LA
TRAGEDIA LIRICA ITALIANA/ "Francesca da Rimini" nella Prima Guerra
Mondiale
Una nuova produzione della Francesca di Rimini alla Scala di
Milano scatena l'entusiasmo del pubblico. Torna la tragedia lirica italiana, il
comento di GIUSEPPE PENNISI 18 aprile 2018 Giuseppe Pennisi
Foto
Brescia/Amisano - Teatro alla Scala
C’è
un repertorio del teatro in musica italiano degli anni a cavallo tra l’ultimo
scorcio del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo che le
fondazioni liriche del nostro Paese hanno per diversi lustri quasi
completamente dimenticato, mentre miete ancora meritati successi all’estero
(specialmente negli Stati Uniti ed in Germania, nonché in alcuni Paesi
dell’Europa Centrale, ad esempio l’Ungheria).
E’
il repertorio che, in giustapposizione (ma non in contrasto) con il “verismo” esplorava
un sentiero che, pur italianissimo, si ricollegava a Wagner, Debussy ed al
primo Strauss. In breve, la tragedia lirica musicale. L’idea di base era di
fondere il cromatismo wagneriano (segnatamente quello di “Tristan und Isolde”)
con quella tragedia lirica italiana, che in teatro trovava la sua maggiore
espressione in Gabriele D’Annunzio. Anche nella scuola “verista” – sempre sulle
nostre scene (soprattutto grazie a Giordano, a Leoncavallo, al primo
Mascagni) – si conducevano ricerche su questi percorsi musicali, ma in maniera
molto più contenuta: lo stesso Puccini – vale la pena ricordarlo – morì
insoddisfatto in quanto non riuscì a comporre quel duetto finale di “Turandot”
che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere la risposta italiana al duetto
del secondo atto del “Tristan”.
Il
repertorio della tragedia lirica musicale italiana a cavallo tra i due secoli
ha capolavori sommi, quali “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi; per
alcuni anni, due lustri fa, si poteva gustarlo, quasi ogni stagione, facendo
una gita a Zurigo; è opera breve, perfetta per una serate inaugurale; speriamo
che qualche sovrintendente e direttore artistico se ne ricordi.
Un
maestro della stazza di Gavazzeni si adoperò perché questo repertorio non
venisse dimenticato; il vostro chroniqueur ricorda una splendida
Parisina di Mascagni, da concertata proprio da Gavazzeni, colta a Roma
attorno al 1975 durante una sosta di viaggio da Washington (dove allora viveva)
in Africa. Ora il Teatro alla Scala ne sta riportando alla luce alcune
ghiottonerie. Tale è “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai che
nella sala del Piemarini non si vedeva dal 1959, quando la concertò proprio
Gavazzeni, ma che ha avuto un revival a Roma ed a Macerata nel 2004 in due
produzioni differenti caratterizzate dallo stretto rapporto tra Daniela Dessì e
Fabio Armiliato. A Roma era ambientata da Alberto Fassini in contesto che
assomigliava, più che alla Ravenna ed alla Rimini del Medio-Evo, al quartiere
Coppedé, la massima espressione dell’architettura liberty a Roma; vi abitava
Beniamino Gigli. Anche la è produzione di Macerata (di cui esiste un DvD),
l’azione era in un contesto art nouveau con l’immenso palcoscenico dello
Sferisterio colmo di fiori. Un piccolo particolare; le prime inquadrature del
film di Antonioni del 1950 Cronaca di un Amore si svolgono in una
‘prima’ alla Scala dove è in scena Francesca da Rimini – segno che
allora l’opera era ancora rappresentata di frequente.
In
questa nuova produzione, la regia di David Putney (scene di Lesley Travers;
costumi di Marie-Jeanne Lecca; coreografia di Denni Sayers, luci di Fabrice
Kebour) collocano la tragedia in un ambiente che pare essere quello della prima
guerra mondiale (il debutto dell’opera avvenne a Torino nel febbraio 1914
quando a distanza si sentivano già i rulli di tamburi che avrebbero portato a
Sarajevo) C’è un tocco liberty nel primo atto (che si svolge a Ravenna) ma nei
tre seguenti siamo in grandi costruzioni guerresche. E’ un scelta che ha
una sua logica ma il vostro chroniqueur trova più appropriata un
contesto liberty o art nouveau anche perché il libretto di
Gabriele D’Annunzio (adattato da Tito Ricordi) debuttò nel 1901 quando i
sentori di conflitto erano lontani e si respirava ancora la Belle Époque.
Tanto
la scrittura orchestrale quanto la vocalità sono impervie. Fabio Luisi ha
dato una splendida lettura della prima facendo avvertire i richiami a Debussy
ed a Strauss e, specialmente nel terzo atto, a Wagner. Che meraviglia l’assolo
di violoncello al termine del primo atto!
Arduo
trovare interpreti per un lavoro in cui il declamato si scioglie in ariosi ed
in cui ciascuna parola deve essere compresa, sovrastando un enorme organico
orchestrale. L’onere è sulle spalle soprattutto di della protagonista (Maria
José Siri), in scena in tutti i quattro atti, alle prese con passaggi
difficilissimi dai “do” ai “sì naturali”, da estenuanti declamati ad ariosi e
duetti (quelli con “Paolo il bello”, Marcelo Puente ) densi di passione; una
sfida riuscitissima. Puente è un tenore argentino avvenente e dà sfoggio di una
voce matura leggermente brunita con un ottimo centro, da rasentare quella di un
heldentenor . La tragedia richiede anche un tenore lirico nel ruolo
perfido, pervertito e sadico di Malatestino: il ruolo va a pennello a Luciano
Ganci. Gabriele Viviani è un Giovanni lo sciancato, con tutta la truculenta
richiesta dalla parte. Di livello tutto il resto del numeroso cast.
Il
pubblico della Scala ha reagito con applausi calorosi
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