giovedì 12 agosto 2010

EUROEVOLUZIONI Il Foglio 13 agosto

EUROEVOLUZIONI
Giuseppe Pennisi
Tra qualche settimana, all’inizio di autunno, Bruxelles si desterà dal consueto letargo estivo per una serie di importanti appuntamenti europei ed internazionali. Sul piano strettamente comunitario, di grande rilievo la riunione dell’Eurogruppo il 9 settembre e quella dell’Ecofin il giorno seguente, nonché la discussione del bilancio dell’Unione in calendario il 19 settembre. Sul piano bilaterale, due “vertici” di peso : quello Ue-Usa il 3 settembre e quello Ue-Russia il 18 settembre. Inoltre la preparazione della posizione “europea” in vista dell’assemblea annuale del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale all’inizio di ottobre e del G20 che si terrà in Corea in novembre. Quale sarà il ruolo dell’Italia nel forgiare, prima, la posizione Ue e nell’influire, poi, con il resto dei partner europei, su quella internazionale?
Per tentare di dare una risposta è interessare scorrere le bozze dell’ultimo lavoro di Federiga Bindi in uscita per i tipi della Brookings Institutions di Washington (dove è stata Visiting Fellow per un anno) e raffrontarlo con un lavoro analogo che lei stessa pubblicò nel 1993. Federiga Bindi è una ricercatrice di scienza della politica all’Università di Roma Tor Vergata, dove è stata titolare della cattedra Jean Monnet sull’integrazione europea. Ha insegnato in varie università europee ed americane Adesso è anche uno dei consiglieri del Ministro degli Esteri Franco Frattini e collabora con la Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) in programmi diretti a fare diventare “più europea” la nostra funzione pubblica. Giovane e facilmente accessibile, è uno dei rari studiosi che cerca di rispondere , con analisi d’archivio piuttosto che con luoghi comuni, agli interrogativi su perché l’Italia abbia contato, e conti, ancora relativamente poco nell’Ue nonostante ne sia stata uno dei Paesi co-fondatori ed il Trattato su cui si regge l’intero edificio sia stato firmato a Roma.
Nello studio del 1993, le sue analisi confermavano quanto era sulla bocca di tutti coloro che si interessano d’Europa: per decenni abbiamo pesato, nelle decisioni Ue, meno del nostro apporto economico e del nostro ruolo nella storia dell’integrazione europea a ragione della breve durata dei Governi, di alleanze occasionali con altri partner europei (a volte con obiettivi in conflitto con i nostri), la scarsa propensione della burocrazia a cercare di imparare dalle prassi degli altri, poca attenzione alle politiche europee da parte del Parlamento, dei media e dell’opinione pubblica. In breve , siamo stati a lungo (oltre 40 anni) affetti dalla “sindrome del cofondatore”; ripetiamo a destra ed a manca di essere stati nel piccolo gruppo di testa (3 Stati di grandi dimensioni e 3 di piccole) che ha fondato l’Ue – proprio per questo motivo siamo corsi all’euro ed abbiamo ratificato trattati senza neanche discuterli - ma non ne abbiamo né svolto il ruolo né avuto i vantaggi.
Dal suo nuovo lavoro (“Italy and the European Union”, Brookings Institution Press, 240 pp. $ 28.95) traspare che, nell’ultimo decennio, ci sono stati miglioramenti. Il più importante è la relativa stabilità dei Governi, dovuta anche al fatto che per otto dei dieci anni il Presidente del Consiglio e la compagine di governo non sono mutati che per il breve interludio del Ministero Prodi. Inoltre, il Dipartimento per le politiche comunitarie sta svolgendo un buon lavoro di coordinamento. L’amministrazione ha cominciato non solo a imparare dalle altri ma anche a recepirne il meglio. A riguardo, anche se il volume non lo sottolinea quanto dovuto, hanno avuto un ruolo importante i corsi concorsi e le iniziative da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze e della Presidenza del Consiglio che hanno immesso nella pubblica amministrazione , dopo una selezione molto competitiva, giovani dirigenti spesso bilingui e quasi sempre con esperienze nel privato o enti internazionali. Ciò ha portato energie nuove in posizioni di responsabilità.
Restano ancora alcune malattie di sempre. Ad esempio, il libro traccia un quadro imbarazzante dell’ultimo anno della Presidenza Prodi alla Commissione Europa quando il nostro seguiva più il proprio rientro nella politica italiana(peraltro non contrassegnato da successo) che gli affari comunitari. Oppure, la decisione di ridurre il numero degli italiani al Parlamento Europeo assunta mentre la nostra delegazione dell’Italia era nella stanza accanto a seguire, al telefono, vicende nostrane. Il punto centrale è che non abbiamo tessuto, all’interno del club Ue, una chiara politica d’alleanze di lungo periodo e non la abbiamo perseguita con costanza. Per questo, la sindrome di avere il pennacchio di essere stato uno dei cofondatori ma di contare meno dei nuovi arrivati minaccia di perseguitarci come l’ombra di Banco. Pure agli appuntamenti di settembre.

Nessun commento: