sabato 28 agosto 2010

IL PATTO SOCIALE CI SI PUO’ STARE SE E’ AGGRESSIVO Il Tempo 28 agosto

IL PATTO SOCIALE CI SI PUO’ STARE SE E’ AGGRESSIVO
Giuseppe Pennisi
Prima di discutere i contenuti e le specifiche di un nuovo “patto sociale”, occorre risolvere due nodi: a) quale tipologia di accordo ci si appresta a negoziare; b) come si inserisce nell’”efficienza adattiva” dell’industria italiana (ossia del modo in cui le imprese del nostro Paese all’integrazione economica internazionali ed alle trasformazioni che essa comporta).
Il primo nodo è stato chiaramente individuato , circa 20 anni fa, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’unica agenzia internazionale nei cui organi di governo siedono i rappresentanti delle confederazioni sindacali mondiali. Ci sono due vaste categorie di “patti”: quelli “difensivi” – diretti a tutelare l’esistente (a volte con un occhio rivolto al passato)- e quelli “aggressivi” – diretti, invece, a facilitare l’adattamento ad un contesto in rapida evoluzione e, se possibile, a far da guida al cambiamento. In Italia, il ciampiano Patto di San Tommaso del 1993 ed il prodiano Accordo di Natale del 1998 sono esempi della prima categoria, mentre il Patto di San Valentino del 1984 Protocollo sul Welfare del 2007 contengono cenni della seconda.
Del secondo nodo, in Italia co-esistono due modelli, distinti tra loro e per certi aspetti contrapposti. Il primo è quello importato negli Anni Ottanta dalle Isole nipponiche in molti Paesi europei (anche in Francia ed in Germania): in giapponese esiste un termine kaizen, evoluzione graduale e progressiva ma all’insegna della tradizione aziendale e della continuità. Le medie imprese seguono, invece, un altro modello – ben individuato dall’economista inglese D.H. Pyle nei “distretti” dell’Italia centrale e della costiera adriatica e ionica: mutamento tramite discontinuità in stile anglosassone– ossia cambiamenti secchi caratterizzati da segnali forti a tutti gli interessati (dipendenti in primo luogo).
Chiaramente un’intesa su come sciogliere il primo nodo è la premessa per risolvere il secondo e porre le basi per delineare i contenuti di un eventuale “patto” . Il passato non può cambiare, ma non può neanche tornare. Un “patto” difensivo è votato al fallimento, come lo sono stati il Patto di San Tommaso del 1993 e l’Accordo di Natale del 1998. Occorre oggi un “patto” molto più aggressivo di quello, limitato peraltro al welfare, di circa tre anni fa: un “patto” che promuova meritocrazia, mobilità sociale , disponibilità al mutamento di mansioni e di sede di lavoro, con l’obiettivo di portare l’industria italiana in posizione di leadership non di traino.
La Fiat, al pari di molte altre grandi imprese italiane, è stata per decenni una delle cariatidi del kaizen. Per questo motivo, Sergio Marchionne ha inteso dare forti segni di discontinuità (da ultimo a Pomigliano e a Melfi). Alla discontinuità i fautori delle vecchie prassi potranno irrigidirsi , non solo da parte sindacale ma anche all’interno della stessa Fabbrica Italia, e rendere il nodo ancora più stretto. Abbiamo fiducia nel detto napoleonico: “L’intendenza seguirà”.

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