PIANO SUD DA 80 MILIARDI: ULTIMA CHIAMATA PER LA CONVERGENZA
Giuseppe Pennisi
Alla ripresa autunnale, o forse ancora prima, il Governo presenterà alle forze politiche un piano per il Sud di 80 miliardi di euro (da impegnare entro 2013), provenienti in gran misura da risorse Ue non utilizzate ed a rischio di essere dirottate verso altre aree dell’Unione. Il piano dovrebbe rappresentare un’utile occasione di confronto, ed auspicabilmente di coesione, tra maggioranza ed opposizione (nonché tra componenti della maggioranza con sensibilità differenti). In questi giorni, si discute molto su aspetti istituzionali (quali la creazione di una nuova cabina di regia a Palazzo Chigi) e meno di contenuti.
Per mettere sul piatto i contenuti è utile agganciarsi alla teoria dell’integrazione economica. Dagli Anni Sessanta esistono due scuole: secondo una (inizialmente guidata da Bela Balassa) l’integrazione economica è una molla per la “convergenza” tra aree più e meno sviluppate (riducendo, quindi, i divari), per un’altra (fondata, se se vuole, da Gunnar Myrdal), in un processo d’integrazione si rafforza la coesione tra le aree ad alto reddito, il cui benessere, però, si distanzia da quelle a reddito basso che si impoveriscono ancora di più.
Gli inglesi dicono che la prova della qualità di un dolce sta nel mangiarlo. Una diecina di anni fa, Antonio Cenini della Presidenza del Consiglio dei Ministri, PCM; (ora in servizio alla Rappresentanza italiana presso l’Ue a Bruxelles) ha esaminato , per l’Europa allora a 15, cosa era effettivamente avvenuto tra il 1960 ed il 2000. In effetti, si era verificata “convergenza” tra tutte le aree in ritardo di sviluppo ed il resto dell’Ue , ma “divergenza” tra il Mezzogiorno e gli altri. Analisi statistiche più dettagliate mostrano che la svolta è stata attorno al 1975 quando l’alto livello di trasferimenti pubblici pro-capite ha reso meno produttivo il capitale umano (postosi alla ricerca di finanziamenti pubblici non di idee imprenditoriali) e rafforzato la criminalità. Nel primo lustro del nuovo secolo, ci sono stati segni incoraggianti in quanto molte regioni del Sud avevano tassi di crescita maggiori di quelli del Centro-Nord. Nel secondo lustro , invece, la situazione è peggiorata. Precipitosamente.
In base a questo percorso di pensiero economico ed a questa evidenza empirica, l’obiettivo del piano deve essere quello di far “convergere” il Sud con il meglio d’Europa. Ciò comporta due sfide. Una per le pubbliche amministrazioni centrali e per le Regioni. L’altra per chi, come chi scrive, è un meridionale (specificatamente un siciliano etneo).
Le amministrazioni e le Regioni (e quindi la Politica che le guida) devono tornare ai principi del “rapporto Amato” di circa dieci anni fa , e troppo presto accantonato e coperto da una densa coltre di oblio. Scritto da Giuliano Amato con l’apporto dei maggiori centri di analisi e ricerca, concludeva che occorreva porre l’accento sulle politiche di contesto (scuola, legalità, ricerca, efficienza amministrativa), bloccare finanziamenti a pioggia (revocandoli se già deliberati) e concentrarsi su pochi grandi programmi di lungo periodo che , attiveranno sì valore aggiunto ed occupazione nella fase di cantiere, ma di cui, a regime, i maggiori beneficiari saranno le generazioni future. Chi crede nella trascendenza, non può non operare in vista del bene di chi verrà dopo.
I meridionali devono “portare l’Europa”, ossia le prassi europee, nel Sud con la convinzione dell’irreversibilità dell’euro e dell’impossibilità di periodiche svalutazioni competitive come in passato e con la certezza che se non si cambiano atteggiamenti e modi di operare si affoga. Il Mezzogiorno deve metabolizzare l’unione monetaria come l’opportunità che lo costringe a “convergere”.Per bene suo e dei suoi figli e nipoti.
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