CLT - Lirica/ Verdi allo Sferisterio. E Macerata rivaleggia con Parma
Macerata, 2 ago (Il Velino) - Il Festival Sferisterio 2010 si presenta con un programma così diversificato, nel tema unificante della “maggior Gloria di Dio”, che è opportuno trattare i singoli spettacoli in due capitoli. Il primo riguarda quello delle tre opere verdiane, dove a Macerata si è tenuto un vero e proprio “minifestival”, tale da gareggiare quasi con quello che avrà luogo in ottobre a Parma. Le tre opere di Verdi danno modo di esaminare il percorso sia filosofico sia musicale dell’“ateo dubbioso”. “I Lombardi alla Prima Crociata” risalgono al 1843. Vengono generalmente considerate “un’opera risorgimentale” anche se il compositore, allora 30enne, si considerava un suddito fedele di Maria Luigia (a cui peraltro il lavoro è dedicato) e per tutta la vita nutrì profonda diffidenza per la politica nonché per la Chiesa, in quanto organizzazione di potere ancora più nefasto e repressivo. È un melodramma di stampo donizettiano, costruito quindi su cavatine, arie, cabalette, duetti, quartetti e gran pezzi concertati per chiudere le singole parti. Cominciano ad apparire cori potenti e vibranti tali da suscitare passione ed entusiasmo. Un amore interreligioso, argomento di grande attualità, è al centro di un melodramma concepito come un’epopea popolare sul cammino verso il Santo Sepolcro. Ha innovazioni importanti quali il concertato iniziale e il ruolo da protagonista affidato al coro.
L’impianto scenico di base (che non cambia per le altre opere in scena quest’anno all’Arena Sferisterio) è una grande pedana con tre praticabili. Con il minimo essenziale d’attrezzeria diventa, di volta in volta, la Milano del 1100, Antiochia, la valle di Giosafat, la caverna , il fiume Siroé, la spianata verso Gerusalemme dove, al termine di complesse vicende, i crociati arrivano e celebrano “la maggior Gloria di Dio”. Efficaci i movimenti delle masse scelte dalla regia di Pier Luigi Pizzi, la coreografia (affidata per tutto il ciclo a Gherghe Iancu) e il coro (guidato, in tutte le opere, da David Crescenzi). Daniele Callegari concerta in modo puntuale e spedito. Il cast è imperniato su tre star internazionali di prima grandezza Dimitra Theodossiou, Francesco Meli e Michele Pertusi. Di grande livello la Theodossiuo e Meli, più volte applaudito a scena aperta. All’impervia parte della protagonista - una delle più difficili del repertorio verdiano - non ha giovato che lo spettacolo fosse all’aperto.
“Attila”, del 1846 appartiene allo stesso genere de “I Lombardi” (il vero e proprio salto stilistico sarebbe stato fatto da Verdi un anno dopo, nel 1847, con Macbeth). Il lavoro rappresenta un progresso rispetto al precedente: il libretto è più compatto e i tre temi - la storia d’amore, l’intrigo e il tradimento con la forza spirituale che blocca l’avanzata degli unni verso Roma (ossia “la maggior Gloria di Dio”) - si intrecciano abilmente. Nell’antigenerale di sabato pomeriggio, quindi ancora un “work in progress”, è stato possibile apprezzare la regia molto efficace di Massimo Gasparon, che in una scena unica ed un elegante gioco di due colori (bianco e blu) riesce a dare sostanza alla complessa vicenda (con aspetti da grand-opéra: processioni, danze) nel piccolo spazio dell’elegante Teatro Lauro Rossi, di appena 400 posti. Troppo baldanzosa è parsa, invece, la concertazione di Riccardo Frizza, che avrebbe dovuto dare un tono quasi cameristico e intimistico agli aspetti musicali. Tra i cantanti attori, primeggia la Odabella di Maria Agresta, che a dispetto del passato da giovane mezzo soprano ora ha assestato la propria vocalità a quella di un soprano drammatico, abilissimo ad ascendere ad acuti spericolati e a discendervi con facilità. Attila è l’afro-americano Nmon Ford, un baritono-basso (mentre la parte vorrebbe un basso tout court). Ha, senza dubbio, “le physique du rôle”: sprizza virilità da ogni poro e sfoggia i propri muscoli quanto concesso in un teatro d’opera italiano. Pur scansando le tonalità più gravi, affronta bene l’impervio ruolo. Ezio è il giovane Claudio Sgura; strappa applausi in “Dagli immortali vertici” e regge efficacemente la difficile parte. Foresto è Giuseppe Gipali, altalenante nel primo atto (ma, ricordiamolo, si era a una prova) e poi progressivamente migliorato.
Tra Attila e La Forza del Destino (la cui prima stesura è andata in scena a San Pietroburgo nel 1862 e la seconda alla Scala nel 1869) Verdi è cambiato sia nella concezione filosofica della vita e della morte, sia nella scrittura musicale. Per certi aspetti, il cambiamento avviene proprio tra le due edizioni; esse hanno differenze profonde (tanto nell’organizzazione del terzo atto quanto soprattutto nella conclusione). Le modifiche del finale pare siano state non una richiesta della Scala ma l’influenza delle frequentazioni con Alessandro Manzoni e la lettura de “I Promessi Sposi”. Nell’edizione di San Pietroburgo, il finale è byroniano: privo di speranza in un quadro desolato si uccidono tutti e tre i giovani protagonisti. In quello scaligero, ormai divenuto “di riferimento” e quindi adottato al Festival, il suicidio di Alvaro viene fermato dal “Non imprecare, umiliati” del Padre Guardiano. Un finale manzoniano, insomma, in cui il rapporto con “la gran Gloria di Dio”, nel caso specifico il perdono, è diventato ancora più complesso e più tormentato.
Sotto il profilo musicale, siamo a uno dei primi esempi di quello che diventerà il “grand opéra” padano, opere grandiose con spazio per il balletto e che richiedono grandi voci, organici e cori. Non solo, viene introdotto un cromatismo molto particolare, tutto verdiano poiché a quell’epoca il Maestro non aveva ancora avuto accesso a Wagner e tornano momenti cameristici (gli “a solo” per clarinetto ed organo) che parevano ormai appartenere al passato. A Macerata (utilizzando lo stesso impianto scenico de “I Lombardi”, con cui “La Forza del destino” condivide la regia di Pier Luigi Pizzi) la vicenda viene imperniata sul contrasto tra i tre giovani (Leonora, Alvaro e Carlo sono sui vent’anni all’inizio dell’opera) e il mondo che li circonda (si spazia tra Spagna ed Italia, tra palazzi, campi di battaglia, osterie-bische, monasteri, impervie montagne e non mancano riferimenti alla lontana America Latina). Ma viene portata da un Settecento di maniera agli anni della Guerra di Spagna. Callegari affronta con destrezza la difficile scrittura musicale. Grande successo dei due giovani protagonisti: la 25enne Teresa Romano e il 30enne Zoran Todorovich nei ruoli di Leonora e Alvaro. Timbri molto chiari, vasta estensione, grande attenzione al registro di centro e alla “mezza voce” e buoni acuti (con il potenziale di diventare buonissimi). Marco De Felice (che avrebbe dovuto cantare Carlo), ammalato, è stato sostituito da Elia Fabian in buca ed un mimo in scena. Di alto livello sia Roberto Scandiuzzi (Padre Guardiano) sia Anna Maria Chiuri (Preziosilla) sia gli interpreti dei numerosi ruoli minori. Sembra che almeno due dei tre spettacoli siano destinati ad una tournée a Hong Kong e Macao. Un modo intelligente ed efficace per promuovere l’immagine dell’Italia.
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