Libero Mercato del 21 maggio, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti ha colto tutti di sorpresa presentando i lineamenti della programmazione economica e finanziaria per i prossimi tre anni il 20 maggio, mentre l’attenzione di tutto il mondo politico ed economico era rivolta all’allora imminente sessione del Consiglio dei Ministri a Napoli ed ai temi della sicurezza e delle discariche.
Sotto il profilo quantitativo, il programma triennale delineato da Tremonti non è sostanzialmente differente da quanto anticipato da alcuni mesi in questa rubrica e su questo giornale: il Governo Prodi ha lasciato una pesante eredità (è un modo elegante per parlare della “cronaca del buco annunciato” tracciata sin dalla metà del 2007) che il Ministro dell’Economia e delle Finanze propone di ammortizzare su tre anni allo scopo di mantenere immutato l’obiettivo, concordato con gli altri Paesi dell’area dell’euro, di giungere al pareggio di bilancio entro il 2011. Le risorse necessarie, sull’arco triennale, vengono quantizzate dal Ministro dell’Economia e delle Finanze in 20-30 miliardi di euro. Le nostre stime propendono più per la cifra più elevata che per quella più bassa delle due indicate. Inoltre, l’aggiustamento – viene annunciato – sarà in gran misura dal lato della spesa piuttosto che da quello delle entrate (che sarebbero in effetti soggette a ritocchi specifici su alcuni settori che hanno fruito di utili considerati eccezionali, oltre che ad uno sforzo aggiuntivo di recupero dell’evasione e dell’elusione tributaria ). In tal modo, si bloccano immediatamente eventuali richieste dei dicasteri di spesa. Una manovra dal lato prevalentemente della spesa richiede, però, la definizione di criteri chiari e precisi specialmente se si vuole il consenso non soltanto delle parti sociali ma anche e soprattutto delle pubbliche amministrazioni, il cui apporto è, in ogni caso, essenziale per realizzarla.
A mio avviso, un primo criterio, per grossolano che può sembrare, dovrebbe essere quello di salvaguardare la spesa in conto capitale con elevati saggi di rendimento all’economia. E’ meno rozzo di quel che sembra se si pensa che nel 1996-2001, l’aggiustamento dal lato della spesa è stato fatto quasi interamento riducendo l’investimento pubblico o ritardano i pertinenti pagamenti; un’analisi della Banca d’Italia dimostra che in quel periodo la spesa pubblica per investimenti è stata più che dimezzata (rispetto alla percentuale del pil riportata nei dieci anni precedenti) E’ stata una tattica miope di cui ancora oggi si avvertono le conseguenze in termini d’effetti negativi sul sistema produttivo a ragione delle carenze delle infrastrutture. Una tattica analoga (nonostante il forte aumento della pressione fiscale attuato con la finanziaria del 2006) è stata seguita negli ultimi due anni; l’Osservatorio Ance lamenta che le opere pubbliche sono rimaste al palo (specialmente Anas e Ferrovie dello Stato) a causa dei ritardi nei pagamenti. Gli effetti potranno essere ancora maggiori se le riduzioni ed i rinvii riguarderanno quelle infrastrutture tecnologiche da cui dipende il miglioramento della produttività dei fattori produttivi- settore in cui l’Italia è il fanalino di coda dell’Ocse.
Non è una sindrome unicamente italiana. Roel M. W. J. Beetsma della Università di Amesterdam e Rick van Der Ploeg dell’Università di Oxford hanno appena pubblicato un saggio sulla “political economy” (nel senso di interazione tra politica ed economia) degli investimenti pubblici. Nel lavoro, si mette in rilievo come restrizioni alla spesa – ci si riferisce in particolare a quelle del “Patto di Stabilità”- possono essere un setaccio per salvaguardare da investimenti pubblici a basso rendimento sociale e che si è riusciti ad intrufolare nei programmi dietro pressioni particolaristiche. Il criterio indicato è che restrizioni al finanziamento (ed anche allo stesso indebitamento pubblico) non sono necessarie se ad un’analisi costi benefici rigorosa i progetti mostrano di avere elevati rendimenti. In questi casi, anzi, è anche possibile, ed auspicabile, fare ricorso alla finanza di progetto con l’apporto di capitali privati. Da circa dieci anni, la normativa prevede che ogni amministrazione pubblica sia dotata di un nucleo di valutazione delle proprie proposte d’investimento pubblico. Esiste anche regole specifiche relative ai contenuti degli studi di fattibilità. Le tecniche possono essere agevolmente estese ai trasferimenti alle imprese ed a comparti di spesa pubblica di parte corrente (istruzione, sanità). E costituire , quindi, un primo insieme di criteri per come scegliere e cosa “tagliare”.
Un altro insieme di criteri può riguardare gli acquisti di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni. L’esperienza della centralizzazione degli acquisti, tramite la Consip, sembra avere dato risultati positivi e suggerisce una strada da continuare a perseguire.
Dove è più difficile individuare criteri è la vasta area dei trasferimenti alle famiglie (in gran misura pensioni) e delle spere per il personale. I primi (specialmente quelli attinenti alle pensioni) si riferiscono ad una materia che, almeno per il momento, nessuno sembra avere voglia di sfiorare se non altro perché non si possono legiferare riforme previdenziali ogni due-tre anni. Le seconde riguardano un’area dove le carenze non attengono ai criteri normativi per incentivare chi produce e sanzionare chi tenta di lavorare il meno possibile, ma alla loro applicazione da parte di alcuni strati della dirigenza della pubblica amministrazione. Soltanto una migliore formazione e sensibilizzazione di quest’ultima potrà gradualmente portare ad una riduzione di spese di dubbia utilità per la collettività.
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