Viaggio intorno al mondo dei
blocchi monetari (a cui si è fatta poca attenzione)
Cosa frena
la produttività nel Vecchio continente? Solo la demografia? O anche
l’affastellarsi di regole e regolette che ci siamo dati, spesso sotto impulso
delle istituzioni europee? Ci risponde Giuseppe Pennisi
Il mondo è
cambiato. Drasticamente. Più di quanto non ce ne siamo accorti. L’attenzione è
stata rivolta a numerosi mutamenti, specialmente a quelli collegati
all’economia dell’informazione e della comunicazione e alle nuove forme di
finanza tecnologica, nonché alle grandi aree commerciali e ai vasti mercati
comuni che comportano una maggiore attenzione al codice di norme e
giurisprudenza dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) per evitare
scaramucce e guerre commerciali che rischiano di danneggiare tutte le parti in
causa.
C’è stata
poca attenzione alla formazione di veri e propri blocchi monetari. All’inizio
dei negoziati che portarono all’unione monetaria europea alcuni euroentusiasti
vagheggiarono che prima o poi la moneta unica dell’Europa in via di
integrazione avrebbe, se non soppiantato il dollaro come principale unità di
riserva, di scambio e di valorizzazione nelle transazioni internazionali,
acquisito pari dignità con il greenback degli Stati Uniti.
Li smentì un
lavoro di Giorgio Gomel, allora al servizio studi della Banca d’Italia, che
mostrò quanto lunga, difficile e in salita fosse la strada. Ora un importante
lavoro empirico di Camilo E. Tovar e di Tania Mohd Nor, ambedue del
dipartimento Ricerca del Fondo monetario internazionale (Reserve currency
blocs: a changing international monetary system? Imf working paper n.18/20)
delinea i blocchi monetari sulla base delle riserve accertate e solleva il nodo
di fondo: se e quanto in questi anni il sistema monetario internazionale non
sia cambiato e se necessiti quindi di nuove regole.
Sotto il
profilo tecnico, lo studio (in corso di pubblicazione) quantizza il grado di
diversificazione monetaria utilizzando regressioni statistiche delle
transazioni monetarie per determinare in che grado le monete nazionali
appartengano a un blocco di monete di riserva. In questo modo vengono calcolate
le dimensioni di ciascun blocco monetario. L’aspetto-chiave del lavoro è la
quantizzazione del blocco del renmimbi, la moneta della Repubblica Popolare
Cinese. La conclusione è che il blocco del dollaro continua a dominare; è pari
al 40% del Pil mondiale. Lo segue il blocco del renmimbi (30% del Pil mondiale)
e terzo e ultimo tra i grandi blocchi è quello dell’euro (quasi il 20% del Pil
mondiale). L’area della sterlina (un tempo importantissima) e quella dello yen
(anch’essa una volta molto vasta) si dividono il restante 10% del Pil mondiale
e si stanno rimpicciolendo, diventando marginali.
Questi dati
impongono una riflessione. Da un lato i blocchi monetari corrispondono in larga
misura alle vaste aree di libero scambio. Da un altro, un ruolo relativamente
minore del blocco dell’euro non solo conferma lo studio di Giorgio Gomel di
circa trent’anni, ma rispecchia la lenta crescita del Vecchio continente e
quella, invece, rapida dell’Asia, in particolare dell’estremo oriente, e pone
un importante interrogativo di economia reale. Cosa frena la produttività nel
Vecchio continente? Solo la demografia? O anche l’affastellarsi di regole e
regolette che ci siamo dati, spesso sotto impulso delle istituzioni europee?
08/04/2018
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