GEO-FINANZA/ Italia, i danni
nascosti nella guerra dei dazi
Una guerra
economica è in atto tra Stati Uniti e Cina e rischia di avere conseguenze
dannose, anche se poco evidenti, per le imprese italiane. GIUSEPPE PENNISI 16
aprile 2018 Giuseppe Pennisi
Xi Jinping (Lapresse)
Una delle
determinanti per cui è urgente che l’Italia abbia un Governo, con pieni poteri
e con forte supporto parlamentare - ha detto correttamente a questa testata
Rino Formica - è la minaccia dei tamburi di guerra sul Mediterraneo e il Medio
Oriente. È forse la determinante di politica economica internazionale più
importante e più urgente della riforma della governance dell’Unione monetaria
europea, che dovrebbe essere esaminata al Consiglio europeo di giugno, ma per
la quale si prevedono tempi lunghi.
Ci si
dimentica, però, che una guerra economica è già in atto: quella commerciale in
cui i protagonisti sono gli Stati Uniti e la Cina, ma in cui l’Unione europea,
e l’Italia, rischiano di essere i classici vasi di coccio mentre infuria la
battaglia tra vasi di ferro. Uno studio del Centro Studi Confindustria (nota
CSC n. 18-01, diramata l’11 aprile, a cura di Cristina Pensa e Matteo
Pignatti), esamina tra l’altro i comparti merceologici italiani a rischio sia
direttamente che indirettamente. I secondi sono meno noti, e meno trattati
sulla stampa, anche se sono i più importanti. Essi consistono principalmente
nella distorsione dei flussi commerciali tradizionali per i quali il mercato
americano diventa off-limits; c’è l’alta probabilità che si dirigano verso le
destinazioni rimaste accessibili.
Un caso
concreto riguarda le aziende italiane che vendono tondi per cemento armato, che
possono temere la maggiore competizione nei loro principali mercati di sbocco,
come l’Algeria, di prodotti provenienti, per esempio, dalla Turchia. Più in
generale, tenderanno ad aumentare i flussi in entrata nell’Ue, che nel
complesso è il primo importatore mondiale di acciaio e alluminio. È anche vero
che, se il primo maggio verrà confermata l’esenzione dai dazi, gli esportatori
europei saranno avvantaggiati da un guadagno di competitività sul mercato
americano, che rappresenta il secondo importatore mondiale di acciaio e
alluminio, rispetto a quelli soggetti alle tariffe.
Un altro
effetto agisce attraverso le catene globali del valore: un’azienda che vede
ridursi le proprie vendite di acciaio o di alluminio negli Stati Uniti taglia
anche gli acquisti di beni interni dai propri fornitori, sia interni che
esteri, cosicché la minore domanda si trasmette a monte della filiera
produttiva. In questo modo l’impatto negativo si moltiplica, sia all’interno
del comparto dei metalli, sia in altri settori come l’estrazione di minerali,
l’energia e gli altri servizi di utilità collettiva. Per le aziende italiane
questo effetto sarebbe significativo soprattutto se venissero colpiti dai dazi
anche gli esportatori europei, perché l’integrazione produttiva con le altre imprese
in Europa è particolarmente forte e capillare.
Per esempio,
la minore attività delle aziende siderurgiche tedesche, prime esportatrici
negli Usa, si tradurrebbe anche in un calo della domanda di input intermedi ai
loro fornitori italiani: un canale quantitativamente rilevante, dato che la
Germania è il primo mercato di sbocco dell’acciaio e dell’alluminio italiani.
Esiste, infine, un effetto aggregato, nella misura in cui le perdite di
occupazione e redditi pongono un freno alla domanda interna. La trasmissione
lungo le catene globali del valore, peraltro, sarebbe molto significativa nel
caso dei dazi Usa sui prodotti cinesi, specie high-tech, perché incorporano in
larga misura beni intermedi provenienti da altri paesi.
Secondo
stime Ocse, più del 40% del valore dell’export manifatturiero cinese viene
dall’estero, specie dall’Asia (Giappone, Corea del Sud, ecc.), dall’Europa e
dagli stessi Stati Uniti. Questo non è un caso di scuola. Lo dimostra
l’escalation, per ora fortunatamente bloccata, tra Usa ed Europa, con le misure
di ritorsione preparate dalla Commissione europea su specifici prodotti
americani e gli eventuali ulteriori dazi annunciati da Trump sul settore
automobilistico europeo.
Questo
episodio, poco noto a coloro che non lavorano da anni sui temi del commercio
internazionale, è indicativo di un altro aspetto: l’America di Trump non è sola
nell’osteggiare il sistema di regole multilaterali che governano gli scambi
commerciali internazionali e che ha al suo centro l’Organizzazione mondiale del
commercio (Omc). Ha da anni un alleato nella Commissione europea che non ha mai
nascosto: a) di preferire intese bilaterali tra grandi mercati comuni e aree di
libero scambio a un sistema multilaterale; b) non gradire l’Omc che ha come
parti contraenti i singoli Stati e non entità che si ritengono sopranazionali
come la Commissione medesima. Anche per questa ragione, un Governo con pieni
poteri potrebbe contribuire a specificare i limiti del mandato della
Commissione in questo campo.
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