Ecco come Trump flirta col
protezionismo (e l’Europa sta a guardare)
A un anno
dall’ingresso alla Casa Bianca, il presidente Usa ha preso le prime misure nei
confronti delle importazioni
È in corso
una nuova ventata protezionistica. Ha preso avvio durante la campagna
elettorale di Donald Trump, che si impegnò a difendere, con dazi, tariffe e
contingenti quantitativi, imprese in difficoltà e conseguenti minacce ai posti
di lavoro. Si tenga presente che flirtare con il protezionismo non è consuetudine
del Partito repubblicano (di solito su posizione liberiste), ma del Partito
democratico. A un anno dall’ingresso alla Casa Bianca, Trump ha preso le prime
misure nei confronti delle importazioni di pannelli solari e di alcuni
elettrodomestici, principalmente dall’Asia; altre sono in studio per la
siderurgia, la metallurgia e la meccanica.
Sebbene
ultimamente il presidente Usa abbia ammorbidito il linguaggio, vi sono forti
rischi che il processo di deglobalizzazione inizi dai Paesi ad alto reddito pro
capite, a struttura produttiva avanzata e a forte tecnologia, ripetendo il
copione del 1905, quando terminò la lunga fase d’integrazione dell’economia
internazionale (e di crescita dei redditi e dei commerci) cominciata attorno al
1870. Si parla di neo-protezionismo, ma si tratta in effetti di
proto-protezionismo.
Negli Usa,
l’attacco alla liberalizzazione degli scambi, all’Organizzazione mondialedel
commercio (Omc) e agli stessi accordi regionali (come il Nafta) non solo è
stato al centro della campagna elettorale, ma è uno dei cavalli di battaglia
dei sindacati della grande industria. L’analisi pubblicata dall’ Economic
policy institute (Epi) Trump must act now to protect U.S. steel and aluminum
works del capo economista Robert E. Scott, così come altre analisi della stessa
Epi, attribuisce alla liberalizzazione degli scambi degli ultimi cinquant’anni
non solo la perdita di posti di lavoro nel manifatturiero, ma anche il divario
salariale tra le fasce alte della forza-lavoro e i working poor.
È una
conclusione tendenziosa e artata; lavori di Lawrence Katz dell’Università di
Harvard quantizzano le determinanti del differenziale e individuano la
principale nelle storture di un sistema universitario in cui l’offerta di
laureati in discipline scientifiche non riesce a stare dietro alla domanda. In
aggiunta, studi del Peterson institute of international economics dimostrano
che l’aumento del commercio internazionale ha comportato un incremento di dieci
punti percentuali del reddito nazionale americano tra la ne della Seconda
guerra mondiale e la crisi del 2007.Più complesse le insidie provenienti dal
Vecchio continente. Esse si annidano negli articoli del Trattato di Lisbona in
cui si mantiene la competenza della Commissione europea per i negoziati
commerciali con il resto del mondo su atti d’indirizzo del Consiglio dei
ministri europeo, ma affida al Parlamento europeo il compito di approvare o
respingere gli accordi commerciali conclusi dall’esecutivo. Ciò rende qualsiasi
negoziato molto più complicato e i parlamentari sono comunque propensi a
combattere per gli interessi delle singole aree in cui vengono eletti e a
esercitare un diritto di veto nei riguardi della Commissione, indebolendone il
potere negoziale.
Da un lato,
la liberalizzazione degli scambi è un bene pubblico (non divisibile e non
rivale), quindi non di mercato: fruiscono dei suoi bene ci anche i
protezionisti e tutti coloro che non la vogliono. Da un altro, circa
settant’anni di trattative multilaterali sugli scambi pro- vano che i
negoziatori devono avere pieni poteri perché l’esito sia positivo.
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